Alfredo Bryce Echenique (Lima, 1939) è, insieme a Mario Vargas Llosa, considerato il più importante scrittore peruviano della sua generazione. Nato a Lima nel 1939, nella stessa città si laurea in giurisprudenza e in lettere all'Universitad Nacional de San Marcos. Nel 1964 decide di rompere con le tradizioni familiari e viene in Europa per diventare scrittore. A Parigi nel 1964 consegue il dottorato in lettere presso la Sorbona. Successivamente viaggia in Italia, Germania e Grecia. Si stabilisce in Francia - ove insegna in diverse università - fra il 1968 e il 1984, data in cui si trasferisce in Spagna, dove attualmente risiede. Soggiorni comunque sempre interrotti da più o meno lunghi periodi trascorsi nella sua terra natale.Si è laureato prima in diritto e poi in letteratura inglese presso l’università Nacional Mayor de San Marcos (1977). Ha insegnato nelle università di Nanterre, Paris e Montpellier. Con una prosa improntata all’ironia più che al realismo magico tipico della letteratura latino-americana, ha esordito nel 1968 con la raccolta di racconti Huerto cerrado, che descrivono la dolce vita di un benestante nella Lima degli anni Cinquanta. Due anni più tardi è uscito il suo primo romanzo, divenuto un classico della letteratura latino-americana, Un mundo para Julius (trad. it. 2006), con protagonista ancora una volta un giovane dell'upper class peruviana dotato di una forte empatia per i domestici e i bisognosi. Dopo La vida exagerada de Martín Romaña (1981; trad. it. 2008), No me esperen en abril (1995), è tornato al successo con La amigdalitis de Tarzán (1998; trad. it. La tonsillite di Tarzan, 2001), un romantico e ironico rapporto epistolare tra un'aristocratica salvadoregna e un poeta peruviano nei difficili anni delle dittature sudamericane. Altri lavori sono El huerto de mi amada (2002; trad. it. 2003), Las obras infames de Pancho Marambio (2007) e Crónicas personales (1987, ed. rivista di A vuelo de buen cubero, 1977; trad. it. Cuba a modo mio. Antimemorie, 2010).
La radicalizzazione del buon selvaggio è, senza dubbio alcuno, una delle maggiori prove che l’America Latina continua e continuerà ancora ad essere scoperta ed inventata dall’Europa. Non è più l’epoca del marxismo e del Che Guevara, quando era quasi impossibile mangiare nel Quartiere Latino di Parigi, o nelle equivalenti zone di Stoccolma, Bruxelles, Berlino Ovest o Amsterdam, senza che nel ristorante facesse la sua apparizione un gruppo musicale latinoamericano, sempre di sinistra, e l’ambiente si riempisse di quenas, charangos, zampogne, tamburi ed altri strumenti ad alto contenuto rivoluzionario. Il flauto andino, così chiamavano in Francia [e in Italia, ndt.] la quena, era uno strumento che apriva tante porte alla pigra “diplomazia” terzomondista, proprio come anni prima aveva fatto per la vera diplomazia nordamericana la tromba di Louis Armstrong, il quale finì per essere conosciuto con il nome di “Ambassor” Satch.
Le guerriglie e le sinistre latinoamericane degli anni Sessanta e Settanta si musicalizzavano al ritmo del paternalismo intellettuale europeo, sempre ben predisposto a comprendere tutto, una volta per tutte, quando si trattava della “sua” America, grazie ad una semplificazione ogni volta maggiore della precedente. E mentre la guerra atroce investiva con tutto il suo lusso di orrori e televisori i villaggi vietnamiti e cambogiani, i buoni selvaggi latinoamericani continuavano a capitalizzare coi loro esili – tanto europei quanto musicali e folkloristici – l’interesse, la comprensione e l’aiuto di un pubblico insaziabilmente pro indigeno. Dio mio! La quantità di ponchos e mantelle e tappeti e la quantità di oggetti peruviani, guatemaltechi, messicani o boliviani che si vedevano e si vendevano in quegli anni in Europa! Era, oltre tutto, una combinazione di peccato mortale e di deviazionismo destrorso entrare in un ristorante parigino e dire: «Non la sopporto più la musica pseudo-andina», o arrivare a casa di una ragazza italiana o di un amico svedese e non avere i dischi dei “Los indios del sol” impilati sopra gli obbligatori ponchos dai colori incaico-indelebili che anche il Che Guevara usava sempre, anche se non li aveva usati mai, e nelle cui magiche figure si nascondevano enigmi tanto grandi e profondi quanto i nostri cento anni di solitudine.
Quanto detto finora potrà sembrare frutto di un’enorme esagerazione. Modestia a parte, devo confessare che è solo il frutto di un profondo desiderio di onestà e di un perenne sforzo di chiarimento relativo a tutto ciò che l’Europa s’inventa sull’“America Latina”, e che gli opportunisti latinoamericani di turno mandano giù e sfruttano con la docilità che corrisponde ad un eccellente buon selvaggio. Perché l’Europa ha creato l’America a sua immagine e somiglianza, e ad oggi pare proprio non voler rinunciare a godere del prodotto del tutto sbagliato dei suoi sogni e dei suoi incubi.
«Borges – mi diceva un professore di letteratura latinoamericana, francese, e a Parigi – non è latinoamericano. Non lo è perché nei suoi libri non ci sono terremoti, né colpi di Stato, né indios, né fa caldo e nessuno vi muore di fame. Borges – concludeva lo stesso professore – è uno scrittore francese di seconda categoria perché scrive in spagnolo». Che fare contro tutto ciò, quando quella stessa notte, in un ristorante del Quartiere Latino, decine di commensali avrebbero vibrato, con tutto il loro incosciente paternalismo, con tutta la loro incosciente buona coscienza, al ritmo di un gruppo di flauti andini e di tellurici tamburi, suonati a cambio di qualche moneta da tristi ragazzi provenienti da un continente vulcanico?
C’era molto poco da fare, davvero, con questo buon selvaggismo, le cui origini “rousseauiane” pesavano troppo rispetto alla fragilità dei nostri tentativi di spiegare che le cose non erano così semplici. Perché sì che lo erano. Perché l’Europa dormiva meglio se così erano. E perché sarebbe stato profondamente reazionario che non lo fossero, che le cose invece fossero, anche solo un poco, meno semplici, un poco più sfumate, e soprattutto, non così terribilmente manichee.
Mi è sempre piaciuto riflettere sul senso di questa mia scoperta dell’America in Europa. Su come, poco a poco, sono riuscito a penetrare in questa America immaginaria e su come, al tempo stesso, noi sudamericani, siamo arrivati a sognare tanto l’Europa che, a volte, fermi a contemplare per la prima volta alcune delle sue grandi cattedrali, per esempio, non riusciamo a provare più alcuna meraviglia o godimento estetico. Al contrario, ciò che sentiamo è una leggera delusione, qualcosa di molto simile ad un inganno appena scoperto, e a una sensazione di leggera malinconia anche, perché laggiù nella nostra America, nelle nostre Buenos Aires, Montevideo, Lima o Santiago, le cattedrali di Chartes o di Notre Dame di Parigi erano parecchio più belle, in quei nostri coloniali e colossali sogni, frutto di mille letture e frustrazioni, frutto pure di un etnocentrismo europeo che ci ha colpito per secoli con l’irradiazione della sua cultura.
Andirivieni della storia falsa e ufficiale, che però tuttavia il buon selvaggio opportunista, l’eccellente buon selvaggio, non prende minimamente in considerazione, nonostante che di questi viva e che a questi dia il suo contributo. Contributo interessato, segnalo. Era, certo, molto difficile spiegare Borges a quel professore, grande specialista di letteratura latinoamericana. E così, passata oramai l’epoca del romanticismo guevarista e giunti gli anni del terrorismo senderista in Perù o della Multinazionale Latinoamericana del Narcotraffico, il flauto andino non suona più e i buoni selvaggi di sempre, però di ieri, cedono il passo ai buoni selvaggi di sempre, però di oggi. È giunta l’ora di un nuovo e leggero cambio di pelle per l’eccellente buon selvaggio. Ieri ha combattuto con le guerriglie del Che. Oggi è uno spaccino sulle Ramblas di Barcellona o fra i canali di Amsterdam. O è un importante inviato di Sendero Luminoso presso la corte celestiale della democrazia europea. Per esempio.
[Tratto da Alfredo Bryce Echenique, A trancas y barrancas, Barcelona, Editorial Anagrama, 1996, traduzione di Nicola Farinelli]