Alessia Giannotta (1999), dopo il diploma di istruzione secondaria di secondo grado presso il Liceo delle Scienze Umane di Pistoia, ha conseguito la Laurea triennale in Lettere moderne presso l’Università di Firenze con tesi dal titolo Storia dell’Università nel Medioevo, discussa con il Prof. Francesco Salvestrini, e quindi la Laurea magistrale in Filologia moderna, sempre presso l’Università di Firenze, discutendo con il Prof. Enrico Faini una tesi dal titolo Dal modello epistolare di Pier della Vigna alghibellin fuggiasco: l'importanza deldictamen della corte sveva per la formazione culturale e politica di Dante Alighieri.
È possibile che Federico II di Svevia e la sua corte abbiano influenzato il pensiero politico di Dante e, nello specifico, il suo concetto di Impero?
Analizzando la Monarchia si comprende come per il Poeta l’esistenza e l’autorità dell’Impero siano assolutamente necessarie e legittime per natura: l’uomo, infatti, disponendo sia del corpo sia dell’anima, è partecipe di un fine naturale e di uno soprannaturale e pertanto necessita di due guide differenti e autonome, il papato e l’Impero, che siano in grado di condurlo verso il perseguimento di entrambi i fini. Ne consegue che il potere laico non è subordinato in alcun modo a quello ecclesiastico e che il monarca, ricevendo le proprie prerogative direttamente da Dio, è legittimato a governare in maniera indipendente rispetto al pontefice.
Posto questo e superando la tradizionale distinzione tra guelfi e ghibellini, come si inseriscono Federico II e la sua corte in una simile concezione?
Non disponendo di un trattato dell’Imperatore, per conoscere la sua visione politica dobbiamo rifarci alla summa dictaminis del suo uomo più fidato, nonché dictator più illustre dell’epoca, Pier della Vigna. Non è un caso che siano proprio delle lettere a custodire il pensiero del sovrano: la scrittura epistolare, infatti, costituisce il cuore della propaganda politica tra i secoli XIII e XIV, soprattutto presso la corte federiciana.
Dalle opere dell’Alighieri emerge quella che sembra una chiara volontà di riscattare la figura dello Svevo. Nel Convivio e nel De vulgari eloquentia, per esempio, Dante definisce Federico come l’ultimo Imperatore dei Romani degno di questo titolo e, insieme con il figlio Manfredi, un eroe e un grande principe che ha disdegnato il vivere come bestie; parole di forte impatto utilizzate nei confronti di colui che una certa narrativa papale ha fatto passare alla storia come l’Anticristo, parole che denotano una sincera stima non soltanto per quel progetto politico-culturale avviato presso la corte dello Stupor Mundi, ma anche e soprattutto per la sua persona. Un rispetto che pare messo in evidenza nella Commedia, opera in cui Dante con grande e intelligente sottigliezza tenta di riabilitare tutta la famiglia di Federico. Eppure è nella bolgia infernale che incontriamo il sovrano, il quale viene presentato al Poeta dallo spirito di Farinata degli Uberti, dopodiché più niente viene pronunciato su di lui; un silenzio, questo, che, sofisticamente studiato e pensato da Dante, ritroviamo anche nei discorsi che l’Alighieri fa pronunciare a Pier della Vigna in Inferno XIII e a Manfredi in Purgatorio III, ma che decide di rompere in quello esposto da Piccarda Donati in Paradiso III quando comunica al Poeta la presenza, lì, proprio nella cantica degli spiriti beati, dell’anima di Costanza d’Altavilla, la madre di Federico. Perché allora l’Imperatore viene collocato nella dimora di Lucifero? Decidendo di salvare sia la madre sia il figlio Manfredi, anch’egli, si ricorda, scomunicato come il padre, si rivela chiara l’intenzione di Dante di riabilitare la famiglia ghibellina per eccellenza e dunque Federico non può essere stato posto all’inferno a causa di vedute differenti in materia politica. Intentio vero nostra est manifestate in hoc libro de venatione avium ea, que sunt, sicut sunt, et ad artis certitudinem redigere, quorum nullus scientiam habuit hactenus neque artem, questo il titolo che lo Svevo diede alla sua opera con l’evidente obiettivo di presentarsi come indagatore e conoscitore di tutte le cose e quindi come sovrano non soltanto degli uomini, ma anche della Natura stessa, fornendo ai suoi sudditi un’immagine di sé come Re assoluto. In tali parole sono da ricercarsi le motivazioni che hanno spinto Dante a non potere salvare l’anima di Federico: la sua infinita curiosità, con la quale ha tentato di superare i limiti della ragione umana imposti da Dio, e dunque sacri, era indifendibile anche per la sua immensa intelligenza. E così l’Alighieri sceglie una strada più facilmente percorribile, riscatta Federico attraverso la madre e il figlio. Manfredi, infatti, si trova in Purgatorio e il Poeta lo descrive a noi lettori scrivendo che “biondo era e bello e di gentile aspetto”, legando così l’immagine del figlio dell’Anticristo a quella del secondo Re di Israele, Davide, del quale si rammenta nelle Sacre Scritture che “era fulvo, con begli occhi e gentile di aspetto”. Non è certamente l’analogia fisica ed estetica che ci interessa, bensì il legame storico che viene instaurato tra due sovrani diametralmente opposti, da una parte uno scomunicato e dall’altra il prescelto di Dio.
Il tentativo di restituire prestigio all’Imperatore più controverso di tutto il Medioevo pare indubbio, ma in che modo è possibile stabilire con certezza se effettivamente la politica di Federico e della sua corte abbia influenzato in qualche modo il pensiero del Fiorentino? Due sono gli elementi su cui dobbiamo porre la nostra attenzione: il canto in cui incontriamo Pier della Vigna e le undici epistole.
In Inferno XIII Dante ci offre la lettura di un discorso costruito seguendo alla perfezione le regole dell’ars dictaminis, in modo tale da rendere omaggio al Maestro capuano. «Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo», così prende parola lo spirito di Piero ed è proprio con questa frase che ci è permesso constatare che l’Alighieri ha attinto direttamente alla summa del dictator per costruire il passo con cui gli offre la possibilità di discolparsi dall’infamante accusa di tradimento nei confronti del suo Imperatore. La metafora delle chiavi, infatti, non è riscontrabile soltanto nel passo biblico nel quale si narra il momento in cui Cristo affidò le chiavi del Cielo all’apostolo Pietro, ma anche nell’elogio che Nicola da Rocca, allievo del logoteta imperiale, scrisse in suo onore, «tamquam Imperii clauiger claudit», alludendo con queste parole alla facoltà di cui disponeva il Capuano di decidere le sorti dell’Impero di Federico. La versione italianizzata utilizzata da Dante sembra davvero richiamare quella latina di Nicola e questo dimostra non soltanto che il Poeta conosceva il contenuto delle lettere sveve, ma soprattutto che a esse si fosse ispirato proprio per strutturare il discorso di presentazione dell’anima di Pier della Vigna. Inoltre, si ricorda che all’interno di almeno una redazione dell’Epistolario di Piero, l’elogium di Nicola da Rocca segue quello composto proprio dal Capuano con lo scopo di omaggiare le magnifiche qualità di Federico II. Che Dante avesse letto anche quello e che ne fosse rimasto assai affascinato è altamente probabile.
Veniamo dunque alle undici epistole dantesche. Analizzandole e confrontandole accuratamente con quelle sveve è possibile rinvenire al loro interno molti sintagmi già presenti nelle lettere scritte da Pier della Vigna. La maggior parte di questi paralleli fa riferimento principalmente o alle Costituzioni di Melfi o a Collegerunt, l’invettiva con la quale lo Svevo si scagliò contro tutta la curia papale, in particolare modo contro il pontefice e i cardinali per le politiche adottate nei suoi confronti; tale rimando è decisamente significativo se consideriamo che Dante si è ispirato a simili testi soprattutto per la composizione delle epistole “arrighiane”, ovvero quelle di natura politica, all’interno delle quali anch’egli si rammarica profondamente con i rappresentanti ecclesiastici per la loro condotta e quella di tutta la Chiesa, auspicando una rapida venuta dell’Imperatore nella speranza di ristabilire l’ordine già precedentemente voluto da Dio. Ciò testimonia una certa armonia tra la visione politica di Federico II e quella del ghibellin fuggiasco e dunque, sebbene ci siano non poche differenze formali nei due dictamina, si crede più per un bramoso desiderio dantesco di superare un canone ormai consolidato da anni nell’intento di mettere in mostra la propria maestrìa, la possibilità che la corte federiciana abbia esercitato una determinata influenza sul pensiero politico di Dante sembra più che verosimile.