Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.
Recensione a
P. Kolozi, Conservatives Against Capitalism. From the Industrial Revolution to Globalization
Columbia University Press, New York 2017, pp. 264, € 59,29.
Peter Kolozi, professore di scienze politiche presso la City University of New York, ha dato vita a un’interessante ed esaustiva storia delle idee politiche conservatrici americane critiche del capitalismo: Conservatives Against Capitalism. From the Industrial Revolution to Globalization. Secondo Kolozi, infatti, il movimento conservatore americano si configura tutt’altro che per l’essere stato in passato, e l’essere nel tempo presente, un monolite sul piano ideologico. Se, come egli ha modo di argomentare, la tendenza è quella di concepire i conservatives come parte politica favorevole all’economia di mercato o, come egli scrive, al laissez-faire capitalism, sin dagli albori della storia politica americana, e precisamente egli parte dalla rivoluzione industriale, sono state elaborate penetranti e profonde critiche al sistema di mercato, andando a proporre come alternativa il sistema schiavistico nel sud degli Stati Uniti, oppure una radicale decentralizzazione sul piano economico o un welfare state ma di stampo conservatore.
Ciò che sostiene l’Autore, in sostanza, è che la critica del sistema capitalistico, con ciò intendendo come da egli sottolineato nelle note inziali, un sistema economico imperniato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e al cui centro vi è il fine del profitto, non è stato sempre e solo appannaggio della sinistra: il movimento conservatore americano, dunque, non è stato sempre e solo libertarian, ovvero pro-mercato. Del resto, com’è noto, vi è stata, durante il Novecento, sì una convergenza delle posizioni conservative attorno al tema dell’anticomunismo, ma le due principali anime in seno al movimento sono risultate di difficile amalgama: da un lato, i tradizionalisti come Russell Kirk e Richard M. Weaver, ma anche Robert Nisbet, per citare i più autorevoli esponenti, hanno posto l’enfasi sul concetto di ordine sociale, valori tradizionali, gerarchia e stabilità; dall’altro, libertarians quali Mises e Hayek, pure non americani ma trasferitisi per un periodo negli Stati Uniti e fondamentali per lo sviluppo delle idee del movimento, Murray Rothbard per arrivare a Milton Friedman, hanno posto al centro della loro discussione, pure con talvolta importanti differenze, il tema della libertà e dell’individualismo, facendo del discorso economico il fulcro delle loro argomentazioni – si ricordi, a tal proposito, come Hayek ebbe modo di dire in moto perentorio come non fosse un conservative, o l’intransigenza di Mises attorno all’idea di mercato senza possibilità di terze vie. Si può ben dire, dunque, che se i tradizionalisti sono stati assai scettici, per non dire contrari, nei confronti dell’idea di progresso, i libertarians, che in lingua italiana chiameremmo forse liberali classici, ma che comprendono anime ben diverse le une dalle altre – dai monetaristi à la Friedman ai liberali classici di natura austro-scozzese come Hayek per giungere agli anarco-capitalisti come Rothbard – concepiscono il progresso, se non guidato da alcun intervento di natura politica, come il frutto positivo degli scambi individuali ovvero delle relazioni umane spontanee e contrattuali.
Al netto dei cosiddetti neocon, i quali hanno elaborato una propria via al welfare state, si può ben dire, però, come ricorda Kolozi, che sia i tradizionalisti che i libertarians sono risultati profondamente ostili al welfare state di matrice liberal, visto come il prodotto di un’ingegneria sociale volta all’imposizione di una sempre più livellante e conformistica eguaglianza. Secondo tutti i conservatori, infatti, le diseguaglianze sono un dato di fatto ineliminabile e altamente indesiderabile è il tentativo di eliminarle redimendo la società: le conseguenze inintenzionali potrebbero essere in tal senso alquanto spiacevoli. Tuttavia, ciò non significa che ogni intervento statale sia visto come necessariamente negativo, secondo i conservatori anticapitalisti.
Nel primo capitolo, Kolozi si sofferma in primis sui difensori del sistema schiavistico, quali primi conservatori che hanno offerto una critica al capitalismo. Come molti pensatori di sinistra, tali conservatori concepivano il capitalismo come sistema alienante e sfruttatore: esso minava le istituzioni tradizionali e le naturali gerarchie sociali, dando vita a un’economia e a una società incentrata sull’individuo astratto, anziché sulle classi e l’armonia sociale derivante da un assetto sociale stabile. Autori come John C. Calhoun, James H. Hammond e George Fitzhugh concepivano un’economia stabile come prerequisito per una società, una cultura e una politica conservatrice, asserisce Kolozi. Il capitalismo di natura laissez-faire, data la sua caratteristica peculiare di estrema instabilità, non fa altro che creare condizioni sociali di estrema precarietà, minando così l’ordine sociale. L’ordine del “vecchio sud”, comparato al sistema di lavoro libero tipico del nord, era meglio equipaggiato per attenuare gli antagonismi tra i proprietari dei mezzi di produzione e le classi lavoratrici. I difensori del sistema schiavistico ritenevano che le relazioni padrone-schiavo, mutualmente benefiche, rendevano la società più razionale, umana e accettabile. La natura impersonale del mercato non solo immiseriva da un punto di vista economico, ma anche morale: sotto il capitalismo, infatti, tutti i rapporti vengono ridotti a questioni di tipo commerciale, erodendo così il valore pre-economico degli stessi. Sotto il capitalismo, insomma, i legami forti che relazioni servo-padrone assicuravano, con l’obbligazione del padrone di proteggere e fornire assistenza ai suoi sottomessi sia in tempi prosperi che in tempi di miseria.
Il secondo capitolo, poi, si focalizza sulla critica al capitalismo laissez-faire in Brooks Adams e Theodore Roosevelt. Alla fine dell’Ottocento, la concentrazione di grandi conglomerati economici fu senza precedenti. In reazione a tali trasformazioni, Adams e Roosevelt propugnavano riforme per imbrigliare un’economia vieppiù basata sull’egoistica ricerca dell’interesse privato. Se era vero che il sistema capitalistico dava vita a un generalizzato benessere, era altresì vero che si stavano venendo a determinare condizioni plutocratiche e così serviva l’intervento governativo. Si tratta, allora, sì di una posizione anti-socialista e anti-egalitaria, ma al contempo favorevole all’intervento centrale per correggere alcuni punti critici del capitalismo. Essi non volevano né rimpiazzare il sistema con un’alternativa, né decentralizzarlo à la Jefferson: essi proponevano la centralizzazione politica, la regolazione economica e un’espansione imperialistica verso l’esterno. Come sintetizzato da Kolozi, la loro era, per dirla quasi con un ossimoro, un’alternativa capitalista di tipo statalista.
Il terzo capitolo, invece, ha come focus la visione agraria degli anni Venti e Trenta del Novecento. Dopo la fine della Grande Guerra, vi erano stati considerevoli cambiamenti nella società americana. Il declino delle fattorie, l’industrialismo che avanzava e l’agricoltura che perdeva invece centralità, ebbero un profondo impatto sullo stile di vita sudista. Il corporate capitalism, insomma, stava minando le tipiche peculiarità del sud. E così gli agrari del sud tentarono, perlomeno sul piano delle idee, a proporre di reintrodurre un sistema basato sul farmer bianco, sull’attaccamento comunitario e ai ritmi della natura, un forte sentimento religioso e una visione gerarchica e stabile della società.
Particolarmente degno di nota, in tal senso, è stato il manifesto del 1930 I’ll Take My Stand in cui un gruppo di professori e studenti della Vanderbilt University si proponeva di difendere l’agrariann way of life dall’espansionismo individualista, industrialista e borghese del nord degli Stati Uniti. Pur essendo sempre stati visti come un movimento assai particolare del conservatorismo, e non sempre ben visti dallo stesso movimento, eccezion fatta per Weaver, Kirk e Bradford, per esempio. Visceralmente critici del capitalismo, gli agrari erano assolutamente critici della modernità, con ciò intendendo un modo di vedere il mondo da un punto di vista individualistico e progressista. E non è per nulla peregrino concepire tale reazione come l’ultima e più radicale di tipo conservatore del Novecento: il corporate capitalism, secondo loro, non solo era un male in sé, giacché esiziale per il sistema economico e sociale del sud, ma perché ben si impastava con un altro nemico, ovvero lo stato centralizzato. D’ispirazione per molteplici pensatori conservatori successivi, come i già citati Kirk e Weaver, ma anche i paleo-conservatori come Gottfried, Fleming e Francis, la loro reazione antimoderna è stata anche apprezzata da autori di sinistra che, col tempo, hanno fatto proprie posizioni assai prossime alla reazione agraria, come Eugene Genovese, Christopher Lasch e Wendell Berry.
Il quarto capitolo del volume Kolozi lo dedica ai cosiddetti new conservatives, ovvero quei pensatori che dopo la fine della Seconda guerra mondiale hanno dato vita alla rifondazione del movimento conservatore americano: in particolar modo Russell Kirk, Peter Viereck e Robert Nisbet. Ciò che accomuna primariamente tali pensatori, sottolinea Kolozi, è che al posto della difesa dell’individualismo e del libero mercato promosso da autori passati come Herbert Spencer e William Graham Sumner, essi prediligevano il conservatorismo espresso massimamente da Edmund Burke. Secondo loro, il mercato doveva essere subordinato alla preservazione di istituzioni come la famiglia, la chiesa, le comunità locali e i costumi tradizionali. Al contempo, e con ancora più veemenza, essi criticavano il New Deal come rivoluzione sociale, non solo per l’inaridimento delle istituzioni sopradette, ma anche perché esso aveva potenziato, e considerevolmente, il potere dell’intervento centrale sulla vita delle persone e delle comunità.
Il quinto e sesto capitolo si occupano, rispettivamente, delle critiche neoconservatrici e di quelle paleoconservatrici. Le prime, scrive Kolozi, sono al proprio interno diversificate in almeno due correnti. La prima è stata primariamente portata avanti da Irving Kristol e Daniel Bell. Secondo essi, il capitalismo inaridisce le cosiddette virtù borghesi associate all’etica protestante. In buona sostanza, essi auspicavano il risveglio della tradizione giudaico-cristiana al fine di risanare il gap morale che il capitalismo creava. La seconda corrente dei neocon (William Kristol, Robert D. Kagan, David Brooks), afferma Kolozi, vedeva invece gli Stati Uniti come potenza che doveva esportare il capitalismo democratico all’esterno del Paese. Secondo essi gli Stati Uniti sarebbero investiti da una sorta di missione globale volta a creare un sistema a propria immagine e somiglianza. Solo assolvendo tale missione in politica estera, gli Stati Uniti potrebbero rimoralizzarsi al proprio interno.
L’ultima corrente conservatrice critica del capitalismo studiata da Kolozi, quella paleoconservatrice (Paul Gottfried, Patrick Buchanan, Samuel Francis), è definita come essenzialmente populista. Particolarmente critica dei neo-conservatori, visti come conservatori mainstream e traditori della vera tradizione conservatrice, tale corrente impronta il proprio discorso critico su tre principali punti: l’élite manageriale che erode la tenuta delle culture e delle istituzioni locali tradizionali; il welfare state di natura liberal, che crea una società di stampo paternalistico e uniformata; il capitalismo basato sul commercio internazionale globale come massimamente pericoloso per la tenuta tradizionale interna.
Nelle conclusioni Kolozi scrive che il conservatorismo si trova «at a crossroads», cioè a dire ad un bivio. Il libro è stato pubblicato infatti nel 2017, ovvero in seguito alle elezioni che hanno visto vincitore Donald Trump. Trump, scrive Kolozi, ha manifestato alcune pulsioni tipiche dell’ultima corrente conservatrice esaminata, ovvero quella paleo-conservatrice. Dopo decenni di dominio neocon in seno al plurale movimento conservatore americano, l’emersione di Trump ha segnato un cambiamento, sebbene interrotto in seguito alla mancata rielezione: il conservatorismo americano è ritornato a essere ufficialmente tutt’altro che monolitico, a dimostrazione che il “fusionismo” caldeggiato negli anni Sessanta da Frank Meyer è un’opzione tutt’altro che semplice. Come conciliare valori tradizionali con un’istituzione, il mercato, che si dà costantemente da fare per superarli?