Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Recensione a: G. Terranova,  Il ragionamento giuridico, Giuffré Francis Lefebvre, Milano 2021, pp. 209, € 27,00.

Il dogma dell’autosufficienza di un testo di legge è idea tranquillizzante: conta solo la norma così com’è scritta; al limite essa può nei casi controversi integrarsi col ricorso ad altre norme, ma sempre all’interno del sistema normativo. La realtà esterna – sia essa fattuale o valoriale – è espulsa dall’orizzonte del giurista, così come espulso è ogni riferimento alle finalità perseguite da colui (il monarca o l’assemblea: il potere politico) che ha creato e foggiato dal nulla le leggi positive. Questa rassicurante cornice, molto kelseniana, di certezze di legge, neutralità delle procedure legislative e autonomia del giuridico attira ancora illustri giuristi (si pensi a Natalino Irti) i quali hanno buon gioco a rimarcare le indebite interferenze tra politica e giustizia ma soprattutto a denunciare la cronicamente insoddisfatta sete di certezza e prevedibilità delle leggi. La responsabilità di un simile sfacelo viene addossata non tanto alle inettitudini del legislatore quanto al caos di ermeneutiche contraddittorie.

Di tutt’altro avviso i giuristi genericamente anti-kelseniani: gli aristotelici, i pragmatisti, gli istituzionalisti, gli storicisti. Le etichette si sprecano. Giuseppe Terranova, insigne maestro nel diritto commerciale ma noto anche per i suoi ragguardevoli contributi allo studio dell’ermeneutica e del linguaggio del diritto, ha recentemente offerto ai giuristi italiani un nuovo brillante saggio (Il ragionamento giuridico) in cui sviscera molteplici questioni non necessariamente giuridiche (dalla teoria linguistica alla logica) ma sempre con attenzione al cruciale tema del rapporto tra norma positiva e lettura ermeneutica della stessa. Sin dalle prime pagine emerge la distanza che separa l’impostazione di fondo di Terranova da quella del pur stimato e apprezzato Natalino Irti giacché l’Autore non esita a contestare e confutare il neo-positivismo e i residui positivistico-kelseniani ancora diffusi nel mondo giuridico italiano. Anzi: Terranova accetta per sé l’etichetta di “pragmatista” con venature di istituzionalismo (Santi Romano).

Il saggio, affascinante ma anche in alcuni passaggi piuttosto complesso, non è comprimibile in poche righe e si farebbe torto all’Autore se lo si volesse riassumere. Preferiamo, piuttosto, riprenderne due punti qualificanti. Il primo si ricollega a quanto scritto poco sopra riguardo la garbata polemica con Irti e più in generale i kelseniani. Terranova si riallaccia idealmente a quella vecchia dottrina (Asquini e Ascarelli) che identificava sì nella legge la fonte del diritto ma si apriva anche alla “natura delle cose” quale supporto ermeneutico integrativo nelle ipotesi dubbie e lacunose. Le “tipologie della realtà” dell’Ascarelli già a suo modo completavano la norma positiva. Ma Terranova supera Ascarelli perché coglie risolutamente un nesso di continuità tra il testo normativo e il contesto. Ispirandosi anche a Gadamer, l’Autore non si limita a inserire la norma nel contesto ma ritiene che sussista una linea ininterrotta tra la formazione letterale e le vicende successive cui il testo va incontro nel corso della sua vigenza: la norma non è posta una volta per tutte ma vive, cresce, agisce, si modifica, invecchia e magari muore nella successone degli scenari sociali e storici e nelle ermeneutiche che via via fioriscono e appassiscono sopra e accanto ad essa. Ciò perché – è questa la tesi di fondo dell’Autore – «le espressioni linguistiche sono porose e assumono un senso definito [ma non definitivo, ndr] solo con riferimento a uno specifico contesto» e ad una specifica ermeneutica (p. 96). Chiarito questo punto cruciale Terranova corre subito ai ripari: norma palpitante di vita e cangiante non significa arbitrio dell’interprete e perenne incertezza. L’ermeneutica giuridica infatti soggiace anch’essa a un sistema di regole, di tradizioni consolidate, di significati condivisi e stabilizzati (i “significati canonici”), di collegialità e rivedibilità dei processi decisionali e, non ultime, di sedimentate norme di esperienza. Tutti questi accorgimenti impongono limiti e disciplina «al libero fluttuare delle interpretazioni» (p. 116).

Oggi (e veniamo così al secondo punto) il dibattito sull’irruzione dell’Intelligenza Artificiale nella elaborazione, gestione e risoluzione di problematiche complesse segna anche il mondo del diritto. L’algoritmo al posto del giudice? L’automa algoritmico universale sostitutivo di giuristi, avvocati e operatori del diritto? A ben vedere il tema non è affatto recente perché ormai da decenni le facoltà di giurisprudenza contemplano l’insegnamento di una apposita disciplina (“Informatica del diritto”) che per alcuni suoi cultori e luminari (si pensi a Renato Borruso, autore di un fortunato saggio sull’informatica giuridica edito da Giuffré) dovrebbe consentire di togliere gradualmente spazio alle incertezze ermeneutiche e a elevare (o degradare?) il processo decisionale giuridico a una consequenziarietà deduttivo-matematica a partire da premesse certe.

Terranova nel suo saggio affronta anche questo scottante e attualissimo tema e coglie spunto dagli studi pionieristici di Luigi Ferrajoli sull’elaborazione di un linguaggio tecnico-giuridico basato su postulati e assiomi. L’auspicio (o l’illusione) di consegnare completamente il diritto a un linguaggio formalizzato e assiomatizzato, dall’elevatissima precisione tecnica e connessione matematica di passaggi logici, si basa sulla forte esigenza di stabilizzazione delle espressioni linguistiche e dei loro significati. Il reticolo di espressioni linguistiche assiomatizzate renderebbe infatti la norma certa, vincolerebbe l’interprete e anzi lo imprigionerebbe in una concatenazione di processi logici standardizzati. Terranova ammette che «l’uso di un linguaggio artificiale, con la sua maggiore precisione, consente di descrivere una serie di sfumature e di sequenze procedimentali» (p. 132) che sfuggirebbero se ci si limitasse al linguaggio e alla logica ordinarie. Un linguaggio giuridico formalizzato, assiomatizzato e di matematica razionalità presenta dunque dei vantaggi. E d’altronde già Jean Domat (1625-1696) aveva cercato di introdurre procedure matematizzanti nel diritto. Terranova però non si nasconde la sostanziale insufficienza di un diritto matematizzato nelle espressioni linguistiche e nelle sequenze logiche interne. Infatti come il ragionamento sillogistico, valido e rigoroso nei suoi meccanismi, può condurre a esiti aberranti se fondato su premesse false o assurde, così anche l’“algoritmico automa universale” può rendere un buon servizio a patto che sia ben orientato. La logica in sé resta uno strumento neutrale e va inserita in un contesto più ampio e complesso in cui operano attori e fattori molteplici, anche extralogici, e dove cruciale resta il momento della decisione, ossia la libera scelta (nel senso di sottratta a determinismo e deduttivismo) dell’orientamento e delle finalità. Il momento decisionale (e ogni interpretazione di norme, a ben considerare, è una decisione in quanto selezione di significati), mai completamente riducibile a meccaniche deduzioni logiche, resta invece largamente aperto all’irruzione dell’imponderabile, dell’imprevisto, dell’illuminazione intuitiva, e alla variabile degli infiniti accadimenti che costellano la vita degli uomini. Si torna così ad una ragionevolezza colorata di sfumature, ben distinta dalla razionalità (così come i Greci distinguevano la sophrosyne dalla sophia); e si recupera pure il grossolano ma realistico buon senso. Elementi questi che, uniti al deposito delle regole di esperienza e al sottofondo dei valori etici, soddisfano – seppur in via approssimativa – le esigenze della vita pratica, che è anche vita giuridica, e consentono (meglio e più efficacemente della astratta razionalità logico-matematica applicata al diritto) «di ponderare l’imponderabile, di tener conto di variabili nascoste ma dotate di rilevanza nei ragionamenti pratici» (p. 148). Qui è il diritto ad adattarsi alla sinuosità e contraddittorietà della vita e non viceversa.

Non va ignorato l’antipatico rovescio della medaglia, che anche i comuni cittadini sperimentano ogni giorno quando hanno a che fare con le leggi e le corti di giustizia: il difetto, sovente gravissimo, del requisito di certezza, affidabilità e prevedibilità del diritto. Il principio della certezza del diritto ha segnato la modernità giuridica e va salvaguardato quale principio fondamentale e fondante. Non va tuttavia mitizzato né assolutizzato ma contemperato con altri princìpi giuridici altrettanto fondamentali. Di più: si commetterebbe ingiustizia a sacrificare tutto a tale principio. La certezza del diritto oggi «è un valore tra gli altri valori, da sottoporre alla tecnica del bilanciamento» (p. 179). D’altronde anche la “certezza” del diritto non sfugge all’ermeneutica e muta di contenuto a seconda dell’approccio interpretativo e valoriale, e a seconda del contesto: certezza della lettera della legge? O certezza del significato canonico del testo? Certezza oggettiva del sistema o certezza soggettiva? La pletora di norme e regolamenti dovrebbe accrescere la certezza oggettiva (tutto è regolamentato, id est tutto è certo), però al contempo accresce a dismisura l’incertezza soggettiva del cittadino (e persino dell’operatore del diritto) che si sente come smarrito in una selva oscura di testi legislativi spesso illeggibili e labirintici.

Più che a certezza assoluta (o di altri princìpi) si dovrebbe puntare, più modestamente, a soluzioni sub-ottimali e approssimative: l’ideale aristotelico della medietas, un ideale che secondo l’Autore si mantiene oggi più vivo che mai (p. 150).

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