Alberto Giovanni Biuso è Professore ordinario di Filosofia teoretica nel «Dipartimento di Scienze Umanistiche» dell’Università di Catania, dove insegna anche Epistemologia e Filosofia delle menti artificiali. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Chronos. Scritti di storia della filosofia (Mimesis Editore, 2023). Il suo sito web è www.biuso.eu

Recensione a : L.-F. Céline, Guerra, a cura di P. Fouché, con una Premessa di F. Gibault, trad. di O. Fatica, Adelphi, Milano 2023, pp. 156, € 18,00.

Come dal di dentro. Dentro la guerra. Dentro un corpomente ferito, con un braccio fratturato, pendulo e morto. E la testa che rimbomba di rumori che sovrastano ogni altro suono che provenga dall’esterno del corpomente. Così il protagonista di Guerra comincia il suo racconto, da unico sopravvissuto in una trincea del Belgio, trascinandosi con enorme fatica verso il più vicino borgo, perdendo i sensi lungo la strada, risvegliandosi su un giaciglio accanto a dei morti, sollevandosi con suprema forza per non essere anche lui inchiodato dentro una bara ancora vivo. Sedotto e manipolato da un’infermiera assai autorevole, diventato amico di un altro ferito, un magnaccia che assai imprudentemente fa venire in città la moglie/prostituta alla quale aveva commesso l’errore di confidare un segreto che rischia di portarlo davanti al plotone d’esecuzione, circondato da personaggi confusi, bizzarri, violenti, volgari, arrapati, ipocriti, sentimentali, avidi. Circondato dal cuore nero dell’umanità.

La musica di questo romanzo comincia con una dichiarazione che poi tutto lo intride, lo guida, lo determina, lo spiega: «Mi sono beccato la guerra nella testa. Ce l’ho chiusa nella testa» (p. 26). Una guerra che il caporale Destouches (vero nome di Céline) odia, pur essendo insignito della «Croce di Guerra», pur essendo stato eroe coraggioso ed esempio per gli altri soldati. Odio e orrore che abitano e gorgogliano in queste pagine che a Céline erano state rubate, che sono state ritrovate e che ci regalano ancora un capolavoro di parole e di pensieri: «Ho imparato a fare musica, sonno, perdono e, come vedete, anche bella letteratura, con piccoli tocchi di orrore strappati al rumore che non finirà mai più. Lasciamo perdere» (p. 27).

Pur essendo rimasta soltanto la prima stesura – scritta di getto -, pur non avendo Céline potuto rivedere nel modo attento, ossessivo, perfetto il suo testo (come sempre faceva), in Guerra pulsa per intero la potenza di uno degli scrittori più grandi della letteratura universale, un libro che così viene riassunto dal traduttore italiano:

La visionarietà allucinata, presente nella sua integrità; l’invenzione di personaggi biechi, grotteschi e spassosissimi; le situazioni assurde, atroci, esilaranti; il registro basso, quasi un basso continuo, ossessivo; l’onda – nascente e già innervata al periodare – della petite musique; e molto altro ancora. Ci troviamo davanti a un torso sgomentante per terribilità, a volte quasi inguardabile per violenza, per crudezza, che anche dietro al rictus più osceno serba un’ombra velata di pietà (p. 156).

Il «forte» di Céline (lo scrittore lo dice a se stesso anche qui) «è l’immaginazione» (p. 42), quella che non fa coincidere mai le vicende dei suoi romanzi con i fatti della sua vita, anche se naturalmente le vicende traggono ispirazione anche dai fatti. Perché la vita è irraccontabile e la letteratura è invivibile. Perché «certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto» (p. 134), perché «il delirio delle cose» (p. 101) supera ogni possibilità di descrizione e racconto, anche se di fatto il narrare di Céline si avvicina quasi alla perfezione a tale delirio.

Guerra penetra infatti il mondo e copula con l’esistenza partendo da e con l’aiuto «di quel pezzo di carne sanguinolenta o dell’orecchio tonitruante, della mia testona disfattista» (p. 41). Strumenti e forme con le quali è descritta «la vita, lì pronta a torturarmi. Quando sarà la volta buona che mi rifilerà l’agonia, gli sputerò in faccia. […] Abbiamo un conto in sospeso. Che vada a farsi fottere» (p. 33). E dirlo senza paura – alla vita – questo andare a farsi fottere, poiché «tirare le cuoia ancora ancora si può fare, a esaurire la poesia è tutto quello che viene prima, tutti gli scannamenti, le tribolazioni, i torturamenti che precedono lo stranguglione ultimo» (p. 55).

La vita che diventa «ancora più atroce quando non ti si rizza più» (p. 72) e anche per questo l’eros pervade Guerra come gli altri romanzi, le altre storie. Un eros che non abbandona mai Ferdinand, anche quando si sente moribondo: «Non ci potevo credere. Era il braccio di una tipa. Il che malgrado tutto ha avuto un effetto imperioso sull’uccello. Con un occhio ho cercato la zona delle chiappe. Ho scoperto che ondeggiava quel sedere, qua e là tra i letti, su una stoffa bella tesa. Come un sogno che ricomincia. La vita ne ha di trovate» (pp. 32-33).

Toccarle e possederle, le donne, «è eccitante come la vita stessa, a piene mani» (p. 120). Il sesso è in queste pagine l’emblema, la metafora, la sineddoche e la sostanza dell’esistenza stessa che cerca un senso, una consolazione e una distrazione al proprio esserci. Per cercare di oltrepassare «una stanchezza senza nome, quella che viene dall’angoscia» (p. 70), per allontanarsi dal «laidume degli uomini» (p. 56) proprio penetrando quanto più a fondo nei loro desideri e nella loro nonsenseria, oltrepassando «la loro enorme stronzaggine ottimista, insulsa, marcia, che rabberciavano a dispetto di tutte le dimostrazioni in mezzo alle vergogne e agli strazi acuti, estremi, sanguinanti» (94). Stronzaggine che trasuda fiele nelle espressioni «elevate» e profondamente ipocrite di un prete durante un pranzo offerto a Ferdinand per festeggiare la sua medaglia al valore, una miserabile teodicea che di fronte al dolore senza misura degli umani pronuncia parole come queste:

‘Vede, amico mio, in mezzo alle prove più terribili a cui il Signore si degna di sottoporre le sue creature, Egli ha pur sempre in serbo per loro un’immensa pietà, un’infinita misericordia. Le loro sofferenze sono le sue sofferenze, le loro lacrime le sue lacrime, le loro angosce le sue angosce…’. […] Mi arrivavano le sue parole che trasudavano fiele (p. 95).

Questo prete porta al culmine e a compimento «una lingua bizzarra a dire il vero, una gran lingua da coglioni» (p. 93), la lingua della bontà e della misericordia divina di fronte all’orrore senza requie del mondo. Rispetto a tanta insulsaggine, lo scrittore Céline e l’uomo Destouches descrivono e narrano la potenza priva di pietà del mondo, che trasforma Ferdinand in una scheggia molteplice di carne:

Mi ero diviso il corpo in varie parti. La parte bagnata, la parte che era sbronza, la parte del braccio che era atroce, la parte dell’orecchio che era abominevole, la parte dell’amicizia per l’inglese che era consolante assai, la parte del ginocchio che ogni tanto se ne andava per i cazzi suoi, la parte del passato che già cercava, me lo ricordo bene, di aggrapparsi al presente e non ci riusciva più – e poi ancora il futuro che mi faceva più paura di tutto il resto, e per finire sopra le altre una parte stramba che voleva raccontarmi una storia (p. 30).

Il corpo di Céline ha narrato questa storia, regalandoci un disincanto fondato sulla prassi dell’umano, donandoci una gioia scaturita dalla potenza della parola capace di comprendere l’orrore e di sentirne ancora la distanza, nell’abbagliante luce di una verità che Céline esprime in un altro suo libro: «nel cuore degli uomini non c’è che la guerra» (Il Dottor Semmelweis, trad. di O. Fatica e E. Czerki, Adelphi 2002, p. 71).

Guerra che questo capolavoro coglie e restituisce come nessun’altra opera che io conosca, che ci aiuta a capire in modo profondo e radicale anche la guerra in corso della Nato contro la Russia tramite l’Ucraina e che ci fa chiedere che essa finisca. Perché la guerra è un fatto, una catastrofe, una potenza antica dentro la quale l’umano abita e si perde, diventando la sua mente nella guerra «ormai solo una corrente d’aria di uragani» (p. 31).

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