Claudio Capo (1995) è attualmente dottorando in Scienze Giuridiche e Politiche (XXXIX ciclo) presso l’Università “Guglielmo Marconi” di Roma e laureando in Scienze Filosofiche presso l’Università Roma Tre. Si è laureato nel 2022 in Antropologia culturale presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Le sue ricerche si focalizzano sul socialismo rivoluzionario italiano della prima metà del Novecento. I suoi interessi principali concernono l’analisi storico-filosofica delle forme spirituali, culturali e sociali dalla modernità alla contemporaneità. Ha pubblicato diversi contributi presso il mensile di attualità metapolitiche «Diorama Letterario».
Recensione a: E.J. Hobsbawm, L’età degli imperi 1875-1914, Laterza, Roma-Bari 2005 (IX rist. 2022), pp. 464, € 15,00.
In che modo potremmo spiegare il fenomeno del capitalismo se decidessimo di raccontare la sua esistenza attraverso la forma del mito? L’idea di una sintesi tra Proteo e l’Idra di Lerna potrebbe sembrare non troppo stravagante. Il carattere fluido e mutaforme del primo, unito alla capacità di rigenerazione del secondo, rappresentano il connubio vincente attraverso cui il capitalismo ha costruito la propria fortuna.
Mitopoiesi a parte, Marx sostiene che il capitalismo è un sistema dinamico, in grado di mutare e adattarsi alle nuove condizioni storiche e sociali. Le crisi cicliche del sistema di libero mercato, a suo avviso, sono generate dalle contraddizioni interne del sistema stesso e sono, quindi, inevitabili. Più tardi, nel 1925, Nikolaj Kondratiev ha proposto una teoria che illustra come il paradigma di sviluppo capitalistico tende a sperimentare cicli di lunga durata, caratterizzati da fasi di espansione e contrazione. Secondo le analisi dell’economista russo, le fasi di recessioni sono seguite da fasi di ripresa e da un’espansione generalizzata dell’economia di mercato.
Il lavoro di Eric J. Hobsbawm, L’età degli imperi 1875-1914 affronta il paradosso di una «strana morte del capitalismo» (p. 13) nel momento del suo apogeo. Il volume, edito e ristampato più volte per i tipi Laterza, studia il momento storico in cui diventa chiaro che la società creata da e per la borghesia liberale occidentale non rappresenta più la forma permanente del mondo industrializzato moderno, ma solo una fase del suo primordiale sviluppo. In quest’opera Hobsbawm cerca di spiegare la Belle époque alla luce della capacità del sistema capitalistico di dominare e trasformare il mondo secondo il modello borghese. Con uno stile espositivo intelligente, Hobsbawm accompagna il lettore alla scoperta di un periodo di vorticose trasformazioni e lo rende consapevole dei forti legami che legano quel mondo al nostro.
Prima di inoltrarci nel lavoro di Hobsbawm, ci sembra opportuno fare un accenno al modello teorico da cui prendono piede le sue analisi, ovvero quello di “duplice rivoluzione”. Secondo l’Autore la combinazione tra Rivoluzione francese e rivoluzione industriale inglese ha creato la spinta necessaria per la nascita della moderna società liberal-capitalista. Infatti, se la prima ha stabilito i modelli organizzativi delle istituzioni politiche della società liberale, la seconda ha mostrato le illimitate capacità di crescita economica e penetrazione globale del sistema produttivo capitalistico. Da questa particolare congiuntura storica Hobsbawm fa partire la sua esplorazione sulla nascita della moderna economia capitalistica.
Dopo la Grande Depressione del 1873, il modello classico del liberalismo economico illustrato ne La ricchezza delle nazioni (1776) di Adam Smith, entra in crisi e spinge gli economisti a cercare una formula più adatta a rispondere alle esigenze della nuova situazione storica. Hobsbawm individua nella trasformazione della struttura e del modus operandi dell’impresa capitalistica un tratto importante dell’economia mondiale dell’età degli imperi. Se prima lo Stato è visto come “interferenza” tra l’individuo e l’automatico funzionamento del mercato, ora si fa avanti l’idea di uno Stato attivo, interventista, capace di promuovere e agevolare il sistema economico. Il capitalismo di questo periodo è molto differente rispetto a quello del laissez-faire della prima metà dell’Ottocento. Le imprese si ingrandiscono e la produzione è sempre più concentrata in poche mani. Emergono nuove forme di organizzazione economica come le società per azioni e si va affermando sempre più una pluralità di «economie nazionali» rivali intente a “proteggersi” l’un l’altra, con lo scopo di salvaguardare e aumentare le ricchezze delle grandi industrie (p. 81). Il nuovo volto del capitalismo trova il modo di scaricare sui lavoratori le tensioni cui erano sottoposti i profitti. Hobsbawm mostra, dati alla mano, come nei paesi maggiormente industrializzati ci fu un calo dei salari fra il 1899-1913. La luna di miele tra il capitalismo liberale e la «classe agiata» – così come la definisce Thorstein Veblen in La teoria della classe agiata (1899), significò l’inferno per i ceti subalterni. Il moderno Proteo, dopo una momentanea battuta d’arresto, trova il modo per continuare la sua marcia e punta dritto verso una dimensione globale.
Alla fine del secolo, il capitalismo identifica nell’espansione coloniale una via naturale per il proprio sviluppo e cerca di attenuare le tensioni sociali interne deviandole verso l’esterno. L’imperialismo che caratterizza questo periodo è indubbiamente figlio di un’era di competizione fra le economie capitalistico-industriali rivali (p. 85). L’età degli imperi inaugura un periodo dove «tariffa ed espansione diventano la comune richiesta della classe dominante» (ibidem). In tal senso, per Hobsbawm, tutti i tentativi di scindere la spiegazione dell’imperialismo dagli specifici sviluppi del capitalismo tardo-ottocentesco vanno considerate come «esercitazioni ideologiche, sia pure spesso dotte a volte vuote» (p. 86). Riteniamo, con l’Autore, che imperialismo e capitalismo siano strettamente legati all’ideologia della Civilization borghese. Questa sembra fornire la giustificazione morale e lo slancio necessario per promuovere il “vangelo del progresso” tra i popoli “non civilizzati”. Infatti, ciò che l’imperialismo portò alle élite del mondo europeo fu essenzialmente l’occidentalizzazione delle culture – più tardi Heidegger parlerà di «europeizzazione del mondo».
Ma l’avanzata del nostro Proteo non fu priva di problemi. Il dissenso cresceva sempre più nel cuore delle metropoli industrializzate. Ma chi erano le masse che si mobilitavano per l’azione politica? Così Hobsbawm:
In primo luogo, c’erano le classi o strati sociali finora al di sotto o al di fuori del sistema politico, parecchi dei quali formavano a volte alleanze, coalizioni o “fronti popolari” alquanto eterogenei. La più ragguardevole era la classe operaia, che adesso veniva mobilitandosi in partiti e movimenti a base esplicitamente classista. C’era anche la vasta e mal definita coalizione dei malcontenti ceti intermedi, incerti su chi temere di più, i ricchi o il proletariato. […] C’erano anche i contadini che costituivano ancora la maggioranza in molti altri paesi e il massimo gruppo economico in altri che vennero mobilitandosi in maniera crescente come gruppi di pressione economica (pp. 104-105).
La società borghese, nel suo complesso, non si sentiva gravemente minacciata dalla democratizzazione della politica e seppe mettere a punto abili meccanismi per “svuotare” il dissenso all’interno delle sue istituzioni. Dopo le iniziali perplessità, la borghesia riuscì ad “addomesticare” la democrazia rendendola compatibile con il sistema capitalistico. La democrazia veniva ora a rappresentare per il capitalismo il «miglior guscio possibile» (cfr. V. Lenin, Stato e rivoluzione, I, 3). Un “guscio” che manteneva invariati i rapporti di forza all’interno della società dando l’impressione di metterli costantemente in discussione. Infatti, le politiche di istituzionalizzazione del dissenso, ci dice l’Autore, riuscirono a mitigare le opposizioni extraparlamentari concedendole degli spazi controllati. La strategia dell’«abbraccio morbido» nel complesso funzionò bene. I grandi movimenti operai vennero spaccati in due: da una parte un’ala moderata pronta al compromesso pur di attuare le riforme, dall’altra un pugno di irriducibili – nettamente in minoranza – votato allo scontro frontale con la “classe borghese”. Mentre i primi vengono comprati, i secondi vengono combattuti con forza. Sorel ci vide assai lungo.
Questa miscela esplosiva di capitalismo, imperialismo e parlamentarismo rappresentava il trionfo degli ideali borghesi illuministi e positivisti. Tuttavia, la definizione di “borghesia” è notoriamente problematica. Hobsbawm la delinea come la classe che «aveva trionfato distruggendo la coesione sociale di antiche gerarchie e comunità, scegliendo il mercato contro i rapporti umani, la Gesellschaft contro la Gemeinschaft» (p. 122). Secondo l’Autore «i membri di questa classe dovevano possedere un capitale o una rendita e/o professione, che era una forma di impresa privata» (p. 199). La spina dorsale della “classe dominante” – continua lo storico inglese – era costituita da uomini d’affari, liberi professionisti e, in termini più generali, da tutti coloro che avevano superato la zona in cui comprare una cosa significava rinunciare ad altre.
Hobsbawm aggiunge altri due elementi per consegnarci un’immagine più realistica della classe più rappresentativa della Belle époque. In primo luogo, per l’idealtipo borghese, spendere diventa importante almeno quanto guadagnare – come sottolineato dal mito dell’ostentazione di Veblen. In secondo luogo, la borghesia fa del denaro il criterio determinante del valore sul quale costruire ogni gerarchia. Tuttavia, sebbene utile ed esaustiva per il suo lavoro, la definizione di “borghesia” di Hobsbawm non può essere considerata definitiva e trova un utilizzo limitato alle sue analisi. L’Autore sorvola su quella dimensione metafisica e spirituale che aveva descritto Werner Sombart in opere come Il borghese (1913) e Mercanti ed Eroi (1915) e che, a detta di chi scrive, rappresenta un punto determinante.
Concludendo, l’agosto del 1914 è una delle più incontestabili “cesure naturali” della storia e rappresenta l’epitaffio della borghesia ottocentesca. La fine della Belle époque non deve aspettare nemmeno il primo colpo d’artiglieria. Nell’agosto 1914 il rifiuto della pace, della ragione e del progresso per un ideale di violenza e di scatenamento degli istinti aveva inebriato le giovani generazioni. Ritorniamo da dove siamo partiti. Ritorniamo al mito. Dioniso spinse i popoli europei a tuffarsi volontariamente e con entusiasmo negli abissi di una guerra spirituale, quella contro la décadence borghese. La modernità sembrava doversi schiantare sulle pagine dello Zarathustra nicciano. I legami con le chimere della ragione, della scienza, dell’educazione benpensante, dell’illuminismo, della democrazia e del progresso incessante dell’umanità, cose che un tempo la borghesia era stata fiera di rappresentare, venivano adesso recisi. La generazione del ’14 tracciava nuove rotte verso il Ganz Anderes.