La società aperta eternamente insidiata
«Non lo si ripete mai troppo: non c’è niente di più fecondo di meravigliosi risultati dell’arte di essere libero: ma non c’è niente di più duro del tirocinio della libertà»
«Non lo si ripete mai troppo: non c’è niente di più fecondo di meravigliosi risultati dell’arte di essere libero: ma non c’è niente di più duro del tirocinio della libertà»
Se oggi esiste una parola tanto abusata quanto mal capita e mal interpretata, forse quella parola è “libertà”. Libertà di fare ciò che si vuole, libertà di dire ciò che passa per la testa, senza un minimo di riflessione, confronto critico e capacità di dialogare con altri nostri simili...
Le etichette, in politica e non solo, servono per ridurre la complessità, incanalare il reale entro binari facilmente intellegibili
«Se qualcuno, oltre allo stato, si decidesse a imporre tasse, ciò verrebbe chiaramente considerato un atto di coercizione o di malcelato banditismo.
Instabilità, precarietà, lentezza, ma anche capacità di autocorrezione, apertura e adattabilità al cambiamento, e dunque mobilità dei suoi contorni. Tale è pressappoco la descrizione dell’ambivalente fisionomia della democrazia liberale con cui William Galston apre e chiude il volume La minaccia populista alla democrazia liberale (Castelvecchi, 2019). Pare, infatti, non esistere altro regime politico, perlomeno finora sperimentato, che riesca a reagire, talora positivamente, altre volte negativamente, agli impulsi e agli stimoli che gli pervengono tanto dall’esterno quanto dall’interno.
L’uomo è un essere razionale, ma non può fare a meno di assecondare, almeno talvolta e almeno in parte, le proprie passioni, i propri ardenti desideri, i propri slanci momentanei. Proprio intorno a questo connubio tra ragione-passione si gioca larga parte della vita politica di una comunità. Non vi può essere, infatti, un individuo completamente ed eternamente razionale, così come un suo alter ego totalmente pulsionale. Nel primo caso verrebbe meno probabilmente lo stesso afflato vitale di una persona, con negative ricadute sulla comunità (o sulle comunità) di cui fa parte, imbolsendola; nel secondo, al contrario, è verosimile si cagionerebbe la degradazione integrale di una civiltà costruita – non nel senso di un progetto intenzionale, ma come frutto di un lento processo cumulativo, faticoso e accidentato. In altri termini, estremizzando un po’, il conflitto che ne deriva è quello tra realtà e mito o, se si preferisce, tra “essere” e “dover essere”.
Come spesso capita, quando un fenomeno diventa di moda, l’analisi dello stesso si propaga a dismisura, con il rischio che il concetto ad esso collegato diventi pressoché inutilizzabile, dato l’abuso che, anche in sede accademica, se ne fa. Questo è senz’altro il caso di quello scivoloso e criptico vocabolo che va sotto il nome di “populismo”. Come tutti gli “ismi”, infatti, esso cela un significato piuttosto pesante, ancorché ambiguo...