Stefano Suozzi (1967) è collaboratore dei Centri Culturali e tutor della Scuola di Alti Studi della Fondazione Collegio San Carlo di Modena. All’intersezione tra filosofia, arte e letteratura, ha pubblicato: Voce: «assolta simmetria», in R. Deidier (a cura di), L’avventura di restare. Le scritture di Elio Pecora (Genova 2009); La volontà di fare la cosa giusta. Il futuro distopico di Philip K. Dick, in C. Altini (a cura di), Utopia. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica (Bologna 2013); Un'invincibile solitudine. Mondo proprio e mondo comune in Philip K. Dick, in «Intersezioni» (2/2015); Ritratto di un paradosso. Sulla pittura di Gabriele Grones, in G. Grones, Paintings (2018) e L’arte della fuga. Attualità e inattualità dell’immagine e della scrittura, (Pisa 2021).

Dicevamo, nella prima parte, di Arnaldo Momigliano e di come avesse perfettamente colto l’ambivalenza della condizione dello storico. Detto, e spero compreso, ciò, in che modo è dunque possibile parlare della storia dei vincitori e dei vinti? Il testo da cui partire è, ovviamente, la celeberrima VII tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin:

I padroni di ogni volta sono gli eredi di tutti quelli che hanno vinto. L’immedesimazione nel vincitore torna quindi ogni volta di vantaggio ai padroni del momento. (…) Chiunque ha riportato fino ad oggi la vittoria, partecipa al corteo trionfale in cui i dominatori di oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. La preda, come si è sempre usato, è trascinata in trionfo. Essa è designata con l’espressione «patrimonio culturale»[1].

Se il paradigma è quello della scomparsa di un popolo, allora è evidente che non occorre distinguere tra coloro che sono stati sconfitti nel corso della storia (i tedeschi non si sono estinti dopo aver perso la seconda guerra mondiale, e nemmeno nazisti e antisemiti) e coloro che sono stati sconfitti dal corso del tempo e della storia (i popoli estinti). In fin dei conti, in tempi sufficientemente lunghi, tutti sono sconfitti dalla storia. Tuttavia, questa postilla, non inficia la riflessione di Benjamin, ma forse la rafforza.

Per Benjamin, la trasformazione della storia dei vinti in patrimonio culturale dei vincitori ha due significati. Il primo è quello relativo all’identità dei vincitori: non importa chi sia il vincitore e per quanto tempo sia stato dalla parte degli sconfitti, nel momento in cui assume lo statuto di vincitore ne assume anche tutti i caratteri specifici che lo rendono tutto sommato indistinguibile dai vincitori che lo hanno preceduto (e lo stesso avviene per coloro che, pur essendo stati anche per lungo tempo vincitori, diventano gli sconfitti). L’altro significato, per noi forse il più importante, è quello che assume la trasformazione della storia dei vinti in patrimonio culturale dei vincitori.

Non si tratta semplicemente di un vulnus della memoria e della storia. Non si tratta di un arrogante oblio della storia dei vinti e, di conseguenza, di non essere più in grado di restituire il senso compiuto di una cultura di cui ormai non restano che frammenti e rovine. Ciò che è in gioco è la disattivazione di questa storia e di questa cultura trasformata in materia inerte, in una serie di oggetti da collezione[3]. È a questo che si oppone la figura dello storico ritratto da Momigliano. Con una formula: lo storico si batte contro la trasformazione della storia in patrimonio culturale, ma questo compito è un compito impossibile, a cui è necessario tendere con tutte le proprie forze, pur sapendo che non sarà mai possibile portarlo a termine.

Commentando la VII tesi di Benjamin, Paolo Pullega afferma: «Lo sguardo dello storico va a cogliere ciò che è mancato, e non ciò che è avvenuto in esso e dopo di esso. La rivelazione sollecitata dal presente si riversa, per questa via, in negazione del passato così come è rappresentato nella versione dominante»[4]. Ma davvero lo storico può, e deve, restituire questa mancanza? Se lo fa, lo fa a sua volta “in negativo”. Questa “mancanza” è la differenza tra la verità della ricostruzione storica e l’impossibilità di restituire tutta la verità della storia; è ciò che manca allo storico, pur partecipando della stessa natura di coloro di cui cerca di ricostruire la storia, per restituire il passato nella sua completezza. È ovvio che non si tratta di malafede o interesse particolare, ma come abbiamo sottolineato in precedenza, della condizione ontologica dello storico imposta dalla natura stessa della storia. Ed è qui che può intervenire la poesia. La poesia non può sostituirsi alla storiografia, e non può completarla, ma può assumere una funzione complementare: non restituisce ciò che manca, ciò che lo storico è impossibilitato a restituire, ma può puntare l’indice, anche meglio dello storico, sul vuoto, sul fatto che qualcosa manca, sul fatto che ciò che possediamo del passato (e non solo) è accompagnato da una assenza. Sul fatto, come coglie perfettamente Mimmo Cangiano a proposito di Gallerani, che «la storia come raccontata dai vincitori (…) è ciò che conduce a un presente che si percepisce, ideologicamente, come reale, cioè come unico possibile»[5].

In altri termini, se la storia è come un’immagine bistabile – o vediamo l’anatra o vediamo il coniglio, o vediamo la storia dei vincitori o vediamo la storia dei vinti – la poesia ci consente di vedere che l’anatra e il coniglio sono la stessa immagine. Non solo. Soprattutto, la poesia spinge il lettore e vedere il coniglio quando tutti vedono l’anatra, e viceversa[6]. Ecco perché I popoli scomparsi merita di essere letto con attenzione. Non perché rappresenta il comune destino di sconfitta della storia e della poesia, non perché mette in luce l’impossibilità della poesia di essere al passo con i tempi, ma perché la poesia è sempre inattuale e ci consente di percepire che nella storia, così come nella vita quotidiana, qualcosa manca. Lo si coglie chiaramente se riconosciamo che il testo che chiude il discorso di Gallerani non è l’ultimo, quello dedicato ai superstiti, ma il penultimo, un testo del tutto particolare nella struttura dell’opera. È infatti l’unico in prosa e l’unico senza titolo. In esso l’autore torna alla teca in cui è contenuto il diorama che, a partire dall’uomo di Neanderthal, rappresenta la storia dell’uomo:

Ecco i diorama che vide. L’uomo antidiluviano, l’ibrido denisoviano, lo scimmiotto calvo su su fino all’aborigeno. Gli fanno posto nella catena a cui manca l’ultima vertebra. Capisce che il viaggio termina solo se indosserà il suo cilindro, la cravatta, il gessato col gilè e i canini. Entrare oltre il vetro, spostare la paglia e accomodarsi su una sedia davanti al pubblico dei prossimi alieni. Molto tempo prima dell’applauso finale. Il sipario è ancora calato in mezzo al silenzio. Si sistema sulla soglia del luogo ambivalente, del tempo resuscitato. Guardando fisso davanti a sé, con un groppo in gola a fianco di Cro-Magnon, introduce gli interpreti che, uno alla volta, fanno un passo avanti, non incespicano sulla soglia, ed escono fuori[7].

Osservando dall’esterno la storia di cui tutti facciamo parte ciò che emerge non è (solamente) una critica al mondo contemporaneo o un appello alla salvaguardia della storia dei vinti, è il posto vuoto che ci attende dentro la teca. È la consapevolezza che il vetro che separa l’interno dall’esterno è lo stesso che separa l’essere parte del processo storico dalla possibilità di conoscere pienamente la verità della storia, la completezza del passato. La storiografia può rendere quel vetro sempre più trasparente, ma la poesia ci consente di vedere che ciò che manca è il passo finale, quello che ci permetterà di accomodarci nel posto vuoto che ci attende all’interno della teca. Il momento in cui i nuovi vincitori ci spingeranno, volenti o nolenti, a prendere il nostro posto tra gli sconfitti e la nostra storia diventerà una storia di vinti. Dopotutto, come aveva compreso prima di tanti altri Constantinos Kavafis, i “barbari” che arriveranno dopo di noi sono una soluzione.

Note:

[1] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, cit., tesi VII, p. 74.

[2] J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, cit., p. 124.

[3] Come ricorda Baudrillard, nella collezione la temporalità degli oggetti raccolti viene sostituita dalla posizione nella serie: «Il profondo potere degli oggetti collezionati non deriva dalla singolarità né dalla storicità specifica: non per questa ragione il tempo della collezione non è tempo reale, ma per il fatto che l’organizzazione della collezione si sostituisce al tempo» (J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti [1968], Feltrinelli, Milano 2004, p. 124). Nella collezione il tempo scompare e gli oggetti divengono astorici (cfr. ivi, p. 104).

[4] P. Pullega, Commento alle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, cit., p. 76. E poco oltre Pullega aggiunge: «La storia è esattamente quanto risulta raccoglibile al passaggio, e ciò che risulterà raccoglibile non è detto perché, in ogni senso, non è dicibile. […] Ciò che non si è compiuto nel trascorrere della storia vincente, ciò che in esso non si è rivelato, non ha fornito che la propria assenza: in questa redenzione incompiuta consiste tutto ciò che rimane della storia dopo la delusione storica. Né di più né di meno» (ivi, p. 80).

[5] M. Cangiano, Postfazione, cit., p. 102.

[6] Ovviamente, la poesia non si riduce a questo: è molto altro e molto di più. Tuttavia, la possibilità che la poesia, così come altre forme d’arte, consentano forme di percezione del mondo diverse da quelle imposte dal modello dominante, ne rappresenta certamente un elemento costitutivo. Per un esame più approfondito della questione mi permetto di rimandare a S. Suozzi, L’arte della fuga. Attualità e inattualità dell’immagine e della scrittura, ETS, Pisa 2021.

[7] Senza titolo, p. 95.

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