Stefano Suozzi (1967) è collaboratore dei Centri Culturali e tutor della Scuola di Alti Studi della Fondazione Collegio San Carlo di Modena. All’intersezione tra filosofia, arte e letteratura, ha pubblicato: Voce: «assolta simmetria», in R. Deidier (a cura di), L’avventura di restare. Le scritture di Elio Pecora (Genova 2009); La volontà di fare la cosa giusta. Il futuro distopico di Philip K. Dick, in C. Altini (a cura di), Utopia. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica (Bologna 2013); Un'invincibile solitudine. Mondo proprio e mondo comune in Philip K. Dick, in «Intersezioni» (2/2015); Ritratto di un paradosso. Sulla pittura di Gabriele Grones, in G. Grones, Paintings (2018) e L’arte della fuga. Attualità e inattualità dell’immagine e della scrittura, (Pisa 2021).

4. Chi ha maggiore consuetudine con l’opera di Fiori sa come questa abbia origine e si articoli secondo due aspetti caratteristici. Innanzitutto, la “rivelazione” della presenza delle case e, attraverso di essa, degli oggetti inanimati così come della vita sconosciuta e distratta che scorre indifferente nelle nostre città:

Le facciate delle case (…). Era come se non le avessi mai viste. O le avessi viste fin troppo. Erano l’inconcepibile ovvio. E l’ovvio – etimologicamente – è appunto ciò che ti viene incontro. (…) I muri diventavano vivi, la facciata diventava una faccia. Era un’apparizione. La sentivo come rivolta a me. Avevo la sensazione (…) che la casa volesse dire, volesse parlarmi. (Ma intanto guardava altrove, lontano)[1].

Inoltre, lo strumento privilegiato di ricezione e trasmissione della presenza così avvertita delle case è, come dicevamo, un Tu o un Si impersonali, a cui Fiori si affida con l’intento «di mettere in opera (…) l’eclissi (parziale) di quell’io, il suo attraversamento di un’esperienza impersonale che comunque sentivo vitale, tesa, parlante»[2].

Ma questa eclissi non è assoluta e nel corso della sua opera – come emerge chiaramente dalla rilettura che ne propone lo stesso autore in Le case vogliono dire – un Io, più personale e vicino a quello biografico, anche se mai davvero identificabile con esso, diventa sempre più presente, fino a diventare l’Io narrante de Il conoscente e il soggetto delle fotografie di Autoritratto automatico. È su questo impianto poetico che assume un ruolo di primo piano la molteplice esperienza del vedere e dell’essere visti. Basti una rapida panoramica di versi tanto significativi quanto esemplari:

La faccia che abbiamo fatto

quando hanno visto che li stavo

guardando mentre guardavano. (Colloquio, in Case, p. 8)

 

Sul mio terrazzo

sento che sole e casa

e mondo e sguardo

mi guardavano da dietro. (Mattino, in Esempi, p. 26)

Nella sala d’aspetto

a un certo punto il rombo di chiacchiere

è finito di colpo.

È stato lì che tutti

ai nostri posti

abbiamo alzato gli occhi e per un attimo

ci siamo visti. (Stazione, in Esempi, p. 30)

 

Se da un tram, sulla circonvallazione,

mi trovo specchiato in una vetrina

(…)

di nuovo lo vedevo:

ero un tizio. (Mostri, in Tutti, p. 142)

È in tale contesto che troviamo quelle che possiamo considerare come anticipazioni del tutto particolari del tema del ritratto fotografico. La prima appartiene a Esempi:

A volte si sta lì davanti a loro

come i parenti al cimitero

coi fiori in mano

davanti ai marmi, alle foto. (Discorsi, in Esempi, p. 107)

La seconda riprende ancora il tema della fotografia sulla lapide e si trova ne Il conoscente, dove il protagonista, chiamato Umberto Fiori, sfuggendo agli obnubilanti rituali della convenzione organizzata dal Conoscente, finalmente ritrova in un cimitero abbandonato «le immagini familiari del Mondo (alberi case cani finestre colonne) e gli esseri umani che lo popolano (o lo popolavano)»[3]:

Pensavo: questi profili di sale

sono salvi. Più niente gli può far male.

Nessuno può spiarli, fiutare

le loro povere vergogne,

accusarli, smentirli, ridere.

Nessuno può smascherarli,

ferirli a forza di ironia,

allusioni maligne disincanto.

Il mio pianto era fatto

anche di invidia. Quanto vorrei essere

come loro, pensavo.

Ma a commuovermi

non era stato proprio il riflesso

che di me stesso saliva da quelle immagini?

Un’immagine, anch’io. Figura stata

 – domani, ma già ora –

per sempre, una volta. Salva.

Salvo anch’io, come loro,

con loro.

(Il conoscente, 89, pp. 240-241. Il verso evidenziato è nostro)

Difficile non cogliere la vicinanza che lega, nella poesia di Fiori, le foto sulle lapidi alla proliferazione delle fototessera, anche alla luce del precedente riferito alle case: «e su, in alto, le case / con la faccia perfetta che hanno i morti / in mezzo ai fiori, / nelle foto di smalto» (Porzioni, in Esempi, p. 113). Come in un primo momento sono state le case a rivelare la loro viva presenza agli occhi del poeta, ora, acquisendo sempre maggiore rilevanza, l’Io narrante, per quanto ancora anonimo e impersonale, si ritrova di fronte alla rivelazione della propria immagine, quasi colto all’improvviso così come quando «si sporge / dalla mela / il verme» (Qui, p. 43)[4]. O più precisamente, il poeta si confronta con la scoperta di essere e di desiderare di essere un’immagine, una «figura stata». È così che le foto sulle lapidi[5] perdono la loro connotazione malinconica e, anziché offrirsi come memento mori, si costituiscono come immagine privilegiata della condizione del poeta e della sua personale poetica. Ciò è confermato da un altro passo in cui il Conoscente muove a un Io narrante che sembra subire e abbandonarsi al corso degli eventi, una chiara “accusa”:

Ecco il presepe[6].

Cosa c’è al mondo – penso – di più bello?

Il Conoscente mi spia. “Ti piacerebbe”

dice maligno “stare in questa armonia

tra i palmizi e le stelle,

essere una delle statuine[7]

– la più obbediente, la più calma –, fare

anche tu, come tutti,

la parte che ti è assegnata

nel grande quadro vivente:

essere solo e per sempre

l’omino che si affaccia da una casa”.

(Il conoscente, 59, p. 162. I versi evidenziati sono nostri)

È sicuramente questo l’autoritratto più potente di Fiori e della sua poesia.

5. Concludiamo. Se volessimo considerare la collezione di 750 autoritratti come una riflessione sull’identità individuale, allora non si tratterebbe che di una versione della perturbante collezione del padrone della villa in cui avviene il primo incontro tra il personaggio Umberto Fiori e il Conoscente: casse e scatole in cui ha conservato a milioni le proprie unghie e i propri capelli. Allo stesso modo, concentranrsi sul ruolo della fotografia e dell’autoritratto, secondo una prospettiva che si incentra sullo statuto dell’immagine, risulterebbe altrettanto fuorviante. Anche perché in Fiori, la fotografia ha spesso avuto una funzione strumentale e propedeutica alla poesia. Così come il primo libro di poesie – Case – è stato preceduto da una raccolta di polaroid di case, lo stesso sembra essere accaduto con Autoritratto automatico. Ma il soggetto di queste foto non è l’uomo Umberto Fiori, ma è Umberto Fiori il poeta. Un poeta che ha trovato nella fotografia realizzata automaticamente da una macchina un modo ulteriore per dissolversi in quell’Io impersonale, anonimo e generico che ne ha sempre contraddistinto la voce poetica[8]. Affacciato alla finestra come la statuina del presepe, alla foto di una lapide o alla foto della propria carta d’identità, il poeta è finalmente quel «un qualùnque»[9] che avverte su di sé la presenza del mondo e la restituisce in versi. E che si tratti di una fotografia o di una pagina di poesia:

Di più, di meglio, non si può fare,

stretti in questo rettangolo? (Scena, p. 32)

(Seconda ed ultima parte)

NOTE

[1] U. Fiori, Le case vogliono dire, cit., pp. 16-17.

[2] Ibid., p. 26.

[3] Ibid., p. 119; cfr. Il conoscente, 85-89, pp. 234-241.

[4] Cfr. anche U. Fiori, La bella vista, IV, p. 171.

[5] Si tratta di un’immagine che ritroviamo anche in Autoritratto automatico in Lapide (p. 27) e nel gioco di parole secondo il quale colui che è ritratto in fotografia, anziché «immortalato», è «mortalato» (Verbi, p. 56).

[6] Aggiungiamo che in Autoritratto automatico il photomatic è anche capanna del presepe; cfr. MM (p. 21) e Le case vogliono dire, cit., p. 128.

[7] Il tema della statua ritorna anche in Autoritratto automatico: «Ritrovare la nostra forma passiva, / la nostra cara statua» (Cabina, p. 54).

[8] Una lezione di poetica che dovrebbe essere appresa da tutti i “poeti”, non solo alle prime armi, ossessionati da ego ipertrofico e onnipervasivo, e pertanto incapaci di comprendere la funzione di un io poetico ben distinto dal proprio io biografico.

[9] Il rimando a Virgilio Giotti ci risulta irresistibile (cfr. V. Giotti, Un qualùnque, in Id., Colori, Einaudi, Torino 1997, p. 290), anche se il bene nella relazione con l’altro, segno dei tempi, in Fiori sembra essere diventato più difficile: «Sento, tra noi, un bene / Che non facciamo. / E non potremmo farlo: è troppo grande» (Il conoscente, 26, p. 66).

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