Giuseppe Lubrino (1990) ha conseguito Laurea Magistrale in Scienze Religiose con indirizzo pedagogico-didattico nel 2017 presso la Pontificia facoltà teologica dell’Italia Meridionale all’Issr. “G. Duns Scoto” di Nola-Acerra.  Ha discusso una dissertazione scritta dal titolo L’Educazione nel pensiero di Joseph Ratzinger. Una pedagogia del cuore. Attualmente insegna Religione Cattolica presso la Scuola Secondaria di secondo grado: “Iti.Marconi-Galilei” a Torre Annunziata (Na). Appassionato di Teologia biblica, approfondisce i suoi studi sul pensiero e l’opera di J. Ratzinger e sulla paideia cristiana.

La drammatica esperienza della pandemia da Covid-19, il rischio incombente di una guerra nucleare a causa del conflitto tra la Russia e l’Ucraina, l’avvento dell’intelligenza artificiale senza una etica ben definita, hanno suscitato nella maggior parte delle persone una paura che va sempre più crescendo circa le sorti dell’umanità futura. Tale situazione ha fatto si che ritornasse in auge un tema molto caro alla religione cristiana: l’Apocalisse, la fine dei tempi. Alla luce di ciò, con il presente articolo si intende verificare se dal punto di vista biblico-teologico le cose stanno davvero così. Bisogna chiarire innanzitutto che il termine apocalisse significa rivelazione e non distruzione, come erroneamente si ritiene nell’immaginario collettivo.

Detto questo, occorre precisare che, all’interno della Bibbia l’Apocalisse è diventato un vero e proprio genere letterario che è sorto e si è affermato già a partire dall’Antico Testamento nel II secolo a.C. Per ben comprendere tale filone letterario che – da come si può notare – ha attraversato come un filo rosso l’intera letteratura biblica, è necessario riferirsi al libro del profeta saggio Daniele, il quale sarà oggetto di riflessione nella presente trattazione.

Il libro di Daniele è confluito all’interno della Bibbia nella sezione degli scritti profetici tra i profeti maggiori: Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele. Tuttavia, gli esegeti sono unanimi nel ritenere tale scritto non appartenente per niente alla letteratura profetica. Essi, invece, tendono ad inquadrare il testo all’interno della sezione apocalittica di matrice sapienziale. Il testo di Daniele, infatti, è stato scritto a metà del II secolo a.C. durante la rivolta dei fratelli Maccabei. È stato, inoltre, redatto in Aramaico con alcune parti in ebraico e in greco. Lo scopo dell’intero racconto è quello di “esortare” il popolo ebraico alla resistenza contro il tentativo portato avanti dal sovrano Seleucide Antioco IV Epifane di ellenizzare la Palestina. Il nome dell’autore è chiaramente un’invenzione letteraria e il racconto di Daniele è stato pedagogicamente ambientato al tempo dell’esilio in Babilonia del popolo ebraico (597-538 a.C.) allo scopo di dimostrare agli ebrei del II secolo a.C. che Dio è un giudice giusto. Egli, pertanto, come ha liberato i suoi “anawim” dalle fauci del perfido sovrano Nabucodonosor, allo stesso modo libererà il suo popolo dalla tirannia ed egemonia culturale ellenistica.

A quel tempo, molti in Gerusalemme per motivi di convenienza politica ed economica si adattarono alla moda ed accettarono la cultura ellenistica regnante. Di tale climax culturale abbiamo la prova nel fatto che furono edificati una palestra e un teatro, due simboli tipici della cultura greca. Tuttavia, a tale situazione socio-culturale un “piccolo resto” vi si oppose. Tale resto era costituito da una piccola comunità di ispirazione quasi monastica, un’assemblea di saggi i quali, osservando la bestialità di cui il potere umano è capace di rivestirsi, riposero le proprie speranze ed attese nel Messia di Dio. Costoro credevano che solo Dio è il vero sovrano e a lui solo spetta il governo della Terra Santa e dell’intero pianeta. Essi sono gli “anawim”, i poveri di Jahvè.

Secondo molti studiosi, essi sono coloro che fondarono la comunità di Qumran e il gruppo degli esseni. Ad essi dobbiamo dunque l’invenzione del genere letterario dell’apocalittica e la redazione del testo di Daniele. Tale libro della Bibbia per quanto concerne il genere letterario dell’apocalittica né costituisce un esempio emblematico (Cfr. G. Ravasi, Quanto manca ancora all’alba? La Bibbia e il pensiero apocalittico, EDB, Bologna 2017). Peraltro, è di fondamentale importanza comprendere e approfondire tale tipo di letteratura sacra ai fini di una comprensione matura e profonda della Sacra Scrittura. Oltre ciò, a tale filone letterario risale la celebre denominazione “figlio dell’uomo” che Gesù stesso adopererà per definire sé stesso. La storia di Daniele svoltasi durante i settant’anni dell’esilio in Babilonia è ricca di colpi di scena e atta a dimostrare la fedeltà del Dio dei Padri alle sue promesse. Tale storia è stata redatta prendendo come modello di ispirazione anche il celebre racconto del patriarca Giuseppe della Genesi (capitoli 37-50). Daniele, come Giuseppe, con il suo modo di fare e di agire, guidato dalla Parola di Dio e dalla sapienza dei suoi insegnamenti, fa breccia nel cuore del tiranno babilonese e riesce a guadagnarsene il favore.

L’intento del presente articolo è quello di cogliere il perenne valore educativo della Parola di Dio: il valore mitico veritativo del Pentateuco, lo spirito dei Profeti, l’esperienza dei Sapienti e la lungimiranza degli apocalittici costituiscono infatti un codice attraverso cui si può decifrare e conoscere meglio la complessità del reale e della vita. Non a caso, il libro di Daniele aiuta a leggere la storia passata sotto la luce della Parola di Dio così da poter decodificare il senso della storia presente e di quella avvenire. Se gli apocalittici del II secolo a.C., attraverso il racconto di Daniele, resistettero all’egemonia del processo di ellenizzazione dei barbari portato avanti da Antioco IV Epifane e si mantennero fedeli e ancorati alle loro tradizioni, parimenti oggi si può apprendere da tali racconti la determinazione, le virtù e il coraggio di Daniele per imparare ad essere fedeli alle proprie radici culturali e alle propria identità personale. In questo senso, il racconto di Daniele diventa un’occasione di riflessione privilegiata per riflettere, specialmente in ambito educativo-didattico, sull’importanza di favorire nei discenti un’educazione emotiva e affettiva stabile. Cosicché essi possono acquisire un senso di identità solido e maturo. A partire da questa prospettiva, il libro del profeta saggio Daniele si configura quale supporto indispensabile per apprendere una visione della realtà nitida e profonda. Tale scritto è una vera e propria scuola di sapienza e di preghiera e, in ultima istanza, di esortazione alla fede.

Si riscontra sovente tra le giovani generazioni una crisi di identità e di valori dalle proporzioni enormi. Molti ragazzi sembrano essere facilmente preda di teorie stravaganti che vieppiù li inducono a compiere scelte di vita discutibili e dannose per la loro stessa incolumità fisica e mentale. Non di rado si può constatare quanta fragilità regna nel cuore dei giovani che si lasciano lusingare da modelli di comportamento effimeri e superficiali. Se a tale situazione sociale si considerano i problemi che attanagliano l’epoca odierna come il cambiamento climatico, le epidemie e il progresso tecnologico senza frontiere, quale scenari si possono immaginare per il futuro dell’umanità? L’apocalittica biblica in questo senso dimostra che la storia umana non è un susseguirsi di eventi senza senso guidati da un cieco caos ma è sorretta e guidata dalla ragione creatrice, da Dio. L’Apocalisse, quindi, non è e non dev’essere sinonimo di distruzione ma di salvezza e di rinascita. La storia intera del popolo ebraico riportataci dalle pagine sacre inquadrata in quest’ottica diviene un paradigma per l’intera storia umana. L’umanità è in cammino costante verso la verità e la comprensione più profonda del reale e l’apocalittica biblica in tale contesto risulta essere uno strumento indispensabile per perseguire tale scopo.

 In tal senso, risulta suggestivo concludere la presente riflessione riferendosi all’episodio riportato dal testo sacro in cui Daniele viene imprigionato nella fossa dei leoni. Il motivo di tale punizione risiede nella violazione di un decreto imperiale che sanciva il divieto di culto per divinità straniere non appartenenti alla cultura religiosa babilonese. Si comminava, infatti, una pena anche per i sudditi che si rifiutavano di rendere culto allo stesso sovrano, considerato una divinità. Daniele viene accusato di pregare almeno tre volte al giorno il Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe e per ciò stesso – il re pur nutrendo nei suoi confronti una certa stima e simpatia – è costretto ad imprigionarlo assieme ai suoi tre compagni di avventura in una fossa ardente abitata da leoni. È a questo punto che il Dio di Israele si rileva mandando un suo angelo per proteggere Daniele e i suoi compagni da morte certa. Si legga una parte del brano:

Appena uscito, non si riscontrò in lui lesione alcuna, poiché egli aveva confidato nel suo Dio […]. Allora il re Dario scrisse a tutti i popoli, nazioni e lingue, che abitano tutta la terra: «Pace e prosperità. Per mio comando viene promulgato questo decreto: In tutto l’impero a me soggetto si onori e si tema il Dio di Daniele, perché egli è il Dio vivente, che dura in eterno; il suo regno è tale che non sarà mai distrutto e il suo dominio non conosce fine. Egli salva e libera, fa prodigi e miracoli in cielo e in terra: egli ha liberato Daniele dalle fauci dei leoni». (Cfr. Dn 6).

Daniele grazie alla sua perseveranza nel bene diventa testimone credibile dell’esistenza e della grandezza di Dio. A rendere celebre questo enigmatico e poliedrico personaggio letterario della Bibbia non sono i grandi prodigi o le gesta eroiche, ma la costanza della sua virtù volta all’onestà, al bene degli altri e alla verità nell’ordinarietà del quotidiano.

Ritengo che tale patrimonio letterario e culturale conservi intatta la sua perenne attualità e validità per una riscoperta dei valori fondanti dell’umanesimo cristiano. Ripercorrere le trame della storia sacra narrataci dalla Bibbia è un itinerario quanto mai necessario nel nostro tempo per ridestare nei più la sete della conoscenza e del sapere. Ciò ai fini di abitare i “luoghi” dell’epoca post-moderna sviluppando e proponendo una prospettiva di pensiero differente da quella tecnico-scientifica che mira al saper fare trascurando il saper essere. Ripensare l’apocalittica biblica è opportuno per riscoprire la bellezza di attendere l’alba della civiltà biblica dell’amore.

Io guardavo, nelle visioni notturne, ed ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figlio d’uomo; egli giunse fino al vegliardo e fu fatto avvicinare a lui; gli furono dati dominio, gloria e regno, perché le genti di ogni popolo, nazione e lingua lo servissero. Il suo dominio è un dominio eterno che non passerà, e il suo regno è un regno che non sarà distrutto. (cfr. Dn 7,13-14).

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