Nicolò Sorio (1998) è attualmente studente del Corso di laurea magistrale in Politiche europee ed internazionali (LM-52), curriculum Sistemi e dinamiche globali, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Laureato in Scienze politiche e Relazioni internazionali (L-36) presso la Sapienza Università di Roma, con una tesi in Scienza Politica dal titolo: Il modello di ibridazione ungherese: il regime di Victor Orbán. È junior fellow del Centro Studi Geopolitica.info dove collabora ai lavori del desk “Russia e spazio post-sovietico” e “Italia ed Europa”, nonché alle attività del Comitato di Redazione e del Gruppo Comunicazione. Le sue tematiche di ricerca includono i regimi ibridi, i processi di democratizzazione, di autocratizzazione e la loro correlazione con l’ordine internazionale.
Recensione a: S. Bottoni, Orbán. Un despota in Europa, Salerno Editrice, Roma 2019, pp. 303, € 19,00.
Parlando della terza ondata di democratizzazione, ormai più di due decenni fa, Larry Diamond notava una crescita senza precedenti del numero di regimi che non sono né chiaramente democratici né convenzionalmente autoritari. Dopo il lavoro pioneristico del politologo statunitense, è cresciuta rapidamente anche la letteratura che parla di un arresto o addirittura di un’inversione di tendenza nei processi di democratizzazione in Europa centrale dopo i primi anni Novanta.
L’Ungheria è stata percepita come un esempio di democratizzazione di successo nella regione post-comunista per quasi due decenni. Dal 2010 in poi, tuttavia, la premiership di Victor Orbán ha cambiato radicalmente questa percezione e il Paese è divenuto un esempio di populismo, illiberalismo e deriva verso un governo autoritario. Non è solo l’inversione di rotta dell’Ungheria ad essere avvertita come un’esperienza sorprendente per gli studiosi di democratizzazione, ma anche – e soprattutto – la solidità dei cambiamenti apportati dal regime di Orbán. La velocità, il grado e la portata dei cambiamenti realizzati durante il mandato del leader di Fidesz hanno riguardato infatti tutte e tre le dimensioni della politics, della polity e della policy.
Victor Orbán è stato eletto per la prima volta come Primo ministro dell’Ungheria nel 1998, poi nel 2010, nel 2014, nel 2018 e nel 2022. Dal 2010 ha aperto una nuova èra nella politica ungherese. Orban è un leader carismatico e proattivo, che ha trasformato in modo significativo i processi politici in Ungheria influenzando tutta la politica europea. Ha avuto un forte impatto sul suo paese: ha ristrutturato il sistema partitico, cambiato il sistema elettorale e intrapreso cambiamenti istituzionali; ha applicato metodi politici e tecniche di campagna elettorale nuovi e innovativi; ha utilizzato strategie politiche divisive e fortemente polarizzanti; ha concentrato il potere intorno al suo partito, divenendo leader incontrastato della destra politica ungherese.
Per quanto riguarda il grado, la portata e la velocità, Orbán ha operato un robusto cambiamento nella natura stessa della politica ungherese, anche se la direzione e la qualità di questi cambiamenti sono controversi e fortemente dibattuti. Orban può essere considerato un leader politico eccezionale nel senso in cui M. Mumford (2006) ha concettualizzato il termine: «ha un impatto manifesto sulle nostre vite».
Come riesce un giovane ungherese di provincia a diventare il dominatore incontrastato della scena politica interna e uno degli uomini più discussi d’Europa? Perché trasforma l’Ungheria in un laboratorio illiberale? Come costruisce e rafforza il consenso interno al suo sistema? Quale partita geopolitica gioca stretto fra le alleanze continentali e le potenze globali? E non da ultimo: perché la democrazia liberale è implosa in Ungheria prima che altrove nell’Unione europea? (p. 9).
La nascita e il funzionamento del sistema di Orban possono essere compresi solo in prospettiva storica. E il fenomeno Orbán è tutto fuorché intellettualmente banale. Sono queste le premesse con cui Stefano Bottoni apre il volume Orban: un despota in Europa. Bottoni, attualmente professore associato di Storia dell’Europa orientale all’Università di Firenze, ma con più di un decennio di partecipazione diretta ai lavori dell’Accademia delle Scienze di Budapest, sfrutta a pieno la sua angolazione privilegiata per tracciare una summa sulla figura del premier ungherese, non solo come animale politico, ma anche come uomo.
Non esistono sistemi politici eterni. Vi sono tuttavia sistemi politici e assetti sociali che si calcificano in mancanza di alternative credibili (p. 17).
Il volume ripercorre in modo estremamente dettagliato non solo le tappe storiche fondamentali per l’Ungheria contemporanea, ma riesce anche a fornire una chiara ricostruzione di come il popolo ungherese – ed in particolare Orbán – hanno interiorizzato questi eventi.
Dalla formazione di Orbán deluso «figlio del socialismo», ai suoi primi sforzi per ritagliarsi uno spazio d’azione all’interno dello spettro politico ungherese come «liberale atipico», Bottoni riesce a dimostrare una coerenza pragmatica di fondo nella postura politica di del premier ungherese, contrariamente ad una narrazione molto accreditata, che vuole il Primo ministro e il suo movimento, inizialmente liberale e libertario, “spostarsi a destra” per ragioni di calcolo politico dopo la disfatta della coalizione conservatrice alle elezioni del 1994 e il trionfo della sinistra post-comunista.
Uno sguardo critico all’azione politica di Fidesz suggerisce una conclusione diversa. Fidesz non fu mai soltanto l’ala giovanile del grande partito liberale e filo-occidentale negli anni della transizione: la Federazione dei liberi democratici. Sin dal primo momento grazie soprattutto al genio politico di Orbán Fidesz si ritagliò uno spazio autonomo e una prima diversità. Le successive evoluzioni del movimento non furono giravolte improvvisate dettate da opportunismo, ma l’esito più o meno coerente di un percorso avviato trent’anni fa e centrato sui concetti di forza e sovranità (p. 30).
La difficile metabolizzazione dottrinaria orbaniana iniziata con «il sogno borghese», sistematizzata grazie alla “lunga marcia” dopo la sconfitta alle legislative del 2002 e consacrata poi dalla «svolta “plebea”», evidenzia come la nuova destra ungherese poggi su basi intellettualmente solide, strettamente intrecciate con l’ascesa politica di Fidesz e di Orbán. Al Primo ministro magiaro non si adatta la categorizzazione classica del “populista venuto dal basso che parla alla pancia del paese”. Fidesz, nel suo insieme, rappresenta la legittimazione dottrinaria di un’alternativa nella categorizzazione binaria – troppo rigida per l’epoca fluida della post-modernità – democrazia/autoritarismo: il «tentativo più compiuto di ribellarsi all’idea della necessaria imitazione dei modelli politici occidentali» (I. Krastev e S. Holmes, 2018).
Bottoni, quindi, non si limita a inquadrare la super-maggioranza Fidesz nella storia nazionale ed internazionale. Presenta Orbán come leader indiscusso di una controrivoluzione culturale, una «deglobalizzazione culturale», la quale rappresenta un male contemporaneo che affligge l’Occidente e le sue stanche democrazie. Emancipare l’identità di destra ungherese significa legittimare un nuovo «iper-nazionalismo» etnocentrico, illiberale e xenofobo che trova nel regime ibrido la sua traduzione costituzionale. La «macchina (quasi) perfetta» creata da Victor Orbán, impossibile da categorizzare con le ormai obsolete distinzioni duali fondate sulla contrapposizione democrazia/autoritarismo, rappresenta una sfida politica e culturale di primo piano all’interno dell’Unione europea. Il sistema di cooperazione nazionale (Ner) – sicuramente la creazione più fortunata della fucina Fidesz – rappresenta il vulnus della «deglobalizzazione orbaniana»: un preciso piano per raggiungere non solo il potere, ma anche l’egemonia economica e culturale.
Se già dal titolo si possono intuire i toni non certo gentili nei confronti del premier ungherese, il volume di Bottoni non risparmia – ed anzi assume toni particolarmente duri – l’opposizione fatta finora ad Orbán, non solo nazionale, ma anche europea ed internazionale.
Sono convinto che la sfida politica e culturale che il sistema Orban rivolge al mainstream europeo richieda da parte dei suoi avversari uno sforzo di analisi che si sono finora risparmiati di avviare. […] vorrei che questo libro contribuisse a una riflessione comparata sulla crisi della rappresentatività democratica nelle semi periferie europee e stimolasse gli avversari a sfidare il neo-populismo […] sul piano delle politiche pubbliche e non su quello, fumoso quanto velleitario, della battaglia identitaria in nome della propria superiorità morale (p. 17).
Il modello Orbán è il prodotto ultimo del cortocircuito democratico, si nutre dei sogni infranti dell’utopia democratica. L’Ungheria contemporanea rappresenta l’ultima sirena dall’allarme per le democrazie del Vecchio continente. Ad essa non va rivolto uno sguardo sterile o un’“opposizione narcisista” basata soltanto su una presunta superiorità morale, convinta di essere depositaria della verità giusta – Aletheia – e, a tal scopo, il volume di Bottoni rappresenta una lettura obbligata.
L’immagine che l’analisi di Bottoni suscita nel lettore è quella di essere dinnanzi ad un progetto egemonico ben radicato – e cosciente – della storia ungherese, che proietta l’importanza del Paese magiaro oltre le semplici riforme “illiberali”. Orban, il Ner e Fidesz si ergono a rappresentanti di una sub-cultura europea troppo spesso banalizzata e trascurata, una «società incivile» che da sempre esiste, anche all’interno dei confini dell’Unione europea, che l’utopia della fine della storia e della “democratizzazione inevitabile” hanno in fretta e furia dimenticato.
Il modello orbaniano, visto come imposizione di un potere arbitrario legittimato dalla presunta volontà generale e predicato come “illuminato” in quanto giustifica la sua non democraticità con il perseguimento del bene comune ungherese, può essere visto come usurpazione culturale. Orbán, più che un despota, colui che strumentalmente si appropria di “ciò che non è suo”, può essere visto come un usurpatore culturale. In De l’esprit de conquête et de l’usurpation (1814) Benjamin Constant identificò l’usurpatore come colui che si appropriò della libertà di imporre il conformismo, di plasmare un’intera nazione a sua immagine e somiglianza; di rendere gli individui complici del proprio dominio, sostituendo il governo costituzionale con una forma individualizzata di tirannia. L’usurpazione – e l’usurpatore – «condanna [l’uomo] a parlare, lo insegue nel santuario più intimo dei suoi pensieri e, costringendolo a mentire alla propria coscienza, priva l’oppresso della sua ultima consolazione rimasta».
La sfida lanciata da Fidesz alla coscienza europea è quella di uscire dalla condanna aprioristica basata su un senso di superiorità morale per costruire un’alternativa culturale sistemica che riaffermi i valori della democraticità e del liberalismo come unici mezzi possibili per una Europa unita.