Nicolò Sorio (1998) è attualmente studente del Corso di laurea magistrale in Politiche europee ed internazionali (LM-52), curriculum Sistemi e dinamiche globali, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Laureato in Scienze politiche e Relazioni internazionali (L-36) presso la Sapienza Università di Roma, con una tesi in Scienza Politica dal titolo: Il modello di ibridazione ungherese: il regime di Victor Orbán. È junior fellow del Centro Studi Geopolitica.info dove collabora ai lavori del desk “Russia e spazio post-sovietico” e “Italia ed Europa”, nonché alle attività del Comitato di Redazione e del Gruppo Comunicazione. Le sue tematiche di ricerca includono i regimi ibridi, i processi di democratizzazione, di autocratizzazione e la loro correlazione con l’ordine internazionale.

Recensione a: T. Judt, Postwar. La nostra storia 1945-2005, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 1075, € 28,00.

Vienna, 1989. È qui che Tony Judt prende la decisione di ricostruire la storia del dopoguerra europeo, consapevole di essere testimone della fine di un’epoca che lasciava lentamente il posto ad una nuova Europa: «Ciò che prima era sembrato avere un carattere permanente, e per così dire inevitabile, avrebbe assunto un contorno molto più transitorio» (p.4).

La città in cui ebbe inizio il “cammino” del volume non è ovviamente marginale nella storia e nella riflessione proposta dallo stesso. Vienna si presentava all’epoca come palinsesto dei complicati e sovrapposti passati del continente. Nei primi anni del Novecento, la capitale austriaca era l’Europa: il nucleo pulsante, inquieto – e vittima delle proprie illusioni – di una cultura e di una civiltà sull’orlo del suicidio. Nel periodo interbellico si era consumato il passaggio da gloriosa metropoli imperiale a impoverita e rimpicciolita capitale di un minuscolo Stato. A metà del ventesimo secolo, continuando il suo declino, finì per divenire avamposto provinciale dell’impero nazista, al quale i suoi abitanti giurarono entusiasticamente fedeltà. Dopo la sconfitta tedesca, venne arbitrariamente assegnata al “campo occidentale” e le venne attribuito il ruolo di “prima vittima di Hitler”: «Questo colpo di fortuna, doppiamente immeritato, permise a Vienna di esorcizzare il passato, costruendosi una nuova identità come città occidentale, circondata dall’Europa orientale sovietica», alfiere e ultimo baluardo del mondo libero, cosicché «nel 1989 Vienna offriva quindi una prospettiva ideale per pensare il continente» (pp. 4-5).

Judt, al centro di un’Europa dove i regimi comunisti stavano implodendo, ma erano ancora ben visibili, intuisce che gli anni dal 1945 al 1989 sarebbero stati concepiti non come inizio, ma come una fase di transizione, una parentesi postbellica, lo stralcio di un conflitto terminato nel 1945, il cui epilogo si era tuttavia protratto per un altro mezzo secolo. Non la fine del “secolo breve” di Hobsbawm, ma di un dopoguerra lungo.

Questo volume è il risultato di una vita dedicata allo studio, ma anche di passioni politiche e di un impegno progressista – che implica una buona dose di ingenuo ottimismo. Judt si è impegnato a riconnettere l’Europa, gli Stati e l’Occidente in generale con la propria storia, con gli orrori di cui vergognarsi – senza mai dimenticarli – e con i trionfi da non accantonare in nome di qualche effimera nuova ideologia: «La pacifica e collaboratrice Europa postnazionale, fondata sul sistema assistenziale, non è nata da un progetto ottimistico, ambizioso e lungimirante, come immaginano, con devoto sguardo retrospettivo, gli odierni euro idealisti, ma è stata la figlia insicura dell’ansia» (pp. 9-10), avviata sulla nuova strada per scongiurare il ritorno degli antichi demoni. Pertanto, commenta Judt, «l’“Unione” europea può essere una risposta alla storia, ma non potrà mai prenderne il posto» (p. 1023).

Postwar è un omaggio al cammino dell’Europa di uno storico segnato dal fascino tormentato delle civiltà in scontro. L’Autore sposa e sostiene la difficile posizione di chi racconta il suo tempo: «ho la consapevolezza di aver imparato, osservato e persino vissuto buona parte di questa storia nel momento stesso in cui si svolgeva» per proporre «un’interpretazione dichiaratamente personale del recente passato europeo» (p. 1). Tony Judt si considerava un intellettuale, parte di quella minoranza a cui la società chiede di pensare per tutti, di non dimenticare quello che i popoli hanno necessità di rimuovere: «Come si cerca di dimostrare nelle pagine che seguono, la Seconda guerra mondiale ha lasciato una lunga e pesante ombra che, tuttavia, non poteva essere riconosciuta fino in fondo. Il silenzio sul recente passato è stata la condizione necessaria per costruire un futuro» (p.15).

Questa è la premessa fondamentale alla lettura di Postwar: non è un volume con una tesi, si pone in una prospettiva di umiltà, di trasmissione della conoscenza, è lo sforzo di un individuo di farsi carico della storia di un continente. Emblematica in tal senso è una antica battuta sovietica che lo stesso autore riporta nel testo:

un ascoltatore chiama Radio Armenia e domanda: “è possibile prevedere il futuro?”. Risposta: “si, nessun problema. Sappiamo esattamente come sarà il futuro. Il nostro problema è il passato: continua a cambiare” (p. 1022).

Ciò che emerge, più di ogni altra cosa, è la necessità, percepita dall’Autore, di interpretare, di offrire una chiave di lettura, un punto di vista che qualifichi il contemporaneo: la dicotomia tra prosperità e malcontento, la centralità degli anni ’70, la critica al ruolo degli Stati Uniti e alle occasioni mancate del dopo Guerra fredda, il perno del modello europeo nelle nuove sfide per l’uguaglianza sociale.

Tra i pregi di questo saggio monumentale ha un posto di primo piano la periodizzazione che lo sostiene: il recupero della nozione di Europa, il senso di un termine controverso e polisemico che si definisce a partire dal turning point del 1945. Nelle pagine di Postwar si vive il passaggio da una guerra globale ad una comunità globale. Un viaggio immersivo nella “nostra storia” fatta di autodistruzione, speranze e opportunità, ma anche illusioni ed errori. Il nuovo conflitto in atto in Europa non può che ampliare gli interrogativi del saggio che assume così una sfumatura ancor più amara. Inevitabilmente, non solo il conflitto ucraino, ma anche il generale backsliding democratico nell’Europa orientale, guidano la lettura di questo volume verso la comprensione di quella frattura Est-Ovest che ha caratterizzato strutturalmente e ideologicamente il secondo Novecento e che arriva a noi sotto forma di polverizzazione della politica e della società che prende corpo in una inedita tipologia di insicurezza e incertezza. La dicotomia benessere-illusione, proposta numerose volte all’interno dello scritto, indirizza il focus su alcuni elementi nevralgici tipici di una disillusione emotiva e di una disgregazione sociale che ha portato la società contemporanea in uno stato di perenne crisi ben oltre i margini della pratica economica.

Settantotto anni dopo il Secondo conflitto mondiale, è ancora difficile cimentarsi nella lettura di questo monumentale saggio senza essere coinvolti emotivamente nella spirale che, se all’Autore sembrava portasse verso un futuro senza guerra, ai lettori di oggi, anno 2023, non può che trasmettere un senso di incompiutezza della costruzione di un’Europa veramente unita. Ancor più brutalmente attuali sembrano allora le parole pronunciate dal Ministro della Cultura francese sotto la presidenza di Mitterrand, Jack Lang, in un discorso celebrativo di Jean Monnet: «Se si dovesse ricominciare, comincerei dalla cultura». Non c’è Europa senza europei, non ci sono europei senza una cultura condivisa che va necessariamente rintracciata nel secondo dopoguerra. In tal senso, il denso volume di Tony Judt rappresenta il testamento politico, non di un uomo, ma di un ideale, rappresentativo di una generazione che nell’Europa unita aveva riposto tutte le speranze e impiegato tutte le energie.

Loading