Nicolò Sorio (1998) è attualmente studente del Corso di laurea magistrale in Politiche europee ed internazionali (LM-52), curriculum Sistemi e dinamiche globali, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Laureato in Scienze politiche e Relazioni internazionali (L-36) presso la Sapienza Università di Roma, con una tesi in Scienza Politica dal titolo: Il modello di ibridazione ungherese: il regime di Victor Orbán. È junior fellow del Centro Studi Geopolitica.info dove collabora ai lavori del desk “Russia e spazio post-sovietico” e “Italia ed Europa”, nonché alle attività del Comitato di Redazione e del Gruppo Comunicazione. Le sue tematiche di ricerca includono i regimi ibridi, i processi di democratizzazione, di autocratizzazione e la loro correlazione con l’ordine internazionale.

Recensione a: G. Natalizia, Renderli simili o inoffensivi. L’ordine liberale, gli Stati Uniti e il dilemma della democrazia, Carocci, Roma 2021, pp. 168, € 20,00.

Il Democracy Report 2023, pubblicato quest’anno dal Varieties of Democracy Institute (V-Dem), ha rilevato il sorpasso quantitativo delle autocrazie chiuse (33) a discapito delle democrazie liberali (32). Il processo noto come “terzo riflusso” autoritario, che da più di un decennio erode incessantemente le democrazie del mondo, nel 2022 ha fatto registrare un calo qualitativo generale che ha riportato la Global Freedom (dato aggregato) ai livelli del 1986 – l’anno dell’incidente di Chernobyl e del Summit di Reykjavik. Risultato, questo, solo parzialmente moderato dal fatto che nel mondo i regimi ascrivibili alla categoria “democrazia” – categoria comprendente sia le democrazie liberali che quelle elettorali – (90) restano comunque numericamente maggiori rispetto a quelli definibili come autocrazie (89) – categoria comprendente sia le autocrazie chiuse che quelle elettorali.

Larry Diamond (2020) in un articolo su «Foreign Affairs» constatava come negli ultimi quindici anni il mondo è stato progressivamente stretto nella morsa di una recessione democratica. Se fino a poco tempo fa la dottrina sottolineava soprattutto il carattere ambiguo di tale “ritirata democratica” – tanto da contestarne addirittura l’idea stessa –, recentemente l’interesse per tale fenomeno non solo sembra aumentare esponenzialmente, ma sembra anche investire trasversalmente tutte le scienze sociali. Come sottolinea lo stesso politologo statunitense, il primo dato – squisitamente empirico – da cui partire nell’analisi del fenomeno è che la democrazia ha «semplicemente smesso di espandersi». Il 2006 è stato il punto più alto per la democrazia nel mondo, con la percentuale di regimi democratici che ha raggiunto il 57% tra gli Stati con oltre un milione di abitanti e il 61% di tutti gli Stati. Da allora la percentuale di democrazie nel mondo è gradualmente diminuita: il 72% della popolazione mondiale – circa 5,7 miliardi di persone – vive oggi in regimi non democratici (V-Dem, 2023).

In prima battuta le prospettive interpretative rivolte a questo backsliding democratico lo hanno prevalentemente ricondotto a fattori domestici, ribaltando – riformulando al contrario – le teorie sulla democratizzazione. Questi primi studi hanno alternativamente utilizzato variabili interne (la fragilità delle istituzioni politiche, i cleavages identitari, la cultura politica, il ruolo degli incumbent, l’alterazione della reale competitività dell’arena elettorale o l’intervento di una crisi economica) nell’intento di trovare una causa al recesso democratico, il tutto inserito all’interno di una cornice di – mal celato – determinismo storico-istituzionale. Man mano che è divenuto evidente come i casi di autocratizzazione non fossero isolati, ma stessero proliferando contemporaneamente in diverse parti del mondo e in maniera del tutto speculare a quanto avvenuto un ventennio prima con le transizioni democratiche, la variabile internazionale è stata integrata all’interno di un numero crescente di studi. Come lo stesso Gabriele Natalizia sottolinea all’interno del suo volume, ciò che per certi versi risulta sorprendente è che – come i processi di democratizzazione – i processi di autocratizzazione abbiano attirato l’interesse quasi esclusivo degli studiosi di politica comparata. Nonostante i chiari collegamenti con la dimensione esterna, gli studiosi di relazioni internazionali sembra siano rimasti ai margini. Tale marginalizzazione non trova – secondo Natalizia – alcun fondamento che possa giustificarla.

Tale lacuna lascia ancor più stupiti se si pensa al grado di interiorizzazione tra gli internazionalisti – senza distinzioni per la “scuola” di appartenenza – dell’idea secondo cui l’ambiente esterno sottopone le sue unità a una pressione che, pur non potendone predeterminare il contenuto, impone loro di compiere scelte sia in funzione delle minacce da sventare che dei vantaggi da conseguire (p. 16).

In tal senso, il primo merito che va riconosciuto a Natalizia è quello di aver sottolineato una variabile esplicativa non meramente esogena, ma sistemica: l’ordine internazionale. Poche questioni hanno attirato tanta attenzione nella letteratura accademica come l’ordine internazionale liberale: gli storici hanno ripetutamente tentato di rintracciarne le origini ed evidenziare i turning point; gli economisti ne hanno discusso vantaggi e svantaggi e gli scienziati politici hanno posto l’accetto sulla sua componente istituzionale. Nonostante il volume affronti la maggior parte di queste problematicità – dalla prospettiva della disciplina delle relazioni internazionali – la sua domanda di ricerca non mira meramente alla definizione di un quadro definitorio dell’ordine liberale tout court. Il principale focus analitico dell’autore è sui rapporti di potere, visti come il fondamento di qualsiasi status quo internazionale, ivi compreso l’ordine liberale e sulle grand strategies delle potenze dominanti. In tale prospettiva, l’arretramento della democrazia nel mondo rappresenterebbe l’altra faccia della crisi dell’ordine liberale, in un sistema che vede come comun denominatore la postura internazionale degli Stati Uniti d’America.

Il «rompicapo» che apre le pagine del volume non può che essere quindi uno degli aspetti più cruciali della politica internazionale di oggi: l’impegno altalenante degli Stati Uniti nella promozione della democrazia. L’intuizione dell’Autore è quella di utilizzare la celebre teoria di Peter Gourevitch della second image reversed (seconda immagine rovesciata) che, nel caso dell’egemone, ha però implicazioni sistemiche. In altre parole, se è vero che le politiche adottate dagli Stati Uniti d’America plasmano l’ambiente internazionale, è vero anche che queste ultime, a loro volta, non sfuggono alle influenze dell’ordine internazionale stesso. In tal senso, la tesi del volume può essere riassunta con la seguente affermazione:

l’espansione o la contrazione nei confronti della sfera interna degli Stati secondari tendano a seguire i cambiamenti del potere relativo come conseguenza dei vincoli e degli incentivi provenienti dall’ambiente esterno (p. 18).

Il ragionamento proposto da Natalizia poggia per tanto sulla comparazione diacronica dell’approccio strategico e delle risposte concrete fornite dagli Stati Uniti al «dilemma della democrazia», in funzione dei mutamenti che si sono verificati nell’ordine internazionale dalla fine della seconda guerra mondiale al post-Guerra Fredda. In altre parole, a seconda dei cambiamenti del potere relativo su scala globale e della conseguente stabilità dell’ordine, è possibile spiegare l’espansione o la contrazione degli obiettivi e della capacità di influenza nei confronti degli Stati secondari da parte della potenza egemonica – ovvero gli Stati Uniti d’America. Quest’ultima tende a produrre una postura oscillante tra due politiche alternative, ma entrambe finalizzate al mantenimento di uno status quo internazionale ad essa favorevole.

«Renderli simili o inoffensivi»? Da un lato, puntare a rendere gli Stati secondari «simili», spingendoli all’adozione di un regime democratico. La democrazia, in questa prospettiva, sarebbe utilizzata come uno strumento di sicurezza, un attributo del sistema internazionale che tende a stabilizzarlo nel medio e lungo termine. Dall’altro, mirare a renderli «inoffensivi», ovvero cercare semplicemente l’allineamento sulle principali questioni strategiche.

La prevalenza dell’una o dell’altra politica dipende dalla stabilità dell’ordine egemonico. Più l’ordine è stabile, ovvero «non sottoposto a sfide che ne possano mettere in discussione le caratteristiche essenziali», più la potenza dominante amplierà il raggio degli obiettivi che persegue in campo internazionale, preferendo politiche intrusive e assimilatrici di lungo periodo nei confronti degli ordinamenti domestici degli Stati secondari, come è avvenuto durante le amministrazioni Truman, Reagan, Bush sr., Clinton e Bush jr. Al contrario, nelle fasi di crescente instabilità, ovvero quando l’ordine internazionale è oggetto della crescente «contestazione di potenze revisioniste al punto che le sue caratteristiche essenziali potrebbero non rimanere costanti nel tempo, ma anzi, subire una profonda riformulazione», gli Stati Uniti sacrificherebbero la democratizzazione degli Stati secondari al fine di concentrare la propria attenzione sulle minacce strategiche immediate. È proprio quest’ultima la condizione che meglio spiega l’ambiente internazionale in cui si sono trovate ad operare le ultime tre amministrazioni americane, Obama, Trump e Biden, che – contrariamente alla narrazione mainstream – sono più simili di quanto si possa pensare.

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