Andrea Capo (1998) si è laureato in Mediazione Linguistica e Comunicazione Interculturale presso l’Università degli Studi "Gabriele d’Annunzio" di Chieti-Pescara. Ha conseguito il titolo magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università Roma Tre. Le sue aree di interesse riguardano lo studio della geopolitica, dei processi di democratizzazione e involuzioni democratiche, con un focusin Asia centrale e Africa orientale.

Recensione a: S. Levitsky, L.A. Way, Competitive Authoritarianism. Hybrid Regimes after the Cold War, Cambridge, New York 2010, pp. 517, € 36,17.

Qual è il limite che separa una democrazia imperfetta da un regime autoritario?

È questa la domanda a cui Steven Levitsky e Lucan A. Way, definiti da Steven Fish come «Juan Linz e Alfred Stepan della loro generazione», intendono rispondere con il loro celebre lavoro Competitive Authoritarianism. Hybrid Regimes after the Cold War, edito da Cambridge e non ancora tradotto in lingua italiana.

La finalità dei due politologi è quella di proporre una descrizione organica dell’autoritarismo competitivo emerso negli anni Novanta a seguito della terza ondata di Huntington. Concepito come una forma di governo transitoria che tende alla democrazia ma che non riesce a porsi come tale, questa forma ibrida si è diffusa in molte aree del mondo, dai Paesi extra-europei precedentemente retti in nome di ideologie di stampo socialista ai Paesi del continente africano e americano. Attraverso l’analisi di 35 casi di studio in 5 regioni diverse, gli Autori individuano i fattori che influiscono sulla transizione democratica o “autoritarizzazione”, distinguendo le varie traiettorie che un regime può intraprendere a seguito di una crisi.

Il prestigio di quest’opera è riconosciuto da varie personalità del mondo accademico, tra cui Larry Diamond e Larry Bratton, per aver avuto il merito di definire empiricamente la formazione delle cosiddette “democrature”, oltre che per comprendere come gli autocrati imparino a convivere con le elezioni e ad accettare un processo di liberalizzazione. Infatti, all’indomani della scomparsa del blocco socialista, anche i governanti più restii a intraprendere delle riforme sono stati costretti ad aprirsi al modello che sembrava divenuto egemone in quel momento. Come ricorda una celebre frase dell’ex presidente della Tanzania Julius Nyerere: «Perché liberalizzare? Quando vedi che il tuo vicino si sta radendo la barba, dovresti iniziare perlomeno a inumidire la tua. Altrimenti, corri il rischio di ottenere una pessima rasatura e farti del male» (p. 16). Per un effetto simile ad un’implosione, molte nazioni hanno avviato processi di transizione in direzione di sistemi politici di tipo liberaldemocratico. Processi che paiono in non pochi casi essersi come interrotti a metà strada. È in questo contesto che prende forma una nuova tipologia di governo, connotata da tratti peculiari e che pone un grosso punto interrogativo per molti studiosi contemporanei. Definiti in molti modi, in politologia sono noti come “regimi ibridi”.

I primi a riferirsi a questi sistemi sono stati Guillermo O’Donnell e Philippe C. Schmitter, i quali hanno coniato i termini dictablandas e democraduras per identificare regimi che si collocano in una zona grigia tra democrazia e autoritarismo. Riprendendo la definizione che ne danno Levitsky e Way: «i regimi ibridi non sono semplici tappe verso la democratizzazione, ma forme stabili di governo che possono persistere nel tempo, combinando elementi autoritari con meccanismi democratici distorti» (p. 4).

I caratteri misti di queste nuove forme di potere impegnano i politologi in uno sforzo di categorizzazione rigorosa e condivisa. Vi è infatti chi concepisce il regime ibrido come fenomeno transitorio, una sorta di “democracy in progress” e pertanto meritevole di essere considerato come una “democrazia in divenire”. Diversamente, vi è chi sostiene che le sue caratteristiche illiberali consentono di inserirlo nella macro-famiglia degli autoritarismi, concependolo come un “soft authoritarianism”, ossia un regime più simile ad un modello non democratico piuttosto che a una fragile democrazia. Altri ancora vi si riferiscono con i termini di autoritarismo elettorale, democrazie distorte, anocrazie o democrazie illiberali.

Secondo gli Autori, la tipologia ibrida più ricorrente nei giorni odierni sarebbe quella degli autoritarismi competitivi, da loro definiti come «dei regimi civili nei quali esistono delle istituzioni formalmente democratiche, che sono viste come gli unici strumenti per acquisire il potere, ma in cui vi è l’abuso da parte di chi lo detiene che non permette una competizione politica ugualitaria» (p. 5). L’accezione del termine “autoritarismo competitivo” rimanda al fatto che questi regimi mantengono elementi dispotici nella gestione del potere ma, allo stesso tempo, operano in un contesto concorrenziale, riconoscendo alla società civile il ruolo di influenzare attivamente il processo elettorale. Di conseguenza, i partiti egemoni assumono un “comportamento duale” in quanto hanno bisogno di legittimarsi ma devono rispettare le procedure democratiche fondamentali. Ne consegue che, a differenza di quanto accade nei regimi autoritari, il governo è limitato in termini di titolarità e/o assunzione dei pieni poteri. In particolare, le elezioni sono viste come il principale strumento per conseguire il potere e possono realmente determinare il futuro della leadership. Tuttavia, le competizioni elettorali presentano estrema vulnerabilità sotto il profilo della loro correttezza, ossia del rispetto delle libertà civili e conformità ad un sistema di leggi costituzionali chiare, coerenti e soprattutto imparziali. Spesso si registrano, infatti, brogli, censura, esclusione di candidati dell’opposizione per ragioni politiche nonché intimidazioni, minacce e diffamazioni infondate nei loro confronti. Quindi, la misura più diffusa per ostacolare i rivali è quella di accusarli con false imputazioni, in modo da far apparire come legale quel che in realtà è un’autentica soppressione dei dissidenti. Questi atti di limitazione della concorrenza politico-partitica possono essere osservati in Paesi come Malaysia, Malawi e Ucraina, i cui governi, utilizzando il pretesto della lotta alla corruzione, sono riusciti a garantire l’eliminazione degli avversari, mantenendo un’apparenza di rispetto per lo Stato di diritto.

L’opposizione che vive in un autoritarismo competitivo è limitata da linee rosse da non oltrepassare. Si viene perciò a creare una cultura di “regole informali”, ossia di procedure non regolamentate ma che condizionano la politica del Paese. Ciò può portare anche all’uso della violenza privata per intimidire coloro che superano la soglia di tolleranza imposta dal regime e l’uso del ricatto per fini politici. In questo contesto, trova senso la celebre frase dell’ex presidente georgiano Shevardnadze: «Non sapete come sono questi occidentali? Faranno chiasso (riferendosi ad una frode elettorale o abuso) per un po’ di giorni, ma poi si calmeranno e tutto tornerà come sempre» (p.16).

I regimi di autoritarismo competitivo possono essere considerati dunque delle “democrazie di facciata”, poiché, pur adottando formalmente norme democratiche, presentano gravi carenze in termini di trasparenza e funzionamento del governo. A questo riguardo, gli Autori hanno osservato ulteriori caratteristiche ricorrenti nelle democrature come l’accesso privilegiato ai mezzi di informazione o alle risorse economiche da parte dell’élite, che abusa del suo potere a discapito dei contendenti. Ciò determina anche la presenza sistemica di alti tassi di corruzione, pratiche clientelari e compravendita del voto.

Quindi, la logica che prevale in questi regimi, non è quella di compiere un consolidamento democratico bensì servirsi di istituzioni parzialmente libere per guadagnare legittimità agli occhi della comunità internazionale. Rifiutando un modello pienamente illiberale, la leadership che decide di cristallizzare il proprio status in una zona intermedia tra democrazia e autoritarismo prova a trasmettere l’illusione di essere “al passo con i tempi” e di vedere con favore un eventuale passaggio ad una piena democrazia. Tuttavia, quest’ultimo non si verifica in quanto i governanti trovano convenienza a preservare un modello intermedio, in quanto garantisce loro il mantenimento del potere in maniera formalmente legittima, seppur non trasparente.

La differenza con l’autoritarismo è evidente. Chi governa in una democratura non può agire a proprio piacimento ma è limitato dal rispetto di alcune regole basilari. Inoltre, esiste tolleranza al dissenso e l’opposizione, pur svantaggiata, può liberamente esercitare le proprie attività senza essere sottoposta a vessazioni arbitrarie.

Oltre a definire la nuova tipologia degli autoritarismi competitivi, l’importanza di quest’opera è dovuta all’elaborazione del modello linkage-leverage, sviluppato da Levitsky e Way per spiegare quali sono i fattori che incidono sull’evoluzione di un regime ibrido. Questa teoria ruota attorno alla relazione tra linkage e leverage dove per linkage (legami) si intendono i livelli di interdipendenza con l’Occidente dal punto di vista economico, sociale, diplomatico e geografico, mentre con leverage (influenza) ci si riferisce al grado di vulnerabilità rispetto alla pressione democratica. La combinazione di tali elementi determina le probabilità di democratizzazione o involuzione autoritaria di un Paese.

La correttezza delle previsioni realizzate in questo lavoro dimostrerebbe la validità del metodo. Dalle stime fatte dai politologi, 28 su 35 sono risultate corrette, mentre il restante ha lievemente disatteso le loro aspettative. A questo riguardo, si è facilmente previsto la democratizzazione di Stati come Romania, Slovacchia o Serbia, che si sono trovati in una condizione di ibridismo tra il 1990 e 1995 ma che successivamente sono riusciti ad abbracciare il modello liberaldemocratico. Allo stesso modo, analizzando la relazione tra linkage e leverage in Paesi come Malesia, Camerun, Mozambico e Zimbabwe, Levitsky e Way hanno dedotto che questi regredissero ad un pieno autoritarismo nel corso degli anni. Solo l’Albania, Bielorussia, Benin, Ghana, Mali, Perù e Ucraina hanno tradito le considerazioni degli studiosi, in quanto hanno sperimentato un’evoluzione diversa da quella pronosticata. In particolare, a sorprendere i politologi, sono stati i casi di Ghana, Benin e Mali, caduti completamente fuori dal loro modello ma che sono riusciti a sviluppare una fragile democrazia nonostante non esistessero condizioni favorevoli.

In particolare, affermano gli Autori, quando il linkage e leverage sono elevati, una democratura è solita trasformarsi in democrazia. Come dimostra quanto è avvenuto in Polonia, Argentina o Croazia verso la fine degli anni Ottanta, le semi-democrazie formatesi con il crollo di un precedente regime autoritario non hanno avuto vita lunga e hanno rappresentato un fenomeno meramente transitorio, nel senso che non si sono consolidate a livello istituzionale. D’altro canto, si è potuto constatare che le varie connessioni con l’Occidente possono in qualche misura facilitare il passaggio di questi sistemi intermedi verso l’instaurazione di poliarchie mature e radicate.

Nel caso in cui si abbia un legame alto con l’Occidente ma una bassa influenza, i governi sono incentivati a sviluppare una democrazia in forma graduale e indiretta. Qui il regime, non essendo sottoposto ad un’intensa pressione, non considera prioritario il processo di liberalizzazione ma si impegna nel raggiungere tale traguardo in quanto considerato favorevole. È il caso di Paesi come Messico e Taiwan. Quest’ultimo è riuscito a portare a termine la transizione negli ultimi anni.

Al contrario, quando si ha invece un basso legame con i Paesi democratici e una bassa influenza, il regime ibrido rimane tale o regredisce al livello di un completo autoritarismo, come dimostrano i casi di Russia e Bielorussia. Questo perché gli incentivi a non avviare un processo di democratizzazione sono alti, in quanto la leadership ha più margini di potere e non è costretta a rispondere delle proprie azioni all’Occidente, né rischia di essere sottoposta a ripercussioni da parte di esso. Come si evidenzia nell’opera, la Federazione Russa rappresenta un chiaro esempio di involuzione democratica. Con la presidenza El’cin, Mosca ha avviato un processo riformista, allontanandosi dal suo passato autoritario e inserendosi all’interno della macro-famiglia dei sistemi ibridi. Fino agli anni 2000 il Paese è rimasto cristallizzato in una posizione intermedia, rispettando solo parzialmente alcune delle funzioni democratiche ma senza violare i principi cardine necessari all’edificazione di un sistema liberale. L’inversione di rotta si è avuta con la presidenza di Vladimir Putin, che ha posto definitivamente fine alle pur deboli iniziative portate avanti dal suo predecessore. Attualmente un simile meccanismo si può osservare anche nel caso di Venezuela, Nicaragua o Turchia.

Quando invece i legami sono bassi ma la pressione occidentale è elevata, come nel caso della maggior parte dei Paesi dell’Africa subsahariana, tendenzialmente vi è la conservazione del regime ibrido. Quest’ultimo, non riuscendo a compiere il passo finale verso la creazione di una poliarchia, accetta consapevolmente di restare in una zona intermedia. Attuali esempi di “quasi-democrazie” possono essere Albania, Kenya o Senegal, solo per citarne alcuni.

Occorre notare che questo modello offre anche spunti di riflessione sulle prospettive future di sviluppo di un sistema semi-democratico. Considerando i fattori linkage e leverage, sarebbe corretto affermare che alcuni Stati come Moldavia, Cuba o El Salvador possano tendere con maggiore facilità a forme ibride di governo. Diversamente, altri Stati come Vietnam o Corea del Nord difficilmente potrebbero cimentarsi nelle dinamiche descritte nel libro a causa dell’assenza totale delle condizioni necessarie per le fondamenta di una democrazia liberale sufficientemente sviluppata.

L’importanza della questione affrontata dagli Autori in quest’opera, assume un valore considerevole se si considera la crescente diffusione delle cosiddette dictablandas. Sono molti, infatti, i casi di involuzione democratica in Asia, America Latina e finanche in Europa, dove le varie crisi istituzionali sembrano aprire le porte ad un modello ibrido. L’Ungheria, la Serbia e la Slovacchia sono solo alcuni casi in cui è stata riscontrata questa tendenza in Europa.

Resta ora da chiedersi: la crisi delle democrazie rischia di rendere i regimi illiberali una costante in crescita nell’epoca attuale? E ancora, questi sistemi possono nascondere lo spettro dell’autoritarismo dietro l’apparente accettazione delle norme democratiche?

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