Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).
Nell’ultima “Giornata per l’eliminazione della violenza sulle donne”, che si celebra ogni anno il 25 novembre, non sono mancate le polemiche, causate soprattutto dalle divergenze nell’opinione pubblica circa le premesse culturali che favorirebbero le violenze di genere, e sulla loro maggiore o minore distribuzione in determinati gruppi sociali. Tra una diatriba sul patriarcato e l’altra, una cosa ha attirato l’attenzione di alcuni commentatori. Per rilanciare la campagna del numero anti violenza 1522, è stata utilizzata la frase: «Perché ti stai truccando? A me piaci così» con questa aggiunta: «Se te lo dice è violenza, ci sono frasi come schiaffi. Mortificano, umiliano, isolano, disorientano e minano l’autostima delle donne. Non sono solo parole è violenza psicologica. Fermiamola prima che sia tardi». Non poche persone hanno trovato un po’esagerato l’esempio utilizzato.
La campagna, comunque, prevedeva diverse frasi costruite in modo analogo: «Stai zitta, devi obbedirmi. Se te lo dice è violenza» oppure «Ma quanto hai speso? Non sai fare neanche la spesa. Se te lo dice è violenza» e così via. Lo scopo dell’iniziativa è assolutamente benemerito: la violenza psicologica contro le donne non può essere tollerata in alcun modo, anche perché, in non pochi casi, è purtroppo anticipatrice di quella fisica, come recenti tragici fatti di cronaca hanno mostrato, ancora una volta.
La scelta comunicativa della campagna, però, a mio avviso, porta con sé due rischi, uno più evidente e un altro più profondo, se posso esprimermi così senza sembrare un predicatore. Il motivo più evidente è che, come ha ben sintetizzato la giornalista Guia Soncini su Linkiesta proprio il 25 novembre, «quello che accade tra due persone che si conoscono bene ha codici linguistici che dall’esterno sono indecifrabili, come sa chiunque abbia provato a intervenire in un’apparente scena di prepotenza e sia stato respinto con sdegno dall’apparente vittima». Certo, nel dubbio meglio intervenire, siamo d’accordo, ma questa clausola zelante non toglie l’obiezione: quando prendiamo certe formule irrigidite da codici formali e le pensiamo poi incarnate in relazioni concrete, sappiamo che al di là delle parole in sé, i toni, le consuetudini, le stravaganze, possono far assumere un volto del tutto diverso, addirittura opposto, a un’espressione segnalata sulla carta come violenta.
Su questo non credo servano molte dimostrazioni. Si può controbattere sostenendo che gli esempi proposti sono, appunto, esempi-modello, e che ciascuna persona è capace di fare la tara al caso concreto. Di sicuro sarà così, non discuto. Il punto, però, è un altro. Il modello è tale perché, astraendo dai casi particolari, offre una forma capace di inglobare, tendenzialmente, tutti i casi singoli che rientrano in un certo genere di fenomeni. Per questo i modelli tanto meglio funzionano quanto più sono formalizzati, in altre parole astratti e generali. Elevare a modello dei casi specifici, invece, come in questo caso, fa emergere un problema di metodo: si scelgono delle espressioni originariamente nate in un contesto concreto e le si ripropone, dopo averle estrapolate, chiedendo loro di svolgere la funzione del modello astratto, mantenendo però intatta la forma concreta. Il problema non è la campagna in sé, che, ripeto ancora, ha finalità sacrosante e che non si possono che condividere appieno, ma ciò che questa operazione fa vedere in controluce: la volontà di eliminare le ambiguità nelle interazioni uomo-donna.
È evidente che in certi modi di rivolgersi alle donne alberga un desiderio di dominio che va assolutamente combattuto. È anche vero, però, che il tentativo di togliere le zone grigie, l’indeterminatezza, il fraintendimento, il malinteso, l’ambivalenza, che ci sono e ci saranno nei rapporti tra generi, non può far altro che ottenere un duplice effetto: da una parte aumentare la frustrazione, dall’altra accrescere a dismisura le norme all’interno del libretto d’istruzioni sulle relazioni che pretendiamo di fornire alle persone, con dentro il capitolo dedicato agli aggettivi da evitare, un altro ai gesti, un altro a come chiedere il permesso di baciare nella maniera più liberale possibile. Per tale motivo, aggiungo, la giusta battaglia contro la violenza di genere potrebbe forse evitare di stirare a dismisura il termine “violenza”, mantenendo un approccio più intensivo e meno estensivo.
E qui vengo al secondo punto cui accennavo in precedenza. Per evitare confusione tra piani diversi e fraintendimenti, bisognerebbe recuperare lo sfondo in cui si collocano i rapporti umani in generale, e quelli tra i generi in particolare. In questi ultimi, infatti, è sempre presente una certa quantità di violenza. Solo una conoscenza astratta e razionalista dell’essere umano (dunque una non conoscenza) ̶ che spesso la fa da padrone ̶ può dimenticare questa trama antropologica profonda. Con “violenza”, ora, non si fa riferimento tanto al celebre homo homini lupus, ma a qualcosa, se così posso esprimermi, di più raffinato ancora: alla dialettica del riconoscimento.
Ovviamente, il primo riferimento che viene in mente a tal proposito è Hegel. Lo so, è un nome che incute un certo timore, ma il lettore stia tranquillo: cercherò di essere rapido e indolore, domandando scusa agli hegelisti per la semplificazione. Secondo il filosofo di Stoccarda, la relazione di riconoscimento è la condizione della nostra soggettività. Senza riconoscimento e senza intersoggettività non si dà soggettività autocosciente: entrambe nascono e cadono insieme. L’autocoscienza, spiega Hegel, non è un’«immobile tautologia» (“io sono io”): proprio in quanto essa è il ritorno della coscienza in sé stessa, si manifesta come puro movimento. Ora, la prima forma di questo movimento è il suo “desiderio”, inteso come un appetito naturale che tende all’autonomia e alla libertà: l’io infatti afferma sé stesso nella misura in cui nega le cose che ha di fronte, e lo fa consumandole. Il nostro desiderio ci spinge ad appropriarci di questo e di quello, con una fame insaziabile. Il problema, però, è che di questo passo la libertà vera e propria non giunge mai: l’autocoscienza, infatti, in tale dinamica si accorge semmai della propria dipendenza, dal momento che per soddisfare sé stessa deve inseguire sempre il prossimo oggetto di cui godere. Ogni oggetto consumato dal desiderio, per così dire, mangiato, è per ciò stesso annullato: l’autocoscienza, dunque, spinta dal proprio desiderio, passa al successivo consumo. Un io autocosciente, allora, ha un’unica possibilità per appagare il proprio desiderio di indipendenza senza che l’oggetto sia negato, dunque senza cadere nel circolo indefinito degli appetiti continui: essere “riconosciuto” da un’altra autocoscienza. Superata la brama per le cose inerti della natura, allora, il desiderio si fa desiderio del desiderio dell’altro, desiderio di essere desiderato. Qui si situa il punto di partenza dell’essenziale dinamica del riconoscimento, grammatica delle relazioni umane secondo Kojève, grande interprete hegeliano.
Per essere libero ̶ paradossale a dirsi ̶ io dipendo da un altro: senza il suo riconoscimento non potrei pervenire ad una reale autonomia. Problema risolto? Neanche per sogno, anzi, i problemi adesso cominciano. Il riconoscimento dell’altro, infatti, non lo posso estorcere né l’altro me lo concede a cuor leggero; quando l’altro mi riconosce come autocoscienza autonoma, infatti, vede la sua stessa autonomia limitata dalla libertà che mi riconosce. Se potessimo scegliere la via più comoda, probabilmente preferiremmo essere riconosciuti senza dover riconoscere a nostra volta, vale a dire essere ricevuti dall’altro senza ospitare a nostra volta, coi piaceri e i costi conseguenti.
In altri termini, il riconoscimento tra le autocoscienze è una lotta, una lotta per la vita e per la morte, scrive esplicitamente Hegel, dal momento che il riconoscimento è essenziale all’autocoscienza per essere sé stessa e che per tale riconoscimento l’autocoscienza deve sbilanciarsi, uscire fuori di sé. Fare spazio all’altro non è qualcosa di pacifico, per questo l’amore è si dichiarato come una guerra e l’amato o l’amata “si conquista” come una città. Sarei cauto a derubricare queste metafore belliche a retaggi di cultura patriarcale: forse hanno qualcosa di più importante da consigliare.
Sulla base di quanto detto, allora, la lotta per la vita e per la morte, in cui consiste il gioco drammatico del reciproco riconoscimento, non ha nulla a che fare con la lotta per la sopravvivenza degli altri animali, suggerisce Hegel: lì si afferma la propria libertà uccidendo l’avversario; nel mondo dello spirito, cioè nel mondo umano, la libertà viene dall’altro nella misura in cui mi riconosce. In forza di ciò, dunque, dovrebbe essere chiaro che qui non si sta affatto affermando che la violenza di genere non sarebbe altro, in fondo, che l’escrescenza “naturale” del sottosuolo problematico delle relazioni uomo-donna, che possiamo solamente comprimere al meglio sperando erutti il meno possibile. Al contrario, proprio la consapevolezza delle dinamiche del riconoscimento può aiutarci anzitutto a ribadire che ogni violenza ha la propria radice nel mancato riconoscimento della soggettività dell’altro, la qual cosa è, insieme, offesa alla propria stessa soggettività, privata dell’essenziale, vale a dire del libero riconoscimento altrui.
In aggiunta, però, potremmo anche imparare a non stirare il termine “violenza” fino a includervi troppo cose: l’amore e i sentimenti portano in sé un’inemendabile carica conflittuale che inerisce alla loro stessa natura e che non può né deve essere sterilizzata dalle fiamme purificatrici. Forse qui si danno alcuni criteri minimi per impostare nel modo più giusto i necessari tentativi di progresso morale e civile, partendo dal contesto reale e non da soggettività pensate in astratto, educabili con formule binarie e razionalistiche (questa è violenza/questa no, questa frase sì/questa frase no). Qualunque cosa voglia dire educazione sentimentale, credo cominci dalla capacità di gestire le ambivalenze della realtà: ne ricaveremmo meno frustrazione artificiale e più lucidità per combattere la violenza quando si presenta.