Redattore

Niccolò Mochi–Poltri (1991): è impegnato da molti anni in attività di promozione culturale con le associazioni “Sur Les Murs” e Fondo Marco Mungai, delle quali è membro. Laureato in Scienze storiche, studioso appassionato di Filosofia, concentra i suoi interessi di ricerca sull’analisi della cultura politica dell’età moderna e contemporanea. Ha pubblicato Società. Divenire storico e conservazione (introduzione di F. Cardini, Roma–Cesena 2018).

Io credo che tutto ciò che vediamo ci conduca al bene
attraverso strade sconosciute.

J. de Maistre, Lettera al barone Des Étoles (2 maggio 1794)

Lo scorso 26 febbraio ricorreva il bicentenario della morte del conte Joseph-Marie de Maistre (Chambéry, 1° aprile 1753 – Torino, 26 febbraio 1821). Il personaggio è senz’altro affascinante: allievo dei gesuiti, che difese e sostenne soprattutto dopo lo scioglimento dell’ordine[1], fu anche massone di alto grado, appartenente alla corrente speculativa “martinista”[2]; suddito fedele del Re di Sardegna e patriota orgoglioso, fu costretto dagli sviluppi della Rivoluzione in Francia a vivere come esule per più di vent’anni (1792 – 1817), trascorrendone la maggior parte presso la remota corte dello Zar[3]; conoscitore profondo ed interprete acuto della filosofia illuminista del proprio tempo, ne fu irriducibile avversario[4], elaborando attraverso numerose opere un sistema filosofico inteso non solo a confutarla, ma soprattutto a proporsi come radicale alternativa a quella. A un personaggio del genere di tutti i torti se ne potrebbe fare uno particolarmente doloroso: dimenticarlo. Ma il primo passo in questa direzione consiste nel semplificare, banalizzandolo e svilendolo, il suo pensiero. In questo senso i primi responsabili dell’oblio del conte de Maistre sono coloro che riducono il pensatore raffinato e complesso alla figurina posticcia di “teorico della Controrivoluzione”, “principe dei reazionari”, et similia. Non che non lo sia stato – ma lo è divenuto come conseguenza di una riflessione filosofica che prese sì le mosse dall’evento storico della Rivoluzione in Francia (1789), ma che non si esaurisce ad esso.

 Ecco, appunto, la Rivoluzione. Il significato che questo evento epocale assume nella storia dell’umanità è comprensibile per de Maistre solo alla luce di un criterio ermeneutico complessivo, meta-storico. Ma fuori dalla storia c’è solo il Creatore della storia, Dio. Non un dio qualunque, un’entità astratta ridotta a orpello per congetture, bensì proprio il Dio del Cristianesimo, “cattolico” (καϑολικός, “universale”) per essenza. E Dio non è solo un remoto artefice che crea il meccanismo e lo avvia, per poi ritirarsi – come sostenevano i deisti; al contrario, Egli è presente, effettivamente, fattualmente – e la Sua presenza nella storia si chiama «Provvidenza». È la Provvidenza che rende la storia sensata. Ma quale senso? Quello che le ha attribuito il suo Creatore. E chi può cogliere, comprendere perfino, questo senso? La Creatura per eccellenza, quella fatta «a immagine e somiglianza di Dio» (Gn I, 26-27): l’Uomo. Dunque l’Uomo intuisce che la storia ha un senso, e può comprendere questo senso; ma entrambe le possibilità sono imprescindibilmente legate a Dio. Ora, se per «storia» intendiamo l’insieme dei fatti umani, allora questi fatti acquistano un senso solo se l’Uomo li ricollega a Dio – il che significa, mutatis mutandis, che l’Uomo stesso deve conservare la consapevolezza di questo legame con Dio.

 Tale “legame” è del genere Creatore/creatura – così come lo mostrano le Sacre Scritture e lo spiega il magistero della Chiesa. Si tratta di un rapporto sbilanciato, in quanto di fronte all’Infinito tutto il resto non può che essere finito, limitato. Perciò l’Uomo è una creatura limitata. Ma questo rapporto, pur sbilanciato, è perfettamente proporzionato – così che la condizione ontologica “limitata” dell’Uomo, lungi dall’essere una mortificazione, è bensì giusta perché è proprio così, perché questa è la verità della condizione umana. Ora, se la caratteristica distintiva dell’Uomo è la capacità razionale[5], tanto che l’Uomo potrebbe identificarsi analogicamente con essa – ne consegue che la stessa capacità razionale deve essere “limitata”, secondo l’accezione che ho dianzi spiegato. Così emerge un elemento fondamentale del pensiero del conte de Maistre: quello di essere «un pensiero […] costantemente teso alla ricerca di quel “limite” della ragione per cui essa, senza cessare d’essere il contrassegno della grandezza e della libertà dell’Uomo, e anzi proprio perché è tale contrassegno e perché definisce e caratterizza la natura umana a immagine e somiglianza di Dio, deve necessariamente anche sapere dove arrestarsi […] è quindi perfettamente comprensibile e conseguente che quel pensiero, e in generale ogni pensiero, che ha voluto togliere quel limite abbia posto come parte integrante e scopo primario del suo procedere il rifiuto, più o meno velato ma sempre accanitamente perseguito, del concetto di creaturalità e quindi dell’idea stessa di Dio»[6].

 Secondo il conte de Maistre, un pensiero che emargina Dio, o che Lo rimuove, è in definitiva un pensiero semplicemente folle: l’Uomo non può ontologicamente prescindere da Dio, il suo pensiero non può farlo – così che ogni tentativo del genere è una forma di autoinganno, essenzialmente dovuta all’orgoglio superbo dell’Uomo. In questo senso, un pensiero del genere può essere assimilato a quello che indusse l’angelo chiamato Lucifero a ribellarsi a Dio: colui che era “portatore di luce” divenne «Diavolo», “colui che divide”[7]. E il Diavolo ci mette sempre lo zampino quando l’Uomo in parole ed opere prova a infrangere la «dolce catena» – come la chiama lo stesso conte – che ci lega a Dio. La presenza del Diavolo si manifesta nella deformità; e quale aspetto mostruoso ha assunto la Rivoluzione in Francia! – quella Rivoluzione demoniaca che è stata preparata dal pensiero “teofobico” dei philosophes[8]. Il Diavolo avrebbe dunque vinto? … E come potrebbe mai? Il Diavolo, cioè il Male, non ha sussistenza autonoma – il conte de Maistre dimostra di conoscere il principio metafisico per cui solo il Bene è seipsum subsistens, mentre il Male esiste solo in quanto «privazione relativa del Bene». Le vittorie del Male in questo mondo non possono allora che essere momentanee, perché il Bene alla fine trionferà comunque. Meglio ancora: non di “vittorie” del Male si dovrebbe parlare, bensì di sconfitte di coloro che al Bene dovrebbero rivolgersi, perché al Bene sono ontologicamente legati – cioè gli uomini. E se il Bene, coerentemente a quel principio metafisico, è l’Essere stesso – allora essi devono perciò abbandonare quel «pensiero negatore che approda inevitabilmente a nulla»[9], al nihilismo – che non è propriamente una possibilità, ma un “errore di valutazione”.

 Date queste premesse, è possibile interpretare correttamente la metafisica della storia proposta dal conte de Maistre. «Poiché l’uomo agisce, egli crede di agire soltanto, e poiché ha coscienza della sua libertà, dimentica la sua dipendenza […]. L’uomo è senza ombra dubbio intelligente, libero, sublime, tuttavia non è che uno “strumento di Dio” […]»[10]. L’uomo “agisce”, cioè fa la storia; ma la sua azione, che deriva dalla sua natura umana così costituita da Dio, pur essendo di fatto libera, è sostanzialmente, ontologicamente, dipendente sempre e comunque da Dio – anche quando si ribella a Dio, perché è una ribellione solo formale, non può essere sostanziale. Dio è presente nella storia, e la Sua presenza è la Provvidenza; e in quanto Creatore, è più presente nella storia di quanto lo siano le creature, in quanto questo sono dipendenti nel loro stesso essere da Lui. Ergo: la libertà dell’Uomo che fa la storia è dipendente dalla Provvidenza, che orienta necessariamente tutto verso il Bene perché è il Bene – così che la storia dell’Umanità, nonostante le sue convulsioni, nonostante le sue perversioni, le sue sciagure, i suoi lutti, nonostante insomma tutto il male in essa presente, si risolverà infine nel trionfo del Bene.

 D’altronde, quest’annuncio di salvezza è già stato dato dal Figlio di Dio e che è Dio, Gesù Cristo, venuto a riscattarci attraverso il sacrificio della Croce dalla nostra colpa originaria che ha determinato proprio l’ingresso del Male nel mondo. In fondo allora, la grandezza del conte Joseph de Maistre consiste nell’esser stato un profeta del già rivelato, poiché eternamente vero. È a questa fonte di Verità che ancora oggi possiamo attingere noi contemporanei, incoraggiati da un pensatore come il conte de Maistre, che sul crinale doloroso della Rivoluzione riuscì a scongiurare la disperazione volgendo gli occhi al Cielo.

Note:

[1] Dapprima cacciata dai territori di Portogallo, Spagna, Francia, Napoli e dalle colonie del Sud e Centro America, nel 1773 la Compagnia di Gesù finisce per essere soppressa. Le corti borboniche esercitano una pressione talmente violenta su Clemente XIV da costringerlo, “per la pace della Chiesa”, a firmare il 21 luglio 1773 il decreto di soppressione della Compagnia di Gesù “Dominus ac Redemptor”. Per la prassi del tempo, il documento pontificio deve essere accettato dai sovrani di Stato: è così che la Compagnia sopravvive in Prussia e in Russia. Tra le motivazioni esplicite, e non che motivano la soppressione, stanno l’opposizione all’Illuminismo e al Giansenismo, la difesa di teorie in campo morale ritenute troppo lassiste; e, infine, l’antipatia suscitata dalla Compagnia nelle corti europee, che malvolentieri sopportano l’azione dei gesuiti a favore delle popolazioni autoctone, contro lo sfruttamento da parte di colonizzatori avidi, crudeli e senza scrupoli morali.

[2] Vale la pena soffermarsi sull’esperienza massonica del conte de Maistre. Bisogna intanto dire che il “martinismo” è in senso proprio una via iniziatica fondata da Papus (Gérard Encausse) nel 1881. Ma i suoi prodromi risalgano alla seconda metà del XVIII secolo, quando circolava in Europa una corrente esoterica che aveva fra i suoi maestri Jacob Böhme (Alt Seidenberg, 1575 – Görlitz, 1624), Emanuel Swedenborg (Stoccolma, 1688 – Londra, 1772) e Martinez de Pasqually (Grenoble, 1727 – Santo Domingo, 1774), e di cui fece parte Claude de Saint-Martin, il “filosofo ignoto” (Amboise, 1743 – Aulnay-sous-Bois, 1803), al quale si ispirarono successivamente circoli e istituzioni esoteriche – tra le quali anche quella propriamente “martinista”. Coloro che si ispiravano a questa tradizione vennero chiamati “gli illuminati” ed erano soliti riunirsi in alcune logge massoniche. Il giovane conte de Maistre ne incontrò alcuni esponenti nella loggia della “Perfaite Sincérité”, fondata nel 1778 a Chambéry. Nonostante il giudizio severo della Chiesa di Roma sulla Massoneria in generale, de Maistre riteneva invece che questa massoneria speculativa “martinista” potesse beneficiare proprio la stessa Chiesa, riconducendo nel suo seno le diverse confessioni cristiane. «Della sua esperienza massonica vi è un suo scritto del 18 giugno 1782, Mémoire au duc de Brunswick: si tratta di una risposta a un questionario che doveva servire al convegno di Wilhensbad, dove si scontrarono massoni razionalisti e massoni esoteristi, che risultarono vincitori. […] Nella Mémoire de Maistre […] [sostiene che] l’iniziazione massonica è essenzialmente cristiana e che la sua vera origine dev’essere cercata nel cristianesimo dei primi secoli. Inoltre, che il fine della massoneria dovrebbe essere triplice, secondo i gradi d’iniziazione: nel primo sarebbe la beneficenza e la filantropia, lo studio della morale e della politica; nl secondo la riunione delle Chiese cristiane e un influsso discreto sui governi; nel terzo il cristianesimo trascendente, ovvero le sublimi conoscenze. Il cristianesimo trascendente sarebbe racchiuso nei due Testamenti il cui senso nascosto devono ricercare i massoni. […] Era, la sua, una visione della Massoneria molto particolare e non certo condivisa da molti», (A. Cattabiani, Vita e opere di Joseph de Maistre, in Breviario della Tradizione, Il Cerchio, Rimini 2000).

[3] Dal 1802 al 1817, a San Pietroburgo, in qualità di ministro plenipotenziario del Re di Sardegna.

[4] Suo avversario d’elezione fu in particolare J.J. Rousseau, ma nelle sue opere si trovano pressappoco tutti i nomi dei philosophes enciclopedisti – tra i quali spicca il nome di François-Marie Arouet, alias Voltaire (Parigi, 1694 – Parigi, 1778), stigmatizzato alla stregua di «Maestro / di coloro che mostran di sapere», come rima Giuseppe Parini ne Il Giorno.

[5] È quasi superfluo dire che su questa considerazione dell’Uomo converge praticamente tutta la tradizione filosofica occidentale, da Platone in avanti, passando naturalmente attraverso la tradizione filosofica cristiana, eminentemente s. Tommaso d’Aquino.

[6] M. Ravera, Joseph de Maistre pensatore dell’origine, Mursia, Milano 1986, p. 7.

[7] Da «Διάβολος», derivato del verbo greco «διαβάλλω», che si traduce letteralmente come “gettare attraverso”, “gettare lontano”; o, in senso metaforico, “calunniare”.

[8] «Tutta questa filosofia non fu di fatto che un vero sistema di ateismo pratico; io ho dato un nome a questa malattia strana: la chiamo teofobia; guardate bene, la vedrete in tutti i libri di filosofia del secolo XVIII. Non si diceva francamente: Dio non c’è, asserzione che avrebbe potuto portare con sé qualche inconveniente di ordine pratico, ma si diceva: Dio non è qui. Non è nelle vostre idee: esse vengono dal senso; non è nei vostri pensieri, che non sono se, non sensazioni trasformate; non è nei mali che vi affliggono: sono fenomeni fisici, come gli altri che si spiegano con leggi comuni. Egli non pensa a voi; non ha fatto nulla per voi in particolare; il mondo è fatto per l’insetto come per voi; Egli non si vendica contro di voi, poiché siete troppo piccoli, etc. In definitiva, non si poteva nominare Dio a questa filosofia senza farla entrare in convulsioni». J. de Maistre, Le serate di San Pietroburgo, cit. in M. Ravera, op. cit., p. 37.

[9] M. Ravera, op. cit., p. 9

[10] J. de Maistre, Saggio su il principio generatore delle costituzioni politiche, in Scritti politici, Edizioni Cantagalli, Siena 2000, § X.

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