Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a
S.F. Drokalos, Alessandro Magno e pensiero strategico moderno
Edizioni Saecula, Zermeghedo (VI) 2020, pp. 412, €25.00.
In storiografia la comparazione tra personaggi e epoche possiede un fascino di antica data. Già gli storici di età classica si sbizzarrivano con ardite proposte di confronti e uno scrittore – Plutarco, al quale si addice l’etichetta di biografo più che quella di storico – volle fare della comparazione l’architrave dei suoi Bioi Paralleloi. Oggi gli storiografi non si avventurano volentieri in paragoni tra secoli e contesti lontani ritenendo, a ragione, che il rischio di cadere in banalità generiche o forzature interpretative sia elevatissimo. Meglio concentrarsi nello studio approfondito di un dato contesto cronologicamente ben definito, piuttosto che lanciarsi in voli di comparazioni magari fascinose e suggestive ma scientificamente (a tacer d’altro) problematiche. Tuttavia in alcuni casi pare che sia ancora possibile ricorrere al genus comparativo se si possiede l’accortezza e la prudenza di delimitare con la massima cura il tema oggetto di analisi.
A tale riguardo il recente volume dello studioso italo-greco Sotirios Fotios Drokalos, intitolato Alessandro magno e pensiero strategico moderno, nel complesso regge bene l’ardua e rischiosissima prova della comparazione tra le imprese militari del Macedone, la campagna di Russia della Grande Armée napoleonica (1812) e l’Operazione Barbarossa della Wehrmacht (1941). Ma è necessario precisare. Una buona porzione del saggio è dedicata alla storia evenemenziale delle imprese del re macedone, pagine eleganti e scorrevoli nella forma, fedeli e accurate nell’impiego delle fonti (Curzio Rufo, Plutarco, Diodoro Siculo, soprattutto Arriano), puntuali nei rimandi (a volte intelligentemente critici) alla letteratura storiografica moderna su Alessandro, ma nel complesso prive di originalità. La narrazione storica, se non presenta in sé apporti nuovi (a parte la citazione, tra le fonti, di un calendario astronomico babilonese recentemente portato alla luce, ma solitamente ignorato e invece valorizzato da Drokalos), si offre però avvincente e serrata: una buona occasione per il lettore non specialista di rinfrescare la memoria sulle epiche imprese del condottiero macedone. Anche la narrazione della campagna russa di Napoleone presenta i medesimi limiti (nessuna nuova acquisizione storiografica rispetto al già noto) e pregi (chiara, scorrevole, concentrata sull’essenziale).
Il capitolo IV dedicato all’Operazione Barbarossa, come scrive l’Autore stesso, «segue fedelmente la versione ufficiale della Storia, accettata e condivisa tanto dalla storiografia occidentale quanto da quella russa» (p. 280), secondo cui l’Urss non si aspettava l’attacco tedesco. Ma Drokalos ha cura di rammentare anche la versione revisionista messa a punto con abbondanza documentaria da Viktor Suvorov e tuttora in auge in certi settori della storiografia. Secondo tale versione l’Urss nel 1941 era in procinto di aggredire il Terzo Reich, ma la Germania avrebbe prevenuto l’invasione già decisa da Stalin e pianificata dai suoi generali. La teoria di Suvorov, pur non accolta da Drokalos, «fa in ogni caso parte di un interessante dibattito storico sulle condizioni e le evoluzioni reali di quel periodo» (p. 281). A Drokalos il merito di non averla sottaciuta.
E veniamo dunque al punto di maggior interesse dell’opera, già sintetizzato nel sottotitolo: pensiero strategico moderno. Qui, sulla strategia militare seguita da Napoleone e Hitler in Russia, il confronto con Alessandro Magno invasore e distruttore dell’Impero persiano possiede qualcosa che va al di là della mera suggestione e risulta anzi illuminante. La Grande Armée e la Wehrmacht, prima dell’avventura russa, avevano applicato con grande precisione ed efficacia i principi strategici fondamentali di von Clausewitz: colpire il nemico nel suo centro di gravità, colpirlo con una battaglia risolutiva, infliggergli un devastante colpo concentrando tutte le forze e energie su quel punto decisivo. Napoleone è unanimemente riconosciuto il sommo artista della strategia del colpo decisivo inferto con la massima determinazione e infatti Clausewitz, il grande teorico, scrisse il Della Guerra (dove la teoria del colpo decisivo al centro di gravità nemico trova, come si sa, la più completa e classica formulazione) dopo le imprese belliche napoleoniche e traendo ispirazione e insegnamento proprio dalle grandi battaglie dell’Empereur. Nel caso della Wehrmacht, la più perfetta e micidiale macchina bellica che la storia ricordi, le tesi clausewitziane del colpo decisivo e fulmineo inferto con la maggior violenza possibile al centro di gravità nemico vennero esplicitamente adottate e al tempo stesso adattate nel nuovissimo contesto della blitzkrieg dei corpi corazzati. I nomi di Guderian, Rommel, von Manstein, Hoth restano scolpiti negli annali della storia militare. Eppure la strategia clausewitziana, imbattibile in altri scenari di guerra, in Russia fallì miseramente sia nel 1812 che nel 1941.
Come precisa Drokalos, la concentrazione degli sforzi e dell’attenzione sull’annientamento del nemico in uno scontro risolutivo «non è valido nel caso di una grande capacità di rigenerazione delle forze da parte del nemico o di un grande territorio nel quale esso possa muoversi e ritirarsi» (p. 353). Non tutti gli esperti di scienza militare tra le due guerre condividevano l’assunto clausewitziano. Per esempio il britannico Basil Henry Liddel Hart (che più tardi sarebbe diventato uno dei consiglieri militari di Churchill) preferiva l’”approccio strategico indiretto”: lo scontro decisivo è preferibile solo se si possiede una netta superiorità di forze; altrimenti sono da prediligere strategie gradualiste di consolidamento e di sfiancamento. Adottando questa strategia Quinto Fabio Massimo aveva finito col prevalere su Annibale. E proprio questa, in scala gigantesca, fu la strategia difensiva dello zar Alessandro contro i francesi mentre Stalin, almeno agli inizi, accettò invece lo scontro diretto con i tedeschi facendo così subire all’Armata Rossa perdite umane e materiali immense. E dunque, come si inserisce Alessandro Magno in questa analisi?
Nelle sue imprese persiane il re macedone adottò una tattica nettamente clausewitziana, ma una strategia di tutt’altro genere. Egli fu un “clausewitziano” ante litteram nelle grandi battaglie del Granico, di Isso e di Gaugamela (ricostruite da Drokalos, soprattutto quest’ultima, con vivezza di particolari militari): inferse con la falange e la cavalleria il colpo risolutivo al centro di gravità dell’esercito nemico e costrinse alla fuga precipitosa i satrapi e lo stesso Gran Re Dario III. Ma Alessandro, dopo un iniziale inseguimento del nemico in rotta, desistette dal proseguire la caccia all’avversario e ritenne che fosse di maggiore importanza il consolidamento delle posizioni raggiunte. Dopo la vittoria conseguita a Isso egli si volse verso le satrapie dell’Asia minore, della Fenicia, dell’Egitto. Comprese che prima di proseguire la sua marcia nell’Asia profonda doveva eliminare i residui persiani nell’area mediterranea. Tutto questo perché «Alessandro individuò come centro di gravità della potenza dell’impero persiano la sua estensione e particolarmente il suo accesso al mare mediterraneo e solo secondariamente le sue forze armate» (p. 369). Né i napoleonici né gli hitleriani si preoccuparono di consolidare le conquiste in Russia perché sospinti sempre più in avanti dall’ansia di infliggere il colpo risolutivo a un nemico che invece disponeva di risorse inesauribili e di spazi immensi. Cediamo a un esercizio di fantasia: se Alessandro dopo Isso si fosse rivelato un Napoleone, avesse cioè implacabilmente inseguito il nemico nelle profondità dell’Oriente senza preoccuparsi né della logistica né di coprirsi le spalle, «si sarebbe trovato intrappolato in una guerra di sfinimento e avrebbe visto le sue forze diminuire progressivamente senza l’opportunità di rinforzi» (p. 378). Il Macedone sarebbe cioè andato incontro allo stesso tragico destino della Grande Armée (e della Wehrmacht). Alessandro non conosceva ovviamente il futuro, ma Napoleone e Hitler potevano o avrebbero dovuto tenere ben presente la lezione strategica del re macedone prima di addentrarsi nell’immenso oriente. Se l’avessero seguita, forse avrebbero prevalso sull’avversario russo. E se è vero, come scrive Drokalos a conclusione del saggio, che l’impresa di Alessandro «sempre rimarrà e tornerà nel corso del tempo […] come l’idea irresistibile, allo stesso tempo platonica e nietzscheana, della gioventù, della bellezza e dell’intelligenza che si lanciano alla conquista del mondo» (p. 382), è altrettanto vero che nel 1812 e nel 1941, in snodi di suprema tragica grandezza, la storia del Macedone non fu magistra vitae. Provvidenzialmente.