Stefano Berni (1960) è docente di Filosofia e scienze umane nei licei. È stato professore a contratto presso la cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, assegnista e dottore di ricerca. È tra i fondatori e nel comitato scientifico della rivista “Officine filosofiche” dell’Università di Bologna e Presidente della Società Filosofica Italiana di Prato. Le sue ultime pubblicazioni sono: Potere e capitalismo. Filosofie critiche del politico (Pisa 2018); Etiche del sé. Foucault e i Greci(Firenze 2021); L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt (con Antonio Camerano; Milano 2022).

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A. Cavarero, Democrazia sorgiva. Note sul pensiero politico di Hannah Arendt
Raffello Cortina Editore, Milano 2019, pp. 147, 12,00.

Rispetto a tanti autori che si sono occupati di Hannah Arendt, nel suo ultimo libro Adriana Cavarero ha il dono di restituirci il pensiero della filosofa tedesca in modo creativo. Infatti l’ultimo suo lavoro non è l’ennesima e semplice esegesi delle idee politiche di Arendt, ma propone un taglio decisamente originale. È come se Cavarero avesse assimilato e interiorizzato il metodo della studiosa di Hannover e lo utilizzasse, da arendtiana, proprio in un “corpo a corpo” con la sua filosofa di riferimento. Innanzitutto, quale significato attribuire alla parola democrazia? Ormai, nota Cavarero, alla parola democrazia si deve sempre aggiungere un aggettivo che la qualifichi, come se esistessero diverse forme di democrazia: si parla così di democrazia selvaggia (Lefort), democrazia anarchica (Rancière), democrazia radicale (Butler) e così via. Nel linguaggio ordinario poi si è costretti spesso a parlare di democrazia rappresentativa, liberale, parlamentare, popolare, elettorale.

Si cade in una situazione paradossale: gli autori succitati, che utilizzano il pensiero di Arendt, ricorrono a queste aggettivazioni quando lei stessa non hai quasi mai usato il termine di “democrazia”. Anzi, a ben vedere, ci ricorda Cavarero, Arendt non amava questo termine perché, almeno in Grecia, dove nasce, era utilizzato negativamente per indicare una forma di governo degenerata e in mano al popolo (demos). Poi con Platone ha inizio l’idea di politica intesa non più come partecipazione ma come fabbricazione, come se lo Stato fosse un organismo o un artefatto tecnico dove i cittadini assumono la mera funzione di «rotella». Pertanto, l’idea di democrazia arendtiana è, per Cavarero, «più un modello immaginario» che un fatto reale, dato che, almeno in Occidente, si è scelta la via platonica. Tuttavia, Arendt avrebbe visto almeno nella Rivoluzione americana il riaffiorare di una democrazia partecipativa in cui prendeva forma il principio E pluribus unum. Tale esperienza si sarebbe ripetuta in altre forme rivoluzionarie, come per esempio nella Comune di Parigi, nei soviet, nella disobbedienza civile americana degli anni Sessanta. Insomma, saremmo di fronte ad una sorta di «democrazia insorgente», termine utilizzato da Abensour proprio per sottolineare l’aspetto ‘rivoluzionario’ o ‘rivoltoso’ del pensiero arendtiano che non trova però del tutto concorde Cavarero, la quale individua l’aspetto problematico del pensiero arendtiano nell’oscillazione tra l’idea di liberazione e l’idea di libertà, tra l’idea cioè di rivoltarsi in modo violento contro l’Autorità e l’idea di partecipazione non violenta al potere.

È noto infatti che per Arendt potere e libertà non sono due concetti opposti. Potere significa letteralmente poter agire, è lo spazio libero nel quale può muoversi l’individuo. Pertanto, Cavarero, contro le interpretazioni marxiste del pensiero arendtiano, le quali vorrebbero utilizzare il suo pensiero entro una cornice conflittualistica, si scosta da queste letture per ribadire una concezione non violenta della politica, plurale, libera, democratica, che Cavarero definisce appunto «sorgiva». In questo modo si sottolinea l’aspetto affermativo e non negativo del pensiero di Arendt, contro il termine, coniato da Abensour, di insorgenza che ha a che fare piuttosto con qualcosa che appunto insorge, si ribella, si solleva contro. Invece il termine sorgivo si collega metaforicamente alla sorgente di un fiume, dunque qualcosa che nasce, sgorga. D’altronde, le critiche che Arendt non risparmia a Marx (ma anche al capitalismo) si muovono proprio contro l’idea di una politica sorta per risolvere l’economico, ossia in senso lato i soli problemi naturali, biologici e necessari, ‒ per esempio la povertà, la fame e la salute, ‒ come se la politica non fosse altro che un mezzo anziché il fine più alto dell’uomo.

Infatti, imponendosi spesso con la violenza, anche queste ideologie hanno capovolto i fini nei mezzi. Giustificando il mezzo par excellence, cioèl a violenza, si finisce per rovesciare il mezzo nel fine: il fine diventa la violenza stessa, e la rivolta si trasforma in una forma di rivoluzione permanente. Sia tra i realisti sia tra gli utopisti la violenza diventa così l’unico mezzo che permetta loro di avere ragione. Invece nell’isonomia greca la politica non si svolgeva più attraverso la guerra, ma attraverso il dialogo e il confronto aperto tra opinioni. La politica era il fine in sé della democrazia.

Proprio perché Arendt cerca la via del dialogo, Cavarero vede nella sua filosofia un antidoto al populismo imperante di oggi. Per Arendt non c’è un popolo, ma una pluralità di individui. L’idea di pluralità rimanda all’unicità, alla singolarità, alla persona umana. Ma rimanda anche ad un altro lemma caro ad Arendt: alla nascita. Cavarero, come in altri suoi scritti, insiste sulla relazione di prossimità tra corpi viventi che si riconoscono nella «loro contiguità corporea», nel loro essere «faccia a faccia», nella loro «apparenza». La filosofa italiana si sforza di condurre il pensiero arendtiano su una base concreta, visibile, materiale. In ciò si mostra in linea con Arendt, la quale ha sempre voluto sorvolare sulle passioni, considerandole come un lato esclusivo del privato e poco dirimenti sul piano pubblico. In questo senso Arendt appare una filosofa classica che non nega certo le passioni ma le delega alla sfera intima e personale che per lei, anche autobiograficamente, non devono condizionare la scelta razionale.

Comprendiamo che questo rifiuto di delineare un’idea di natura umana, dopo aver parlato di nascita, costituisca quella che Roberto Esposito ha definito «un’antinomia». Lo stesso problema si ripropone con il lemma libertà. Perché se è vero che la libertà, per Arendt, va distinta dall’idea di liberazione e si forma dall’esperienza stessa, «se né libertà né uguaglianza erano considerate qualità insite nella natura umana» ma si sviluppano attraverso l’agire degli uomini, allora Arendt non può concepire un’idea di libertà a priori, à la Kant, come alcune sue pagine invece farebbero pensare. L’emersione della libertà diventa semmai un evento storico, imprevedibile, possibile ma non necessario, un «miracolo-evento» lo chiama Abensour, che si realizza solo sulla base di determinate e sporadiche condizioni. Così accade con l’idea di uguaglianza: «L’uguaglianza, così come la libertà, non sono principi – magari intesi come diritti naturali e a tutti evidenti che precedono la politica… Sono piuttosto modi dell’interagire inerenti all’esperienza politica stessa».

Sembrerebbe di stare dentro una petizione di principio: si dimostra che l’uomo è un animale politico nel momento in cui agisce politicamente. Tuttavia, questa contraddizione logica si risolve facilmente se ci spostiamo nel campo fenomenologico ed esistenziale affrontando il concetto di evento. L’evento per Arendt è collegato alla decisione e all’azione: l’uomo è un animale politico se decide di abbandonare la sfera privata per occuparsi della vita pubblica. Cavarero è convinta, però, che questa scelta avvenga presupponendo la mera presenza fisica degli uomini, lo stare-fra (in-between). Di qui discende la sua critica al populismo digitale. Gli individui atomizzati agirebbero nello spazio politico virtuale mettendosi in relazione con altri soggetti isolati e «nascosti nell’oscurità della sfera privata», incapaci di costituire e costruire una vera democrazia diretta. Però, non si dovrebbe confondere una piattaforma costruita appositamente come se fosse un’agorà, dove si può discutere e confrontarsi, da una rete costruita solo in funzione del divertimento e dall’evasione nella quale si possono sfogare le passioni più basse. Se si costituissero piattaforme digitali allo scopo di discutere, sarebbe forse possibile esercitare una certa forma di democrazia. In quest’ultimo caso non sarebbe tanto la presenza fisica a mancare, quanto proprio il fatto che non permetterebbe la liberazione di certe passioni positive. Per esempio, non riuscendo a fare massa (in senso canettiano), gli individui sulla rete non sarebbero in grado di esercitare una forza o una pressione politica sulle autorità o sui governi.

Non dobbiamo vedere l’agorà, anche in Grecia, come un luogo semplicemente fisico. Nella stessa piazza si può decidere di fare politica, ma anche di tenere un mercato o di organizzare una festa, oppure di spacciare droga o di uccidere qualcuno o di tagliare la testa a un re. Tuttavia, dove deve avvenire questa partecipazione? Cavarero nega la possibilità che ciò possa avvenire sulla rete; ma nega anche l’importanza della territorialità dello Stato moderno. La risposta è allora: «ovunque le persone si raccolgano insieme». Insieme alla deterritorializzazione Cavarero sottolinea anche l’aspetto non identitario dell’individuo arendtiano. Ma allora chi può partecipare alla vita pubblica? Risposta: chiunque. Insieme alla deterritorializzazione, vi sarebbe anche una deculturazione? È sufficiente l’incontro con l’Altro?

Ora ci sarebbe da chiedersi, arendtianamente, se: a) questo soggetto, disincarnato o denaturalizzato o quanto meno spogliato dai suoi abiti culturali, esista; b) che fine fa la pluralità se riconduciamo tutto all’universalità dell’alterità; c) se sia sufficiente la sola prima nascita per dirsi donne e uomini o non sia ancora più decisiva la seconda nascita, quella linguistica, socio-culturale; d) se basti solo lo spazio fisico della presenza e dell’apparenza per dire di esserci.

Si potrebbe discutere se Arendt avrebbe accettato di interpretare le sue posizioni in modo così cosmopolita. Ricordiamo brevemente en passant l’importanza che lei stessa ha riconosciuto al ruolo della formazione degli Stati nazionali per la costituzione dei diritti umani; all’interesse del contesto storico e sociale nella formazione del pensiero occidentale; alla rilevanza dell’idea di Welt, concetto ripreso dal suo maestro Martin Heidegger ed inteso non come totus mundus ma come ambiente sociale in cui si è gettati; all’importanza del territorio e dei confini che, «oltre al limitare, proteggono. Non soltanto separano ma creano vincoli tra gli uomini». Disancorare il pensiero arendtiano dal suo acuto senso della terra e dunque disincarnarlo sono operazioni intellettuali che finiscono per depotenziarlo, proprio mentre conviene ancora meditarne l’intera riflessione filosofica e politica.

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