Dottore di ricerca in Diritto presso l’Università di Londra (Birkbeck College), in Teologia presso l’Università di Ginevra e in Studi umanistici presso l’Università di Trento, Massimiliano Traversino Di Cristo  è stato recentemente enseignant-chercheur contractuelpresso l’Università di Parigi-Saclay ed è attualmente chercheur invitépresso il Centre d’études supérieures de civilisation médiévale dell’Università di Poitiers. I suoi principali interessi di ricerca si concentrano nei campi della storia del diritto, della filosofia morale e della storia della Chiesa, con speciale attenzione alla storia delle idee del tardo Medioevo e della prima età moderna. È fondatore e co-direttore, con il Dr. Anton Schütz, del Centre for Research in Political Theology (già presso il Birkbeck College dell’Università di Londra e ora integrato nell’Università del Kent).

Recensione a
L’invenzione del colpevole. Il “caso” di Simonino da Trento dalla propaganda alla storia
a cura di D. Primerano con D. Cattoi, L. Liandru, V. Perini e la collaborazione di E. Curzel, A. Galli
Tipografia Editrice Temi, Trento 2019, pp. 367, €40,00.

Questo volume è stato pubblicato in occasione di un’omonima mostra tenutasi presso il Museo Diocesano di Trento dal 13 dicembre 2019 al 14 settembre 2020, nata per celebrare il centenario della nascita di una figura centrale negli studi sulla storia della Chiesa trentina: mons. Iginio Rogger. Il tema della mostra e del volume è un tema al cui chiarimento in sede storica e religiosa Rogger ha significativamente contribuito e che per lui «era stato e fu sempre un problema di verità» (Emanuele Curzel, p. 31): quello delle vicende legate alla morte di un bambino di circa due anni e mezzo, Simone Unferdorben, meglio conosciuto come Simonino da Trento, il 23 marzo 1475 e ai successivi processi intentati contro i membri della comunità ebraica cittadina per l’accusa, infondata, che egli fosse vittima di un omicidio rituale in chiave anticristiana. Determinante in tali processi fu Johannes Hinderbach, il principe vescovo trentino al cui impulso si dové la loro instaurazione e che si servì della questione del Simonino quale strumento per la sua azione non solo religiosa, ma anche politica e culturale, coinvolgendo «i suoi amici umanisti, da lui informati sull’accaduto e sollecitati alla scrittura» (Antonella Degl’Innocenti, p. 85). Fu anzi proprio Hinderbach il vero artefice del “caso” del Simonino, tanto che Daniela Rando, soffermandosi sul suo ruolo, vede attraverso di essa nell’intera questione del Simonino «una logica di sviluppo unitaria, dal processo e dalle condanne degli ebrei alla promozione del culto del “bambino innocente”» (p. 45).

      Il volume ha carattere storico e storico-artistico e consta di quattro parti: la prima presenta quattordici contributi volti a discutere gli aspetti storico-devozionali del tema e presta attenzione agli elementi giuridici legati al processo; la seconda, con nove contributi, tratta di questioni iconografiche legate alla duratura fortuna della figura del Simonino nell’immaginario collettivo successivo alla sua morte; la terza raccoglie venti schede relative a una serie di opere artistiche, non tutte esposte in mostra; la quarta infine contiene la bibliografia e l’elenco dei crediti fotografici, preceduti da un regesto dei miracoli attribuiti al fanciullo sulla base della documentazione a essi relativa conservata presso l’Archivio di Stato di Trento.

      Una visione complessiva dei diversi testi contenuti nel volume pone innanzitutto in evidenza due aspetti del tema tra loro connessi: il suo valore di particolare e drammatico momento politico-religioso nella storia del Trentino di fine Quattrocento e la sua capacità a rappresentare più in generale, sulla base di esso, il clima di intolleranza religiosa in funzione antiebraica che ha condizionato per secoli la cultura europea e le cui conseguenze sono tuttora avvertibili. È opportuno osservare come l’elemento comune ai due aspetti, l’accusa di omicidio rituale, rifletta una superstizione assai diffusa in epoca medioevale – ma attestata anche successivamente – le cui origini più profonde affondano in una mancata o incompleta accettazione delle comunità di fede ebraica nel tessuto sociale del territorio, a maggioranza cristiana, nel quale esse erano presenti. In base a tale superstizione, si attribuiva agli ebrei l’uso di rapire e uccidere bambini di fede cristiana nei giorni delle celebrazioni della Pasqua ebraica «con lo scopo di reiterare […] la crocifissione di Gesù e di servirsi del sangue della vittima per scopi magici e medico-curativi» (Tommaso Caliò, p. 35). «Come poi quest’accusa abbia finito per diventare la “prova principe” dell’intrinseca malvagità dell’ebreo», afferma Massimo Giuliani, «è qualcosa che i discorsi razionali faticano a descrivere ma anche a comprendere» (p. 150) tanto che anche «il classico concetto di antigiudaismo con radici religiose (cristiane) e la sua permutazione in antisemitismo moderno sembrano insufficienti a narrare il caso» (ibidem).

      Volendo proporre una ricostruzione per fasi del successo che la storia del Simonino ha incontrato nel corso del tempo a partire da quella che Maria Giuseppina Muzzarelli definisce l’«invenzione degli ebrei infanticidi a scopi rituali» (p. 103), è possibile ricorrere ad alcuni degli elementi presenti in questo volume: la definizione della morte del bambino nei termini di un vero e proprio “martirio” e il suo utilizzo da parte di Hinderbach e del suo seguito in funzione di «una cosciente strategia editoriale» (Donatella Frioli, p. 73) e di «una campagna di stampa inedita e in un certo senso irripetibile» (Matteo Fadini, p. 95) volte alla “fabbricazione” di un culto che rispecchiasse e rafforzasse gli interessi perseguiti dal principe vescovo; la mancata canonizzazione del Simonino nonostante gli sforzi di Hinderbach, il quale «dovette accontentarsi di un santo “abusivo”» (Domenica Primerano, p. 115) e non corrispondente pertanto all’«aura salvifica e taumaturgica» (Gaia Bolpagni, p. 344) che si era fin da subito cucita addosso all’immagine del fanciullo; la proclamazione del Simonino a beato negli anni Ottanta del Cinquecento e l’imporsi di una sua rappresentazione iconografica con «il capo circonfuso da un’aureola non più a raggiera (tipica dei beati) ma piena» (Domizio Cattoi, Valentina Perini, p. 291) a dispetto di una canonizzazione mai avvenuta; il perdurare di un simile immaginario fino al Novecento, «quando la fama del piccolo “martire” e di altri bambini presunte vittime di omicidi rituali stava vivendo una nuova primavera, sulla spinta di un generale rilancio della tradizionale accusa del sangue» (Lorenza Liandru, p. 131); infine il venire meno ufficiale della questione dell’omicidio rituale del Simonino nel 1965, quando, a distanza di quasi cinque secoli dai fatti e sulla scia di un intenso dibattito storiografico, intervenne una assai tardiva revisione del giudizio espresso dalla Chiesa, che determinò, quale conseguenza, anche la soppressione del culto del fanciullo.

      Caliò rileva che «[g]li altri casi italiani di accuse di infanticidio, rivolte agli ebrei nei decenni successivi la morte del Simonino, non ebbero […] pari fortuna mediatica, ricordate tutt’al più da qualche cronaca medioevale locale» (p. 38). A determinare in queste situazioni un risalto minore rispetto a quello dato alla morte del Simonino fu verosimilmente il timore, da parte delle autorità sia religiose sia civili, «del diffondersi crescente di violenze incontrollate contro gli ebrei e il nascere di devozioni locali prive di un controllo ecclesiastico» (ibidem). Ciò contribuisce a chiarire, per opposizione, il diverso disegno politico dietro al caso del Simonino, sottolineando al contempo l’utilità di una sua considerazione alla luce delle strategie del principato vescovile trentino al tempo di Hinderbach. Assume in proposito significato particolare la documentazione dei processi, edita da Cedam in due volumi usciti nel 1990 e nel 2008 per le cure di Diego Quaglioni e Anna Esposito. I due autori hanno contribuito anche a questo volume, con testi che si riallacciano al loro precedente lavoro editoriale. Con riferimento a Quaglioni, il suo saggio svolge considerazioni su entrambi gli aspetti che abbiamo visto caratterizzare il tema del volume. In relazione al secondo di tali aspetti, quello di portata più generale, l’autore rileva come i processi relativi alle vicende del Simonino siano «decisivi, nella transizione alla prima età moderna, per la fissazione degli stereotipi antigiudaici in un nuovo paradigma, […] combinazione di odio teologico e di odio sociologico, fenomeno soggiacente, imponente e vario come l’antigiudaismo moderno» (p. 53). In merito invece al primo aspetto, che occupa la parte maggiore del saggio, è fornita una ricostruzione del processo, comprese le condanne, tra cui spicca quella irrogata a «Mosè di Samuele da Würzburg, […] che morì a causa delle torture e fu messo al rogo post mortem» (p. 54). Anche delle donne figuravano tra gli accusati. Una di esse, Bella di Bonaventura da Norimberga, dopo aver resistito alle torture dei primi interrogatori, infine cedette, ammettendo «di aver preso parte ad “atti di dispregio della fede cristiana”, mostrando i gesti osceni che sarebbero stati indirizzati al cadavere del bambino» (p. 56) e aggiungendo altri particolari sull’omicidio del Simonino. Le fasi processuali che interessarono Bella e le altre donne coinvolte sono approfondite nel saggio di Esposito. L’autrice rileva il ruolo centrale dei loro interrogatori «sia allo scopo di confermare la colpevolezza degli ebrei nell’infanticidio rituale, sia al fine di ribadire il carattere abituale del consumo del sangue cristiano da parte degli ebrei, sia indirettamente per alleviare la posizione del vescovo Hinderbach» (p. 59), il cui contegno nell’intera questione del Simonino destava in quel momento ampie perplessità da parte pontificia. Ancora Esposito sottolinea l’importanza del ruolo delle imputate in relazione ai progetti già visti del principe vescovo trentino di vedere riconosciuta ufficialmente la «santità del “martire” Simonino, strettamente legata alla colpevolezza degli ebrei e all’accusa della pratica dell’omicidio rituale» (ibidem).

      Della drammaticità dei processi contro gli ebrei di Trento è sintomatica una domanda ripresa nel titolo del saggio di Anna Foa, «Quid debeo dicere?» (pp. 67-68), rivolta a chi lo interrogava da uno degli imputati, Vitale di Weissenburg, ormai stremato dalle torture patite e pronto a confermare qualsiasi accusa attribuitagli. Pur trattando il caso del Simonino, il testo di Foa esamina in realtà più in generale lo stereotipo dell’omicidio rituale, denotando come esso costituisca tuttora «uno dei pilastri della propaganda antisemita» (ibidem). Similmente a quanto affermato da Caliò, è significativo tuttavia come alla grande diffusione di questa superstizione in altre realtà locali non sempre seguissero, nei decenni successivi ai fatti di Trento, conseguenze paragonabili. Foa cita in proposito un caso registratosi a Roma alla metà del Cinquecento, al tempo di Papa Marcello II: «Si tratta di una specie di controstoria rispetto a Trento: quello che sarebbe potuto accadere se le autorità avessero osservato i dettami della giustizia invece di credere subito alla colpevolezza degli ebrei» (p. 70).

      Tra i vari altri elementi di analisi sul tema degli omicidi rituali proposti nel volume, è utile considerare quelli contenuti in due saggi: l’uno, di Francesco Germinario, propone una riflessione in chiave attuale; l’altro, di Laura Dal Prà, è invece uno studio più storicamente vicino alle vicende del Simonino. Quanto a Germinario, egli tratta la questione come parte di un esame volto a definire le ragioni fondanti l’immaginario antiebraico in epoca contemporanea. Germinario nota come l’antisemitismo, «per trovare udienza nel mercato politico e delle idee, deve necessariamente operare nelle situazioni di crisi culturali o economico-sociali quando cioè cala il consenso nei confronti delle istituzioni rappresentative, ovvero vengono messi in discussione i valori liberali» (pp. 155-156). A partire da simili situazioni di crisi, sarebbe possibile rinvenire i legami tra vecchi e nuovi pregiudizi. Riferendosi infatti implicitamente alla questione del Simonino, Germinario afferma che «[l]a convinzione che l’ebreo si alimentasse di sangue cristiano nei giorni della Pasqua ebraica non è uno stereotipo isolato: esso rimanda a quello delle ebree che seducono i gentili […] al fine di impoverirli e di annullare la loro volontà, ovvero all’ebreo finanziere che sfrutta economicamente l’ariano» (p. 157). L’elemento portante di tali pregiudizi sarebbe quindi lo stesso, ovvero che «le forze dell’uomo, siano esse biologiche o economiche sono utilizzate dall’ebreo per rafforzarsi; e il rafforzamento può essere biologico, attraverso il ricorso al sangue non ebreo, o economico, attraverso il ricorso al denaro degli ariani […]» (ibidem). Passando al testo di Dal Prà, il riferimento agli omicidi rituali è visto – questa volta con esplicito riferimento al Simonino – come «creazione ultima di una parabola negativa […] nella fatale “inimicizia” tra cristiani ed ebrei» (p. 189). Che l’analisi proposta da Dal Prà sia più vicina agli anni in cui si svolsero le vicende del Simonino lo si evince fin da subito, da un riferimento a una lettera di Hinderbach. Nel trattare i riflessi artistici dei pregiudizi antiebraici, Dal Prà rileva come essi siano da «mettere in relazione con situazioni sociali, economiche e politiche diversificate sia geograficamente che temporalmente tra le varie regioni europee» (p. 167). Evidenziando come, sul piano dottrinario, la conflittualità caratterizzante i rapporti tra cristianesimo ed ebraismo sia da rinvenire nel «fondamentale snodo concettuale» (p. 168) rappresentato dalla mancata accettazione del messaggio del Cristo da parte del secondo, Dal Prà vede nel «tema figurativo dell’omicidio rituale […] l’ultimo gradino iconografico» (p. 189) di un graduale percorso di deterioramento dei rapporti tra le due fedi nel quale si salderebbe «in un colpo solo il mondo antico con quello moderno» (ibidem).

      Tornando, per concludere, al ruolo giocato sui temi qui discussi da Iginio Rogger, è possibile affermare che la ripubblicazione di uno o più dei suoi testi sul Simonino avrebbe ulteriormente arricchito questo volume, in ogni caso complessivamente ben organizzato. È indubbio che l’imporsi, con grande merito di Rogger, di una ricostruzione razionale delle vicende del Simonino abbia avuto per conseguenza, su di un piano più generale, quella di facilitare il dialogo interreligioso tra ebrei e cristiani. Grande valore simbolico assume in proposito la targa in lingua ebraica e italiana ancor oggi visibile in vicolo dell’Adige, nei pressi cioè del luogo del ritrovamento del corpo senza vita del Simonino. La targa, affissa nel giugno del 1992 dal Comune di Trento, recita nel testo italiano: «In questo luogo / ove l’intolleranza ha scritto / una pagina buia nella storia dell’uomo / segnando con sanguinosa repressione / e bando secolare un lungo dissenso / fra ebrei e cristiani / la città di Trento / volle riparare / ponendo questa stele a futura memoria / ed a testimonianza di impegno fattivo / per la costruzione della pace e della tolleranza».

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