Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a
P. Grossi, Oltre la legalità
Laterza, Roma-Bari 2020, pp. XII + 115, €14,00.
«Volete avere delle buone leggi? Bruciate le vostre e fatene delle nuove»: questo il grido di battaglia lanciato da Voltaire all’assalto della tradizione giuridica del ius commune europeo. Con l’illuminismo giuridico e le codificazioni napoleoniche si affermò l’idea che il diritto coincidesse con la loi e che questa non fosse altro che l’estrinsecazione positiva di un creativo atto di volontà del legislatore, ossia del potere politico. Il despota illuminato o l’assemblea rivoluzionaria o lo Stato tout court “fanno” le leggi e le impongono ai sudditi/cittadini in veste di norme rigide, generali e astratte. Non viene lasciato più alcuno spazio a un diritto che si collochi al di fuori della norma. La legalità insomma è fatta coincidere con l’insieme delle norme potestative.
Oggi, a distanza di due e più secoli dal momento genetico illuministico, quel principio di legalità parrebbe aver fatto il suo tempo: un “fossile settecentesco” che però sopravvive tenacemente per pigrizia e inerzia intellettuale in molti giuristi di civil law e, a livello di pensiero comune, presso tutti coloro che in nome della certezza del diritto pretendono che le leggi dello Stato racchiudano e in se stesse risolvano l’immensa complessità del fenomeno giuridico.
Paolo Grossi, uno dei massimi storici italiani del diritto nonché presidente emerito della Corte costituzionale, ha dedicato una parte importante della sua laboriosissima vita di giurista a un ripensamento critico e chiarificatore dell’eredità giuridica settecentesca con l’esplicita finalità di affrancare il diritto dalla pesante cappa del positivismo giuridico e di renderlo più giusto, cioè aderente ai fatti. Il libro Oltre la legalità, edito nel 2020, appartiene alle «ultime soste di raccoglimento» dell’Autore ed è «frutto di questo ultimo frammento di vita» (p. XI). L’opera si compone di cinque saggi (due inediti e tre pubblicati tra il 2014 e il 2018 in riviste specializzate) e già dal titolo assume una intonazione battagliera: “oltre la legalità” significa oltre il positivismo giuridico di matrice statale, e significa altresì recupero (già ampiamente in atto) del diritto senza lo Stato, «senza organismi politici totalizzanti e omnicomprensivi» (p. 7). Il punto di riferimento da cui prende avvio il discorso di Grossi è la rivalutazione del più autentico messaggio giuridico medievale, quello «di una civiltà senza lo Stato» (p. 43), dove il diritto nasce dal basso, dall’umile «fangosità» dei fatti quotidiani, consuetudini, usi formatisi fuori e non di rado contro il potere politico; una civiltà giuridica, quella medievale, in cui le stesse autorità politiche (Principi, Comuni, Signorie) si occupavano di diritto solo in relazione all’ordine pubblico lasciando alle libertà della galassia sociale tutto il resto. Nella civiltà medievale europea «sono plurali le forze chiamate a produrre diritto e grandeggia un generalmente vissuto pluralismo giuridico» (p. 40).
Il diritto nasce dal basso, dalla piattaforma sociale intrìsa di umanità, quotidianità, concretezza. Compito vero del giurista – che è anche un atto di profonda umiltà – è il chinarsi verso questa fattualità minuta, osservarla, rispettarla e trarre da essa, attraverso un’opera di ricerca minuziosa, la regola del caso singolo; e dall’insieme delle regole simili egli, nel solco di un lavoro interpretativo plurigenerazionale, saprà poi enucleare quei princìpi giuridici che con estrema flessibilità e aderenza alla complessità del reale regoleranno i casi singoli futuri. Tutto l’opposto col principio illuministico di legalità. Esso, con la pretesa (secondo la formula di Voltaire sopra citata) di rifare ex novo e ex nihilo le leggi, tradisce la superbia del demiurgo: la piattaforma sociale viene calpestata, non si tiene conto di tradizioni, abitudini, consuetudini ma si traccia su un foglio bianco la norma e la si fa calare dall’alto, con tutta la sua forza coercitiva, sul terreno della minuta quotidianità. Il diritto non nasce più dai fatti ma da atti di imperio; le realtà non rientranti nelle previsioni generali e astratte di questi atti di imperio chiamate “leggi”, perdono ogni connotazione di giuridicità perché, secondo il principio di legalità, non esiste diritto al di fuori della legge positiva.
Il dogma della legalità di matrice illuministica – dominante per circa un secolo e mezzo – cominciò a incrinarsi agli inizi del XX secolo. Il giurista Santi Romano fu il primo in Italia ad accorgersi del mutamento giuridico che stava gradualmente riportando «la grezza fattualità» e la dimensione sociale al centro del diritto (Lo Stato moderno e la sua crisi, prolusione del 1909; L’ordinamento giuridico, 1918). Figura molto cara a Paolo Grossi quella di Santi Romano: il primo vero antipositivista in un’epoca in cui il positivismo giuridico regnava pressoché incontrastato nelle università, nei tribunali, nelle aule parlamentari. Ma la vera svolta secondo Grossi avviene nel 1948 col varo della Costituzione repubblicana: non una nuova codificazione alla maniera illuministico-positivista, bensì un breviario giuridico di princìpi riconosciuti e còlti nel «sostrato valoriale ancora inespresso ma vivo e vivace del popolo italiano». La Carta repubblicana, col riconoscimento del pluralismo degli ordinamenti giuridici produttori di diritto, segna una svolta pluralista «che mette definitivamente in crisi statalismo e legalismo, baluardi dell’assetto politico borghese» (p. 91).
Legatissimo per frequentazione di studi e impostazione culturale e metodologica alla civiltà giuridica del medioevo, Grossi non è naturalmente così ingenuo da riproporre sic et simpliciter il modello giurisprudenziale medievale per la costruzione giuridica europea, però egli sa anche che «dal forziere della storia» (p. 38) si può trarre prezioso materiale da impiegare per l’edificazione del presente. Il diritto comunitario europeo secondo l’Autore presenta uno spiccato «carattere giurisprudenziale nella sua formazione» (p. 50), grazie soprattutto all’attività essenzialmente ermeneutica della Corte di Giustizia europea. I giudici della Corte, selezionati tra i più validi studiosi europei delle discipline giuridiche, hanno elaborato e continuano a elaborare con le loro sentenze i princìpi fondamentali del diritto privato, commerciale, etc. Simili ai sapienti iuris periti medievali, essi svolgono attività inventiva (da “invenire”: ricercare) e traggono dalla realtà dei casi singoli l’insieme dei princìpi giuridici. Con forte suggestione Grossi ravvede nell’esperienza della Corte di giustizia europea il medievale connubio tra diritto giurisprudenziale e diritto sapienziale (iudices e doctores iuris), vivo e vivente al di fuori degli interventi potestativi calati dall’alto. Ma questo quadro, pur molto bello, è solo un lato della realtà.
Ci sia sommessamente consentito di muovere una critica a Paolo Grossi: il diritto europeo presenta indubbie e autorevoli peculiarità giurisprudenziali, ben evidenziate dall’Autore. Ma queste peculiarità conoscono forti limiti che Grossi omette di ricordare. Esiste infatti l’altro volto del diritto europeo, quello del profluvio ultradecennale di atti legislativi comunitari di vario grado che, con piglio potestativo, pretendono di creare, con la norma generale e astratta, il diritto inteso come regola fin nelle materie più insignificanti, e di imporlo dall’alto (appunto potestativamente) sui popoli e sui singoli cittadini europei. Il solo semplice censimento di questi atti legislativi si presenterebbe problematico, date le immense proporzioni assunte. Uno dei motivi che hanno spinto la Gran Bretagna, Paese di common law, ad abbandonare l’Unione Europea risiede proprio nell’ostilità di principio e di mentalità verso la legalità potestativa degli atti legislativi comunitari (percepiti non solo come stranieri ma estranei, per loro propria natura, al diritto consuetudinario britannico). D’altronde lo stesso Autore, in altra parte del saggio, insiste sul concetto anglosassone di law, intraducibile come loi (o “legge”): norma positiva, peculiare espressione del principio di legalità, questa; comprensiva di ogni manifestazione del giuridico, quella. Il sintagma inglese Rule of Law è rispettoso della polifonicità del giuridico (leggi; consuetudini; dottrina; fattualità intrisa di storicità), laddove il principio di legalità, cui i sistemi giuridici continentali di età moderna soggiacciono, «è vocabolo/concetto intrinsecamente monodico» (p. 30) in quanto, col suo monismo, riduce il giuridico alla norma generale e astratta creata dal legislatore.
Un diritto oltre la legalità, quindi. Come già per il ius commune dell’età intermedia, Grossi non si nasconde il prezzo da pagare per tale superamento: «una diffusa incertezza e scarsa, difficile prevedibilità» (p. 98). Un costo tuttavia sopportabile perché la contropartita sarà un diritto più autentico e in armonia con la vita: un diritto più giusto.