Matteo Antonio Napolitano (1989) è professore associato di Storia contemporanea nel Dipartimento di Scienze Umanistiche, Motorie e della Formazione dell’Università degli Studi Niccolò Cusano di Roma. Nello stesso Dipartimento è titolare anche dei corsi di Storia contemporanea - Seminario laboratoriale di Analisi delle fonti e Storia contemporanea C.A. Insegna, inoltre, Storia contemporanea del crimine e Storia e istituzioni dell'Asia nel Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Sociologiche del medesimo Ateneo. È membro del Comitato Scientifico della Rivista «Europea». Tra le sue recenti pubblicazioni: c Verso l’Europa unita. Il percorso politico-istituzionale di Giulio Bergmann(2020); curatela di V. Cian, Ricordi d'un ottuagenario, introduzione di S. Bartolini (2023);Il Gruppo Liberale e Democratico al Parlamento europeo. Un profilo politico (1976-1985), Rubbettino (2023; vincitore del Premio "Emilio Colombo" per la saggistica storica dell'Unione Europea nell'ambito del Premio Letterario Basilicata).
Recensione a: R. Lazenby, Magic Johnson, la vita, trad. it. di Lorenzo Vetta, 66thand2nd, Roma 2024, p. 677, € 25,00.
Era il 14 agosto 1959 e mentre Christine donava al mondo il suo bambino, Earvin, la placida stagione estiva nella città di Lansing – la capitale dello Stato del Michigan – proseguiva priva di significativi sussulti. Nessuno, in quel momento, poteva immaginare quanto quella anonima giornata avrebbe influito sulla percezione della pallacanestro a livello mondiale, né tantomeno sapere quale sarebbe stato – nel bene e nel male – l’impatto socio-culturale delle tumultuose vicende che travolsero l’esistenza di Magic lontano dal parquet.
La vita di Johnson ha raccontato – e continua ancora oggi a raccontare –, innanzitutto, una grande storia americana, fatta di speranze, successi, rovinose cadute e incredibili risalite. Volendo però fornire una chiave di lettura più attenta e fuori dai denti su questo aspetto, la semantica di Roland Lazenby parla al lettore con dei significanti precisi, ma invecchiati in maniera molto rapida; validi fino a qualche mese fa e oggi, pressoché per la totalità, cancellati dal dibattito pubblico a causa del radicale ribaltamento prospettico promosso dalla diffusione della retorica anti-DEI (diversity, equity, and inclusion) propria del movimento MAGA (Make America Great Again). Questa biografia di Magic risulta, invero, priva di sbavature se calata nell’ambiente culturale – e, di conseguenza, anche nel mercato editoriale – degli USA di Biden-Harris e, nel contempo, fatta eccezione per il solido sottotesto dell’American Dream, quasi del tutto anacronistica in quello del trumpismo. Gli esempi connessi a tale peculiarità del volume, concentrati in particolare nella prima parte, sono a nostro avviso molteplici: dalla forte attenzione verso le radici profonde dei Johnson, da rintracciare tra il Mississippi e il North Carolina, alla controversa realtà del busing – che invece di risolvere il problema della segregazione razziale nelle aree urbane lo accentuò –; fino ad arrivare all’enfasi nei confronti del ruolo avuto da Magic e dalla sua famiglia nel favorire l’integrazione a Lansing, del successo dunque, veicolato dal coinvolgente stile cestistico e dal volto gentile del giovane Earvin, di «gente […] determinata a farcela, eppure perlopiù invisibile ed estremamente sottovalutata – e spesso tormentata – dalla cultura dominante» (p. 196).
Di fatto, il carisma e il talento naturale di calamitare, elettrizzare e stregare il pubblico – presto divenuto il “suo pubblico” – e i compagni si resero evidenti in Magic già dalle primissime esibizioni sui palcoscenici locali, per poi esplodere letteralmente nel college basketball e nella NBA. Sebbene dagli indizi forniti dalle caratteristiche tecniche di alcuni dei suoi principali idoli – tra tutti, il Black Messiah Earl “Pearl” Monroe e “Dr. J” Julius Erving – potesse emergere la predisposizione verso una determinata idea della pallacanestro, quello che Johnson impose al gioco fu un autentico cambio di «sintassi» (p. 129): il ruolo del lungo, la cui nobile tradizione dalle mani di George Mikan passò, tra gli anni ’60 e ’70, in quelle di interpreti splendidi come Bill Russell, Bill Walton e Wilt Chamberlain, uscì trasfigurato dalla rivoluzione a tutto campo portata da Magic. Gli effetti speciali dello Showtime, e il tempo lo avrebbe ampiamente dimostrato, furono il frutto di una macchina spettacolare, guidata da una point guard di “due metri e sei” che risaliva il parquet dal rimbalzo difensivo con un sorriso contagioso sempre stampato sul viso. Per illustrare nel dettaglio questa transizione, oltre a ricorrere alle tante memorie personali raccolte nell’arco della sua lunga carriera giornalistica, Lazenby si affida alla migliore delle soluzioni, ovvero il racconto dei testimoni diretti. Compagni, allenatori, commentatori, amici, parenti: crediamo sia proprio tale policromia di voci a offrire una congrua dimensionalità al fenomeno Magic.
Per arrivare alla versione migliore di sé stesso in ambienti competitivi come la NCAA e la NBA, ad ogni modo, Johnson necessitò di un contesto. Ed è difficile, in questo senso e sotto molteplici punti di vista, immaginare una città tanto stimolante quanto la Los Angeles di inizio anni Ottanta. Si può affermare – senza troppe perplessità interpretative – che i Lakers dell’istrionico imprenditore Jerry Buss rappresentarono tutti gli eccessi non soltanto di L.A., ma di un intero frangente storico. Magic e Buss furono inoltre i catalizzatori di un rinnovamento privo di precedenti per la lega professionistica americana, arrivata alla fine degli anni Settanta sull’orlo del fallimento con arene quasi sempre vuote e un fascino in netto declino. Al rilancio della stessa, oltre alla presenza da copertina scandalistica dei Lakers, contribuì però anche un altro fattore, ovvero la presenza alla austera corte bostoniana di Red Auerbach, quindi in maglia Celtics, di uno schivo ragazzo bianco venuto dal profondo Indiana, Larry Joe Bird. Dalla finalissima NCAA del 1979, che vide il trionfo – in una sfida dal sapore epico, seguita in diretta televisiva dal 25% circa degli statunitensi – degli Spartans di Johnson sui Sycamores di Bird, l’accesa rivalità tra i due dentro e fuori dal campo divenne un leitmotiv classico, rimasto inscalfibile per oltre un decennio e culminato nell’esperienza del Dream Team di Barcellona 1992, un ponte tra ciò che era stato (Bird-Magic) e quello che sarà (Jordan-Pippen). L’ottima parte della seconda metà del libro di Lazenby consiste, di fatto, in una intensa sinfonia a doppia voce, dove – nei 19 atti totali delle serie finali che li videro fronteggiarsi, senza sconti di alcun tipo – alle delusioni e alle lacrime dell’uno, si alternano i successi e le soddisfazioni dell’altro. Celtics in sette gare nel 1984, Lakers in sei nel 1985 e ancora L.A. in sei nel 1987: non furono delle semplici partite di basket, ma il volto – commovente, per l’imperitura bellezza – di un’epoca.
Tuttavia, dietro ai riflettori del Forum o del Boston Garden, oltre a quello delle possibili sconfitte sul parquet ad aleggiare era anche un altro fantasma, introdotto da Lazenby nella narrazione con gradualità e delicatezza: quello della sieropositività all’HIV. In un significativo paragrafo intitolato «L’altro gioco» (pp. 378 ss.), l’autore allude alla dipendenza dal sesso di Magic, cresciuta a dismisura, come prevedibile, con l’arrivo in California da superstar della franchigia più patinata della NBA. Fu Buss stesso a introdurre il suo pupillo nel cuore del glamour losangelino e la fama che precedeva Johnson fece il resto, in una spirale presto divenuta incontrollabile. Sebbene la piena libertà nei costumi sessuali costituisse una norma largamente diffusa nella Los Angeles del tempo, Buss e Magic portarono tutto su un altro livello e quei comportamenti si accompagnavano molto spesso a diversi fattori negativi, tra cui l’assoluta «noncuranza rispetto alle malattie sessualmente trasmissibili» (p. 384). In seguito, invero, nel caos mediatico emerso con la sieropositività di Johnson, tanti tra i suoi vecchi amici avrebbero incolpato – con poco senso della realtà e obliando le responsabilità individuali del giocatore – proprio Jerry Buss. Per non parlare delle numerose malignità che circolarono per anni nelle cerchie vicine al basket professionistico e in particolare a Magic, fra queste la battuta “se non si ammala lui, non si ammala nessuno”, con una chiara e crudele allusione alle sue abitudini nel privato.
L’annuncio del 7 novembre 1991 squarciò il velo di Maya: il campione identificativo di un decennio, considerato invulnerabile, aveva contratto il virus HIV, associato dalla maggioranza degli americani di allora – nella generale ignoranza dell’opinione pubblica sul tema – soprattutto a omosessuali e tossicodipendenti. Quella giornata rappresentò la fine dell’atleta-simbolo e aprì la strada al ruolo pubblico dell’uomo-testimone, interpretato da Magic con la determinazione di sempre, nonostante le difficoltà e le enormi pressioni che sin da subito gravarono su di lui in primis e sulla sua famiglia, retta con grande dignità dalla solida postura della moglie Cookie Kelly. L’olimpiade spagnola del 1992, autentica sintesi della carriera di Earvin Johnson, saldò questa traumatica transizione, consegnando all’immortalità una generazione irripetibile di talenti e un uomo “magico” tra uomini tanto diversi fra loro, ma tutti ugualmente capaci di toccare le più alte vette e i più profondi abissi.
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