Stefano Berni (1960) è docente di Filosofia e scienze umane nei licei. È stato professore a contratto presso la cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, assegnista e dottore di ricerca. È tra i fondatori e nel comitato scientifico della rivista “Officine filosofiche” dell’Università di Bologna e Presidente della Società Filosofica Italiana di Prato. Le sue ultime pubblicazioni sono: Potere e capitalismo. Filosofie critiche del politico (Pisa 2018); Etiche del sé. Foucault e i Greci(Firenze 2021); L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt (con Antonio Camerano; Milano 2022).

Il discorso antropologico di Marc Augé nel suo libro, Poteri di vita, poteri di morte. Introduzione ad una antropologia della repressione, del 1977, è più di un libro di antropologia, è un libro filosofico e sociologico insieme. Augé vorrebbe superare la dicotomia tra selvaggi e civilizzati: da un lato vorrebbe superare la logica evoluzionistica per la quale vi sarebbe un progresso delle società contemporanee nei confronti delle culture primitive da lui studiate in Africa occidentale; dall’altro vorrebbe superare anche quel mito del buon selvaggio di sapore rousseauiano secondo il quale l’uomo primitivo vivrebbe in una condizione di armonia, pace e tranquillità migliore rispetto all’uomo bianco e che avrebbe spinto alcuni antropologi e sociologi, da Mauss a Baudrillard, e da filosofi come Deleuze e Althusser, a pensare che le società primitive contenessero dei valori e o dei comportamenti che noi dovremmo o potremmo recuperare.

Tutte le culture analizzate da Augé vengono invece poste sullo stesso piano spazio-temporale e comparate come se fossero più le similitudini che le differenze. In particolare Augé riconosce che in tutte le società vi è una forma di potere a priori che è alla base della struttura sociale di ogni civiltà. Non esistono, per lui, diversamente da quello che supponeva Pierre Clastres, società acefale, perché il potere esiste sempre anche se spesso esso agisce dal basso, appartiene alla costruzione storico-strutturale di ogni società, come ricorda anche Durkheim. Questa onnipresenza del potere rammenta un altro filosofo: Michel Foucault. La conclusione del libro di Augé è sintomatica: la storia «è la storia del Potere».

Tuttavia non solo le istituzioni e lo stato moderno sarebbero repressivi. Per Augé la quasi universalità delle relazioni di potere autorizzerebbe a pensare che non esistono società che non siano repressive. Vi sarebbe in Deleuze e Guattari, in Bataille o in Mauss l’idea che i primitivi siano meno crudeli, più generosi e più felici di noi. In realtà “il potere si abbatte sempre sugli individui”. E le società cosiddette primitive non sono così semplici come le percepiamo: vi sono strutture ideologiche, nelle società “semplici” molto più complesse di quello che pensiamo. La presenza dello stato che caratterizza la modernità non è una differenza sostanziale per ritenere una cultura più semplice della nostra, né che il vissuto di queste persone sia inferiore al nostro. L’esistenza del potere è anteriore anche alla comparsa delle classi come invece suppone il marxismo. I rapporti di classe non sono che rapporti di potere. “Non esiste né una società senza potere né potere senza ideologia”. In ogni società il potere tende a imporsi attraverso l’ideologia. Tutte le società sono repressive e impongono allo stesso tempo un ordine individuale e un ordine sociale”.

Ma che cos’è la repressione? Vi è una repressione dell’individuo contro sé stesso, quello che Freud chiama la repressione del super-io, e la repressione di un individuo contro un altro individuo. La repressione è al contempo individuale e collettiva. Vi è un rapporto di norme a cui attenersi, e i devianti sono presi di mira. La violenza esercita e si trasforma in forze dell’ordine. Vi è una lotta per imporre ideologie vincenti: da questo punto di vista, scrive Augé, l’etnocidio è una delle figure repressive della dominazione: “tutti i sincretismi sono delle illusioni”. Il potere tende sempre per sua natura ad essere totalitario.

Così, tutto rientra nell’organizzazione del potere: i rituali relativi alla morte, la parentela, la magia, il rito, i rituali dell’alleanza e discendenza. E tutto questo è ciò che accade anche nelle società moderne e postmoderne o “surmoderne”. La soggettivazione, la normalizzazione, il complesso edipico, la territorialità, la discendenza pesano ancora oggi nella formazione dell’individuo. Sono le relazioni di potere, i codici sociali che servono a canalizzare, organizzare, governare.

A questa Antropologia della repressione si oppone quella che Augé critica e chiama Antropologia Pretesto. Quest’ultima è quella che cerca nostalgicamente l’autenticità dei primitivi e la loro bontà: si vedano le filosofie marxiste o strutturalistiche di Deleuze e Guattari con i loro riferimenti al dono, al debito, all’economia socializzata, al lavoro artigianale, al particolarismo, alla natura. Altri riduzionismi antropologici sono la teoria psicoanalitica ripresa da Girard o quella economicista di derivazione marxista. La prima cercherebbe nelle società primitive un presunto senso di colpa, volendo cristianizzare ante litteram tutte le società; la seconda teoria, quella marxista, tende a spiegare le formazioni sociali col solo fenomeno economico.

Occorre allora riferirsi al concetto di potere non inteso come istituzione politica ma come logica complessiva di funzionamento di relazioni e pratiche sociali, che Augé chiama ideo-logica o “logica delle rappresentazioni”. Siamo di fronte a dei totalitarismi senza stato. Entro i legami di parentela, o nei casi di stregoneria o nei matrimoni, vale la regola dell’efficacia e l’accumulo di prestigio e potere. Rappresentazione qui significa “un insieme di sistemi simbolici” dati in una determinata cultura. Cultura e potere si sovrappongono, esercitano attribuzioni di senso, rapporti di forza.  L’antropologia africanista mostra una varietà enorme di forme di potere. Esse si manifestano nei modi di dire e nei modi di fare. Il linguaggio dell’ideo-logica esprime il linguaggio di coloro che dominano ma è il riflesso della pratica del discorso di tutti. Occorre allora analizzare l’organizzazione del potere. Se la storia studia i rapporti di forza, l’antropologia studia i rapporti di potere di cui l’istituzione non è che un elemento.

Come funziona la logica del potere? Innanzitutto vi sono dei doppi, delle ambivalenze: si attribuiscono all’altro certi poteri: per esempio, la malattia e la morte vengono attribuite all’Altro. Vi è un’influenza psichica, dei poteri spirituali di aggressione e di difesa. Ci si difende con la stregoneria, mantenendo l’identità personale, sociale, familiare. Per esempio si crede che un morto possa reincarnarsi nel figlio o in un parente. In questo modo si mantiene il potere perduto. Tuttavia, anche se l’identità sociale si difende con lo status quo, sono sempre possibili rovesciamenti in termini di forza. In secondo luogo, si usano metafore, si dicono parole che indicano cose diverse.

L’attore sociale può prendere un’iniziativa per affermarsi e per raggiungere un più di potere. Per esempio, uno stregone può produrre una diagnosi di una malattia non tanto per guarire ma per intervenire nell’organizzazione del sociale del clan. Oppure si interroga un cadavere ma le parole che si usano sono in realtà rivolte a chi ascolta per condizionare le scelte politiche.

In terzo luogo, alcuni riti invertono i ruoli. In questi riti di inversione si sovverte la logica dell’identità sociale. Vi sono i travestimenti sessuali, in cui un maschio si veste da donna. Oppure alla morte di un re, durante il rito funebre, alcuni schiavi prendono il potere: tra questi viene designato un nuovo re, appunto il suo doppio, che eccede nel suo potere, per colpire, minacciare, mangiare. Egli dice quello che pensa del vecchio potere. Però alla fine questo falso re deve essere sacrificato e messo a morte.

Come interpretare questa scena, nota fin dai primi studi di antropologia? Per i funzionalisti essa rappresenta una valvola di sfogo, una sorta di catarsi, come avviene in un baccanale che trasgredisce il potere. Secondo Augé però non è che una messa in scena del potere perché non esiste un altrove del potere, ma in realtà tale festa conferma il potere stesso. Il potere dà l’illusione di essere passivo, buono, non individuale, ideologico. C’è, all’apparenza, un feticismo del potere, una perversione, un’ambivalenza, ma in realtà esso è necessario ed è vissuto pienamente da tutti.

Il potere appare passivo, perché il popolo si identifica con il potere, esso appartiene e attraversa l’intera cultura. Anche il re ad esempio è costretto da vincoli, non può mai lasciare il villaggio, non ha diritto di lasciare il potere, deve sottostare ad una serie di investiture e di obblighi. Il potere è così, allo stesso tempo, immanente e trascendente. Il potere è anche ideologico nel senso che esso deve seguire tutta una serie di riti in cui si ripete l’atto sacrificale iniziale, il mito, per scongiurare le eventuali epidemie, guerre, rivolte. Il potere poi non è individuale, non dipende da un solo soggetto ma è legittimato e riconosciuto da tutti. È dovuto al re insediarsi, per discendenza, pertanto il potere non nasce e non muore, è eterno, si dà da sempre e per sempre. Scrive Augé: «Per evitare che il potere risulti scandaloso e insopportabile occorre che il capo sia immortale, sempre lo stesso (il re è morto, viva il re) oppure che il potere esista indipendentemente da coloro che lo esercitano».

Anche il cittadino contemporaneo segue degli obblighi rituali, è costretto a seguire dei comportamenti normativi. Anche lui ricorre ad una liturgia, segue feste sacre o profane, come nel caso di eventi sportivi, cittadini o nazionali: sacralizzazione della società. Quello che descriveva Durkheim per le società primitive sembra valga ancora oggi per noi: conformismo della condotta, azioni stereotipate, culto del corpo e della moda, culto e adorazione del sacro. Ma questa ideologia che ci pervade, viene interpretata a favore dei selvaggi come se essi fossero immuni da qualunque ideologia totalitaria e repressiva. In realtà, noi occidentali non abbiamo inventato l’individualismo come non abbiamo inventato il potere. Non abbiamo inventato il potere sulla vita né il potere di morte. Ogni potere è potere anche di vita. Ogni potere è totalitario, sia quello delle società primitive sia il nostro, perché ogni potere vuole sottomettere l’individuo alla società, il singolare al plurale, la parte al tutto. Per questo Augé è passato dall’etnologia africanista ad occuparsi della antropologia e della sociologia contemporanee.

Da questo punto di vista, non si può evitare di comprendere, nel momento in cui si studia il potere, lo spazio e il tempo, non tanto dal punto di vista dell’antropologo o dello storico, per relativizzare esternamente il processo diacronico o la posizione geografica, quanto dal fatto che i temi del potere sono riferibili proprio allo spazio e al tempo della cultura che studiamo: qual è la concezione del tempo e dello spazio in quella determinata cultura? Come si immagina il passato o il futuro? Come vivono e che cosa pensano gli abitanti di quello specifico territorio? Queste sarebbero le domande essenziali di un antropologo. Spazio e tempo sono categorie del potere: l’organizzazione del tempo e dello spazio ci dice molto di come pensa una determinata società.

Oggi lo spazio del potere, nella nostra società contemporanea, ci insegna Augé, è il non-luogo, una forma di potere postmoderna. Come nel Castello di Kafka, il potere sembra sparito, non si vede, si percepisce appena, ma non occuperebbe più nessuno spazio: deterritorializzato, virtuale. In realtà, il potere non è sparito, è semmai diventato invisibile, ubiquo. È proprio questo il gioco del potere nella società contemporanea: far credere di non essere più presente, minaccioso, necessario. E invece è lì dappertutto, che ti ascolta, ti osserva, ti condiziona, soprattutto se si frequentano i non luoghi del virtuale.

P.S.: Omaggio a Marc Augé per i novanta anni dalla sua nascita (2 settembre 1935 – 24 luglio 2023). Intervento originariamente presentato al convegno «L’insostenibile leggerezza della modernità. Gramsci, Bauman, Augé», organizzato dalla Società filosofica italiana, sezione di Prato, tenuto presso la biblioteca Lazzerini di Prato il 18 maggio 2017, con altri relatori presenti: Sergio Caruso e Giuseppe Panella, ai quali volgo un caro ricordo e ai quali dedico in memoria questo breve scritto.

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