Antonio Magliulo (1962) è professore ordinario di Storia del pensiero economico presso il Dipartimento di Scienze per l'Economia e l'Impresa dell'Università degli Studi di Firenze. Membro della European Society for the History of Economic Thought (ESHET) e della Associazione Italiana per la Storia del pensiero economico (AISPE). Fa parte anche dell’Editorial Board della rivista «History of Economic Thought and Policy». Oltre a numerosi articoli e saggi su riviste nazionali ed internazionali, tra le sue pubblicazioni più recenti: Il pensiero dei padri costituenti: Ezio Vanoni(Il Sole 24 Ore, Milano 2013); Gli economisti e la costruzione dell'Europa(Editrice Apes, Roma 2019); A History of European Economic Thought (Routledge, London 2022).
Il 19 agosto 1954 muore Alcide De Gasperi. Lo stesso giorno muore, di fatto, la Comunità Europea di Difesa (CED), l’istituzione che avrebbe dovuto rappresentare l’occasione storica per passare da un’integrazione puramente settoriale (economica o militare) ad una prima forma di unione politica democratica. De Gasperi, in un celebre discorso, la definì “l’occasione che passa”. Oggi viviamo tempi straordinari, dilaniati dalle guerre ma carichi di speranza. Molti attendono un contributo dall’Europa, che però è priva di una comune politica estera e di difesa.
In questo breve scritto vorrei provare a lanciare un’ipotesi suggestiva, nella speranza che qualcuno possa raccoglierla e tradurla in una concreta proposta politica. L’ipotesi è che l’occasione, che è passata, di avere una comune politica estera e di difesa potrebbe presentarsi di nuovo, proprio qui e ora. Prima è però necessario ricordare perché nel 1954 fallì la CED e perché settant’anni dopo non abbiamo ancora una compiuta Unione federale.
Il 25 giugno del 1950 le forze sovietiche della Corea del Nord invadono la Corea del Sud spingendo l’umanità verso il baratro di una terza guerra mondiale. Il 24 ottobre il Presidente francese René Pleven annuncia all’Assemblea nazionale l’intenzione di promuovere un esercito europeo. Nel successivo mese di febbraio, alla conferenza di Santa Margherita Ligure, il ministro degli esteri francese, Robert Schuman, ottiene il sostegno di De Gasperi al Piano Pleven che prevede un bilancio comune e un’autorità sovranazionale.
Il 26 febbraio 1951 viene convocata a Parigi una Conferenza per l’esercito europeo a cui partecipano Francia, Repubblica Federale di Germania, Belgio, Lussemburgo, Italia e, in un secondo tempo, Paesi Bassi. Alla Conferenza di Parigi emergono subito prevedibili difficoltà connesse alla necessità di reperire risorse comuni, ai poteri da attribuire all’Alta Autorità incaricata di gestire l’esercito e alla diffidenza, se non ostilità, degli americani. Il 27 luglio 1951 le delegazioni trasmettono ai rispettivi governi un rapporto provvisorio (Rapport intérimaire) in cui elencano le difficoltà e i progressi compiuti nel corso dei lavori. Nella stessa estate, Altiero Spinelli invia a De Gasperi un promemoria sul rapporto provvisorio in cui sostiene che tutti i problemi emersi a Parigi sono riconducibili ad un unico e originario problema: non è possibile avere un esercito comune se prima non si costituisce uno Stato federale europeo. Prima lo Stato, poi l’esercito. Scrive Spinelli: “È il Governo, e non il comandante militare, che stabilisce la politica estera, economica, fiscale, e che, in relazione a questa politica, determina quale sforzo militare deve essere fatto, quale deve essere il numero dei soldati, come devono essere adoperati”.
Il 9 ottobre il federalista Ivan Matteo Lombardo, che aveva sostituito Paolo Emilio Taviani alla guida della delegazione italiana a Parigi, presenta un promemoria che recepisce i suggerimenti di Spinelli. Lo stesso De Gasperi fa proprie, ma solo in parte, le tesi federaliste. In un celebre discorso pronunciato il 10 dicembre a Strasburgo davanti all’Assemblea del Consiglio d’Europa afferma che se i Paesi europei si limiteranno a costruire amministrazioni comuni, per gestire risorse energetiche o forze militari, senza dar vita a superiori istituzioni sovranazionali democratiche, le nuove generazioni finiranno per percepire la costruzione europea come uno strumento di imbarazzo e oppressione. Scrive De Gasperi: “Se noi costruiremo soltanto amministrazioni comuni, senza una volontà politica superiore vivificata da un organismo centrale, nel quale le volontà nazionali si incontrino, si precisino e si animino in una sintesi superiore – noi rischieremo che questa attività europea appaia, al confronto della vitalità nazionale particolare, senza calore, senza vita ideale”. E ancora: “le nuove generazioni … guarderebbero alla costruzione europea come ad uno strumento di imbarazzo ed oppressione”.
Il 23 maggio 1952 viene firmato il trattato istitutivo della CED. Nelle trattative De Gasperi riesce a far approvare un articolo speciale, l’art. 38, che affida all’Assemblea della CED un mandato precostituente, preludio alla stesura, terminata nel marzo del 1953, di un progetto di Statuto istitutivo di una Comunità politica europea. De Gasperi si spende, letteralmente, fino all’ultimo giorno di vita, il 19 agosto 1954, per salvare la CED ma ogni tentativo risulta vano e il 30 dello stesso mese l’Assemblea nazionale francese approva una mozione preliminare che blocca l’approvazione del trattato. La CED muore, prima ancora di nascere, per mano dei nazionalisti francesi di destra e di sinistra. Paolo Emilio Taviani, uno dei protagonisti di quelle giornate, ricorda l’esito del voto: “Subito dopo – mentre grida e invettive si levavano da ogni parte – i comunisti in piedi intonarono la Marsigliese; al canto si associarono, in posizione di attenti, i deputati dell’estrema destra”.
La CED, nelle intenzioni dei padri fondatori, avrebbe dovuto costituire l’occasione storica per salire al primo piano dell’unione politica democratica. Ma, già l’anno dopo il fallimento, nel 1955, inizia il cosiddetto rilancio europeo con la Conferenza di Messina. I Sei riprendono il cammino della progressiva integrazione economica, teorizzato dai funzionalisti, nella prospettiva, come recitano i trattati, di una “unione sempre più stretta tra i popoli europei” e in attesa di giungere ad una Unione politica federale.
Gli ultimi settant’anni sono costellati da successi e errori. Tra i primi possiamo annoverare la costruzione di un mercato comune e di una moneta unica e, tra i secondi, la bocciatura del trattato costituzionale nel 2005 e la mancata solidarietà a Paesi fragili come la Grecia in occasione della Grande Recessione del 2008. Gli ultimi settant’anni sono caratterizzati anche, se non soprattutto, dalla crescente difficoltà a conciliare due obiettivi ugualmente desiderabili: da un lato l’allargamento ad altri Paesi e dall’altro il rafforzamento della governance. L’Europa è passata da 6 a 27 Paesi membri. Dispone di una comune politica monetaria e a difesa del mercato concorrenziale. Ma non ha né una comune o centralizzata politica fiscale e industriale né una comune o centralizzata politica estera e di difesa. Perché? Per una serie di ragioni che qui non è possibile indagare e che attengono all’approccio funzionalista o gradualista che ha ispirato la costruzione europea. Tra queste ragioni c’è il fatto, condivisibile, che, in conformità al principio di sussidiarietà, si è voluto evitare ogni ingiustificato accentramento del potere a livello sovranazionale e anche la difficoltà ad attuare una governance unitaria tra 27 Paesi segnati da profonde diversità economiche e culturali.
Il disegno o l’auspicio dei padri fondatori era che, un giorno, tutti i Paesi membri potessero accedere all’Unione politica federale. Oggi sembra farsi strada un disegno diverso. Si prende atto che non è realistico pensare ad un’Unione federale tra 27 Stati membri e si ipotizzano tre distinti livelli di integrazione: un cerchio più grande che addirittura comprende i 45 Paesi che attualmente aderiscono alla Comunità Politica Europea lanciata pochi anni fa dal Presidente francese Emmanuel Macron, uno più piccolo che sostanzialmente coincide con i 27 che condividono (o condivideranno) mercato e moneta e, infine, un nucleo ristretto che dovrebbe dare vita ad una compiuta Unione federale in grado di gestire un’unica o unitaria politica fiscale, industriale, estera e di difesa. Ed è questa la sfida più grande. Nella logica dei trattati vi sarebbe la possibilità di ricorrere alla cosiddetta cooperazione rafforzata, che però richiede l’intesa tra almeno 9 Stati membri, e nell’attuale quadro politico non si vede quali potrebbero essere.
L’ipotesi suggestiva che lancio, nella speranza che qualcuno possa tradurla in una concreta proposta politica, è la seguente. Vi sono 7 Paesi membri dell’Unione Europea che conservano ancora, e non sappiamo per quanto, un orientamento prevalentemente europeista. Cinque sono Paesi fondatori – Francia, Italia, Germania, Belgio e Lussemburgo – e due – Spagna e Polonia – sono rappresentativi dei due polmoni, per usare un’espressione di Giovanni Paolo II, con cui respira l’intera Europa. Sottoscrivano un nuovo e speciale trattato dando vita ad una compiuta Unione federale lasciando aperta la porta a quanti volessero accedervi e nel rispetto degli altri trattati europei.
L’occasione di completare la casa comune europea passa di nuovo, ma occorre saperla cogliere.
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