Gianfranco Andorno (1937), da bambino ha vissuto a Genova i tragici eventi della guerra, che ricorda intensamente. Giovanissimo vanta articoli su “Il Borghese” di Leo Longanesi. Conserva una lettera di Gianna Preda che si complimenta e lo incoraggia.  Poi si adegua ai dettami delle avanguardie e partecipa al “funerale” della parola scritta. Opta per le immagini che ritiene più immediate: la fotografia (Popular Photografy ecc.) e la pittura (Flash Art). Mostre a Milano 1998, Art Innsbruck 1999. Infine, ha un ripensamento e ritorna alla scrittura. Con il primo libro Le stagioni dell’inganno raccoglie il Fiorino d’Oro a Firenze. Altri libri premiati: Prima che il buio(Cinque Terre Golfo dei Poeti); Il falò dell’io (terzo premio Lord Byron Porto Venere 2022). Il suo slogan è: “Scrivo storie che non sono storie”.

 

Un gruppo di operai del Consiglio di fabbrica siede al tavolo del direttore della Fiat. Cosa è accaduto? Una rivoluzione o è soltanto il riverbero di quella russa? Siamo nel dopoguerra e il consenso per il partito socialista dilaga nel Paese. Ha migliaia di cooperative, duemila sezioni. La FIOM (Federazione Italiana Lavoratori Metallurgici) nel febbraio del 1919 ottiene l’orario delle otto ore quotidiane. Una grande conquista ma il Paese è in ebollizione.

La folla dei congedati non trova a casa gli applausi che si meritava, qui regnano gli imboscati. Coloro che hanno fatto la guerra in pantofole, guadagni speculando su chi stava al fronte. I combattenti che ancora puzzano di trincea si sentono disprezzati, il loro sacrificio ignorato. Il famoso malcontento dei reduci che diventerà un’arma. Una voce stentorea si leverà: «Arditi! Io vi ho difeso quando il vigliacco filisteo vi diffamava».

Ci sono saccheggi di negozi contro il carovita, i bottegai vengono accusati di nascondere le merci. Espropri proletari ante litteram. Nei campi la Cavalleria assicura la mietitura fatta dai crumiri. Ci sono le mucche descritte da Guareschi che non munte muggiscono, si lamentano. Pervade l’eco della grande avventura di D’Annunzio a Fiume, in nome della pace mutilata.

Nel giugno del 1920 ad Ancona i Bersaglieri rifiutano l’imbarco per l’Albania. Si impossessano della caserma e delle armi. La rivolta si allarga, ha il consenso e la partecipazione dei socialisti, degli anarchici. Proprio ad Ancona il 7 giugno del 1914 i carabinieri, reagendo a degli spari, hanno  ucciso 3 manifestanti repubblicani e questo ha dato origine alla famosa settimana rossa, un’insurrezione che si era  propagata in tutto il Paese. Per porre fine alla sommossa dei Bersaglieri la città sarà bombardata da 5 cacciatorpediniere inviate e con l’intervento di due battaglioni di carabinieri.

Lo stillicidio degli scioperi frantuma ogni attività. I fascisti si improvvisano spazzini, fanno funzionare i tram che sono fasciati con il tricolore. Si mobilitano contro i disagi procurati per amicarsi la gente. Gli  appartenenti alla piccola borghesia sono esasperati e auspicano  la tranquillità smarrita. Una massa apparentemente amorfa che subisce ma decide. Una maggioranza silenziosa che emerge, emergerà negli anni, quando c’è in ballo la sua estinzione. Un po’ lenona con i suoi protettori e non avrà riconoscenza per colui che li ha salvati dal terrore rosso.

Il 17 agosto la Fiom invita gli operai allo sciopero bianco. Gli industriali minacciano la serrata. Il 30 agosto la Direzione dell’Alfa Romeo la attua. La Fiom ordina ai tesserati di occupare le fabbriche. Il movimento si allarga in tutta Italia, la bandiera rossa sventola sulle ciminiere, sui comignoli. Davanti ai cancelli ci sono i cavalli di frisia, il filo spinato. All’ingresso le guardie rosse con elmetto e armate di moschetto vigilano. Gli operai sono oltre 400.000. All’Ansaldo di Genova viene messa una vistosa insegna: Stabilimento Comunista. Nelle fabbriche vige la disciplina: sono vietate le bevande alcoliche. Gli operai all’uscita sono perquisiti ad evitare furti.

Gli industriali chiedono al governo l’intervento dell’esercito per liberare gli stabilimenti. Quando gli chiedono di sgomberare la Fiat Giolitti risponde: «Bene, darò ordine di bombardarla». Questo per evidenziare l’assurdità della richiesta. Giolitti si affida al suo buonsenso piemontese, tergiversa. Esaurite le scorte dei materiali come potranno gli operai continuare le produzioni? Nel contempo non avrebbero danneggiato gli impianti necessari al loro lavoro futuro. Smaltito l’entusiasmo avrebbero compreso l’impiccio nel quale si erano cacciati.  Si sarebbero acquietati e i loro capi cercato un accordo. Forte di queste supposizioni si reca all’estero per rassicurare gli altri Stati che il Paese è normale.

A complicare il contesto si inserisce l’inghippo di notevoli quantità di armi nelle fabbriche. Nella Fiat ci sono delle mitragliatrici. Chi le ha portate? Le forze sovversive o gli industriali per aggravare la situazione? Molto probabilmente c’erano.

Anche i cattolici del partito popolare di Don Sturzo fanno gli intransigenti: «La terra ai contadini se il proprietario la trascura». E alle elezioni, facendo dispetto al Vaticano, aiutano il blocco anticlericale.  Giolitti ammonisce: «Se il Vaticano si lascia dominare da don Sturzo deve prepararsi a tempi difficili».

Agnelli, pragmatista, si impegna per un armistizio, una pacificazione. Propone di fare della Fiat una cooperativa, se gli organismi operai accetteranno. Gramsci è negativo: «C’è il rischio di inficiare lo slancio rivoluzionario e creare uno spirito corporativo».  La risposta sul fascicolo “Comunismo”: «Un no deciso ed assoluto».

Quanto previsto da Giolitti si avvera. Da un diario degli occupanti: «Il 16 e il 18 si notò l’assenza di molti operai. Quasi nessuno lavorava. Stanchezza e scoraggiamento. Mancavano gli impiegati, i tecnici. Si vedeva delinearsi la nostra sconfitta».

E la rivoluzione? Il 10 settembre si tiene un convegno, sempre a Milano. La CGL si defila da possibili sviluppi rivoluzionari proponendo il controllo sindacale e migliorie salariali. I massimalisti non debordano  e così  con l’o.d.g. di Bucco si vota se fare o meno la rivoluzione. Alla luce del sole: borghesia, governo, polizia ed esercito lo sanno. Un evento assurdo, ridicolo. Votano tutti? No. Non possono farlo i ferrovieri, i portuali, i marittimi e l’Usi, i sindacalisti rivoluzionari. Esito: per 181.676 voti la rivoluzione non si farà. La rivoluzione è respinta a maggioranza.

L’epitaffio lo scrive Tasca: «Il movimento operaio è ormai un cadavere che i becchini fascisti spazzeranno». E Malatesta, il gran capo anarchico: «Siete gli eunuchi della rivoluzione e del socialismo. Il proletariato vi bollerà come sciacalli infami». Si ricorda Saint-Just: «Chi fa la rivoluzione a metà, si scava la fossa». Il mito della rivoluzione si rivela  un placebo somministrato  a sopportare lo sfruttamento, la sottomissione.

Il partito socialista e i sindacalisti assillanti predicatori della rivoluzione imminente abbandonano gli operai asserragliati al loro destino.  Il partito è in mano all’amletico Serrati. Lenin lo definisce: «un miscuglio di straccioneria piccolo-borghese e di furfanteria di politicante».

Il primo ottobre 1920 dopo vari incontri l’accordo tra industriali e operai metallurgici viene firmato a Milano e gli operai si ritirano. «Idealisti e sognatori di una rivoluzione impossibile. Hanno abbaiato contro la borghesia ma non hanno morso», il rimprovero.  Gli industriali odiano Giolitti che li ha costretti all’accordo e non ha cacciato gli operai con i soldati.

C‘è un de profundis aulico e solenne dell’occupazione. «Gli industriali venuti a riprendersi la fabbrica vengono accolti da un urlo possente: Evviva i Soviet! Gli industriali lividi passano tra due fila di guardie rosse…». Serrati impavido scrive: «È stato violato il principio della sacra proprietà privata… Ora i padroni si arrendono. Chinano la fronte senza compiere rappresaglie».

In effetti gli operai raccolgono le famose pive nel sacco. Avranno  qualche aumento salariale. Gli altri impegni, la partecipazione dei consigli alla conduzione, il controllo, resteranno sulla carta. I Consigli di Fabbrica, cellule dello Stato Operaio,  svolgono la loro funzione di sentinelle  solo nelle pagine utopiche dell’“Ordine Nuovo” di Gramsci. Togliatti mette in guardia: «Il controllo di classe non può alimentare forme equivoche di collaborazione». Non ci sarà, non ci sarà! La Camera non approverà mai il progetto di controllo operaio nelle fabbriche.

L’occupazione  è la riprova che in un modo o nell’altro il Paese non finirà mai in mano ai rossi. L’aumento di salario di 4 lire al giorno, la retribuzione delle giornate di ostr»uzione e altri miglioramenti sono il paravento a nascondere la sconfitta del movimento operaio.

Cala il sipario e Giolitti esprime in Senato i suoi ringraziamenti alla CGL per aver agito in modo responsabile, cioè aver fatto da pompiere. Il suo segretario, D’Aragona, è un estremista demagogico nelle parole ma riformista nei fatti.

Nessuno si esime dal commentare l’accaduto. Mussolini: «In questo settembre si è svolta una grande rivoluzione». Ma aveva compreso il suo fallimento e allora: «Non si deve mandare a picco la nave borghese». I messaggi minacciosi ai padroni («Padron che qui stai se l’avido fai per te son guai») scompaiono. Gramsci definì il culmine del biennio rosso come “la grande paura”. E il socialista di Predappio assunse l’incarico del ritorno all’ordine, naturalmente con un prezzo da pagare che avrebbe intascato. Anche lui è una vittima dell’occupazione, ha compreso che la rivoluzione non si farà. Abbandona i suoi stimoli socialisti, barricadieri soreliani, e sposa la borghesia esacerbata, impaurita. De Felice lo suggerisce, lo adombra.

Dopo 100 anni e più le fabbriche come stanno? Come vecchie signore  hanno perduto il loro fascino. Un reliquario di mura diroccate, permeate intrise della gioventù lì dentro oblata.  Un tempo per la nazione che le vantava erano orgoglio e lustro ora una vergogna. Per l’isterica politica green di una élite di Bruxelles la fabbrica è peccato. Dev’essere lasciata ai paesi sottosviluppati. E coltivare è considerato uno stupro antropico alla terra. Insomma chi lavora è colpevole, deturpa il Pianeta. Una élite che rappresenta una goccia del mondo ma pretende di fare da mosca cocchiera a tutto il globo.

Confidiamo che la maggioranza silenziosa si renda conto dell’omicidio che stanno commettendo. Uccidono l’Homo Faber per sostituirlo con un inerme Ecce Homo, al quale hanno strappato le tradizioni, il fare e il suo canto libero.

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