Katiuscia Vammacigna, nata e cresciuta a Brindisi, si laurea in Filosofia a Lecce, specializzandosi a Parma, dove insegna per diversi anni. Tornata a Brindisi, si dedica a passioni quali scrittura, teatro, filosofia. Frequenta corsi di scrittura creativa e partecipa a diversi concorsi letterari. Nel 2018 si classifica seconda nel concorso letterario Verso l’altro, promosso dall’associazione Jonathan di Brindisi, con il racconto La mia terra non ha nome. Sempre nel 2018 riceve una menzione di merito per il Premio Letterario Nazionale Città di Mesagne con il racconto Odore di salsedine su Tunisi. Si definisce ironica, appassionata e curiosa di indagare ancora sè stessa e il mondo attraverso la scrittura.

Recensione a: I. Kadare, Il palazzo dei sogni, La nave di Teseo, Milano 2023, pp. 218, € 20,00.

Attraverso la scrittura evocativa di Ismail Kadare, Il palazzo dei sogni appare al lettore una magnifica metafora che, in una sorta di catarsi poetica, descrive l’orrore degli anni di clausura totalitaria che ha dominato il suo paese d’origine, l’Albania.

«Il Tabir Saraj, o Palazzo dei Sogni […] è infatti una delle principali istituzioni dello Stato imperiale» (p. 19), il cui principio non è l’apertura, ma la chiusura, non è la libertà, ma il controllo. Con una narrazione limpida Kadare ci conduce nei corridoi lunghi e bui del palazzo dove si affacciano «decine di porte alte e non numerate» (p. 11), un labirinto senza via d’uscita, dove gli sguardi dei funzionari appaiono ipnotizzati e i movimenti lenti e ripetitivi. È il luogo dove tutti camminano «nella stessa direzione» (p. 31) e dove mani, occhi e menti diventano prigionieri di fascicoli contenenti i sogni di tutti i popoli, di tutti i tempi. Sogni che, per definizione, dovrebbero, invece, essere incontrollati e liberi. Ma la libertà è schiava, dentro e fuori dal palazzo:

Il ruolo del […] Palazzo dei sogni consiste nel classificare ed esaminare […] la totalità dei sogni dei cittadini, con il dovere di scoprire dove si è posato il sogno […] [perché la sua interpretazione], può contribuire a prevenire l’infelicità del paese e del suo sovrano (p. 20).

In una dimensione che richiama sia i grandi romanzi distopici che le tragedie greche, Kadare solleva persino le più antiche questioni filosofiche sulla distinzione tra realtà e sogno, tra verità e inganno. Ci si chiede, ad esempio: «Chi può dire che ad essere distorto non sia quello che vediamo noi ad occhi aperti e che al contrario ciò che è descritto qui [nel Palazzo], non sia la vera essenza delle cose?» (p. 144). Prigioniero dei sogni, della libertà e di se stesso, appare anche il protagonista del romanzo, Mark-Alem, un giovane di origine albanese, appartenente all’illustre famiglia dei Qyprillinj, legata all’Impero turco e al Sultano che detiene il potere sul Palazzo dei sogni e sul destino dei suoi sudditi. Egli viene assunto nel settore della Selezione, dove avviene la prima minuziosa cernita dei sogni. Ma è l’Interpretazione il «centro nevralgico dell’edificio» (p. 34). Al vertice vi è la sezione del «Sogno-Guida o Arcisogno» (p. 37), il sogno più importante, perché può incidere sulle sorti dello Stato e, perciò, viene inviato regolarmente al Sultano. Nella narrazione si intrecciano le vicende che coinvolgono la famiglia di Mark-Alem e dei Qyprillinj e le vicende che accadono all’interno del Palazzo, in cui il protagonista svolge un lavoro che non ha scelto, costretto a scovare sogni racchiusi in enormi fascicoli, per i quali da un lato prova repulsione e, dall’altro, quasi la stessa attrazione che ha l’amante per l’oggetto amato.

La coscienza del protagonista è più volte sorpresa da un attacco di ribellione per quel lavoro infernale, ma ben presto il suo corpo e la sua mente subiscono lenti cambiamenti, come un metallo deformato da un ferro rovente: «Tutto nel suo essere, sembrava aver subito una trasformazione» (p. 74). E così Mark-Alem non riesce più distinguere se è sveglio o se sta dormendo. Dov’è la verità, dov’è la menzogna? Dentro o fuori dal Palazzo? A queste domande sembra dare una risposta il suo zio prediletto, il giovane visir Kurt Qyprillinj, durante una cena organizzata da suo zio maggiore, il grande visir. La famiglia dei Qyprillinj aveva origini albanesi e da sempre era al servizio dell’impero ottomano e nonostante «i colpi inferti dal sovrano» (p. 59), lo servivano fedelmente.

«Di tutti i meccanismi dello Stato, il Palazzo dei Sogni, è quello più estraneo alla volontà umana […], il più fatale […] e proprio per questo, il più statale» (p. 63), sostiene il giovane Kurt. «Le moltitudini non governano ma hanno una certa responsabilità nei crimini dello Stato e quindi del Tabir Saraj», conclude. L’analisi lucida del giovane Kurt mette in luce come all’interno dell’illogicità «del mondo così com’è, [la logica del Palazzo dei sogni] è perfettamente normale» (p. 64), quasi a voler sottolineare come il controllo totale sia stato normalizzato e istituzionalizzato dietro le ingannevoli vesti di un edificio dorato, il cui compito è isolare ogni scintilla di idee sovversive, attraverso un logorante processo di desensibilizzazione, un «desogno che priva il cervello della libertà di sognare». Lo stesso protagonista si ritrova così a lottare con le sue scintille di idee sovversive, reprimendole, respingendo i colori del mondo e della vita e preferendo ripararsi laggiù, nei suoi fascicoli, dove tutto appare più bello, pieno di fantasia, più vivo. «Quanto appariva incatenato […] questo mondo rispetto all’altro che lui serviva» (p. 122).

Il mondo racchiuso nel Palazzo cominciava a sembrargli un mondo vero, meno orribile, più giusto. Bastava chiudere gli occhi e non farsi vincere dall’insonnia che tiene svegli. Era stato il gran visir, suo zio maggiore, a fargli comprendere che doveva tenere gli occhi aperti, nel Tabir Saraj, perché la famiglia dei Qyprillinj aveva sempre avuto a che fare con Sogni-Guida che ne avevano decretato la mala sorte. Non aveva però saputo cogliere l’avvertimento ed era rimasto «nel limbo tra i due mondi» (p. 133). Mark-Alem sembra così scegliere di obbedire alla logica e alle leggi del Tabir Saraj. «Chi può dire che a essere distorto non sia quello che vediamo noi a occhi aperti?» (p.144) e che il Palazzo dove riposava tutto il sonno del mondo, non rappresentava la vera essenza delle cose? Ma i semi della dissidenza erano in attesa di germogliare e vengono presto resi fertili, durante una cena organizzata dal gran visir, dalla voce di un cantastorie, il cui canto, alle orecchie di Mark-Alem, sembrò «il lamento secolare» (p. 122) della nazione a cui apparteneva: esso urlava la propria disperazione e incitava al risveglio collettivo.

Quel canto dissidente, tanto evocato dal giovane Kurt, sarà represso nel sangue, con l’uccisione dei cantastorie da parte della Polizia del Sovrano e con la condanna a morte del giovane visir. Anche questa volta un Sogno-Guida, il cui significato Mark-Alem non aveva saputo o voluto decifrare, aveva decretato il destino della sua famiglia. La musica e il poema epico avevano urlato il dolore dell’Albania contro lo Stato totalitario e quell’urlo ora logorava di rimorso il cuore di Mark-Alem. Ci furono arresti e uccisioni. Ma il nostro giovane protagonista continuava a identificarsi nei gesti uniformanti degli alti funzionari del Palazzo dei Sogni, come se nulla fosse accaduto. Il massacro dei cantastorie e la repressione del lamento secolare dell’Albania diventa nella scrittura abile di Kadare una nuova metafora dei prodromi del risveglio della Primavera albanese che sta per arrivare. Il paese era in preda ad una forte insonnia: non c’erano più sogni da selezionare, interpretare, controllare. E questo indeboliva lo Stato, quindi il Tabir Saraj.

Per l’insonnia che aveva colpito l’Albania era stato richiesto un rapporto speciale a cui lo stesso Mark-Alem doveva lavorare, con il compito di consegnare al Sovrano quel che custodiva il sonno del pianeta. Si avvicinava la nuova stagione e si annunciava piena di tensioni per il Palazzo dei sogni. Mark-Alem sembrava non accorgersi ancora dell’arrivo della Primavera e continuava a tenere gli occhi chiusi. E così, in un tardo pomeriggio di marzo, concluso il rapporto, lo consegnò e tornò a casa, come sempre, in carrozza. Ma qualcosa nel corpo e nella mente del giovane stava cambiando. Per la prima volta non si era rifugiato nell’angolo della carrozza, tenendo le tende chiuse e ignorando il mondo fuori, per proteggersi dai colori e dalla luce. Quel pomeriggio di inizio primavera, i semi fuori e dentro di lui, avevano cominciato a germogliare. Trovò il coraggio di guardare fuori, rompendo così l’incantesimo del Tabir Saraj. Mark-Alem aveva deciso di restare sveglio. E cominciò ad ammirare, con sguardo lucido e aperto, i mandorli in fiore, scegliendo un tenero ramo di mandorlo, da posare sulla sua tomba per poter morire, finalmente, da uomo libero.

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