Mirko Denza (1982) ha studiato Giurisprudenza presso l’Università di Napoli Federico II discutendo una tesi in Diritto Penale dal titolo Organo verticistico e associazione mafiosa (relatore Vincenzo Patalano – Correlatore Francesco Marco De Martino). Successivamente ha conseguito la laurea magistrale in Scienze Storiche discutendo una tesi dal titolo L’effimero nella cultura italiana: il suo racconto attraverso i media (1977-1985). Ha partecipato a diversi Premi letterari nella categoria racconti inediti: segnalazione Premio Internazionale “Michelangelo Buonarroti” 4° Edizione, finalista Premio Internazionale “Michelangelo Buonarroti” 5 ° Edizione, vincitore Premio letterario Sulmona “Parole in giallo” edizione 2018 nella categoria raccolta di racconti inediti.

Recensione a: C. Baldoli, L. Petrella, Aventino: storia di un’opposizione al regime, Carocci, Roma, 2024, pp. 266, € 26,00.

Il tema affrontato in questo lavoro immerge il lettore nelle dinamiche politiche e sociali che hanno portato all’affermazione del regime mussoliniano. L’Italia del 1922 è, come noto, fragile dal punto di vista istituzionale in quanto sono evidenti i vuoti di consenso che, oramai, affliggono i partiti protagonisti dell’epoca liberale. La paura della “guerra civile” ristagna ancora nelle classi sociali preoccupate nel ricevere dalle istituzioni un quadro ordinato e certo.

Invero, come affermato dalla gran parte degli storici, l’incertezza è l’unico punto fermo in una situazione politica del tutto priva di un orizzonte programmatico che possa riordinare il caos dell’ultimo biennio. Oramai la violenza portata avanti dalle squadre nere del primo fascismo ha ridotto in brandelli ogni forma di opposizione politica ed istituzionale. La stampa ed i giornali dell’area di sinistra sono presi di mira dagli squadroni fascisti.

La frattura del 1921 all’interno della famiglia socialista, che diede vita al Pcd’i, rappresenta un ulteriore tassello che inesorabilmente favorisce o quantomeno non ostacola degnamente l’avanzata del potere mussoliniano. La presa del potere avviene nei modi tipici di un movimento reazionario che pone al centro della sua azione la violenza cieca e prevaricatrice.

Con la marcia su Roma, per qualcuno un “silente” colpo di Stato, Mussolini riceve l’incarico di Presidente del Consiglio dei Ministri dal sovrano Vittorio Emanuele III. I poteri forti, quale la Monarchia e l’esercito, non oppongono alcuna reazione, né il sovrano acconsente di firmare lo “stato d’assedio” che avrebbe innescato l’intervento delle forze militari per ripristinare l’ordine pubblico.

Il fascismo entra nelle stanze del potere con la “benedizione” del sovrano senza scardinare l’intelaiatura istituzionale e senza forzare le regole del gioco. Come sottolineano gli autori del libro le forze economiche della borghesia italiana sperano che Mussolini “normalizzi” la violenza squadrista vista in azione. Invero i fatti di Roma e di Torino, accaduti subito dopo la formazione del primo governo mussoliniano, dimostrano che la condotta violenta del fascismo delle origini non viene abbandonata, prova ne è la persecuzione contro socialisti e comunisti.

In questo contesto prende forma la narrazione dei fatti che portarono ad una scelta coraggiosa, quale quella della secessione parlamentare, che per alcuni (anche i protagonisti di quella vicenda) non era da percorrere in ragione di una decisione che doveva assumere i connotati di una vera e propria forza rivoluzionaria. Mussolini da un lato voleva imporre sin da subito una visione totalitaria, nella quale il PNF doveva svuotare dall’interno le istituzioni per giungere ad una piena identificazione tra Stato e fascismo, dall’altro voleva rincuorare i centri di potere moderati, quali appunto la monarchia e le forze liberali e democratico-costituzionali che si mostravano sensibili agli equilibri istituzionali sanciti dallo Statuto.

Turati, esponente del partito socialista unitario, don Sturzo del partito popolare, Amendola, Gramsci e naturalmente Matteotti sono le voci che si levano per denunciare l’illegalità del nuovo Governo. Mussolini, sin dal suo primo discorso, dimostra di voler depotenziare del tutto il Parlamento e per questo adotta la strada della decretazione d’urgenza.

Un passo decisivo è l’approvazione della legge Acerbo, ossia viene cambiato il sistema elettorale che da proporzionale passa ad un maggioritario “forte” in cui la lista che ottiene più voti si aggiudica i due terzi dei seggi parlamentari. L’approvazione della legge avviene in un clima surreale, la milizia fascista (istituita da poco) entra di fatto all’interno del Parlamento e le opposizioni si ritrovano fortemente limitate nella loro azione di contrasto.

Oramai è il tramonto della democrazia parlamentare. L’esito delle elezioni mostrano una schiacciante affermazione della lista fascista anche se, come viene rilevato nel lavoro, in alcune zone del paese le opposizioni ottengono più voti. Il discorso di Matteotti del 30 maggio 1924 rappresenta l’ultimo atto di forte critica al governo mussoliniano all’interno di un contradditorio parlamentare che oramai era del tutto svuotato di una sua vera incidenza. Il deputato denuncia le violenze fasciste e l’impossibilità da parte delle liste di opposizione di esercitare una fisiologica campagna elettorale.

La tensione vissuta dai parlamentari delle opposizioni, soprattutto nei mesi precedenti alle elezioni, spinge ad intraprendere la strada dell’abbandono della Camera la quale, con il rapimento e l’uccisione di Matteotti, diventa il vero collante emotivo delle forze che si opponevano ad un governo che oramai stava eliminando gli ultimi brandelli di legalità. Nei primissimi giorni dopo il rapimento le opposizioni decidono di abbandonare i lavori della Camera fino a quando il Governo non avrebbe dato un forte segnale volto a fare chiarezza su una vicenda i cui connotati di mistero e violenza erano già noti come marchio di fabbrica del fascismo.

In questi momenti la strategia di contrasto a Mussolini assume una prima forma embrionale di organizzazione con l’istituzione di un comitato ristretto di deputati chiamati a seguire da vicino la vicenda Matteotti. Gli autori del libro evidenziano il formarsi di una piccola frattura all’interno del granitico consenso raccolto attorno alla figura del Duce. Mussolini viene descritto come isolato e fortemente preoccupato di fronte ad un percettibile affievolimento di quel “calore” che il popolo gli tributava ogni giorno. Per alcuni commentatori, anche dell’epoca, in quelle giornate si poteva osare, ossia vi era la possibilità di allineare il consenso popolare per far cadere il Governo. Secondo altri protagonisti, come lo stesso Gramsci, Mussolini aveva ben saldo nelle sue mani il potere grazie anche al blocco moderato-borghese, costituito dalle forze militari e dalle forze politiche ed imprenditoriali di area liberale. Di fronte alla palese responsabilità di Mussolini come “mandante” del rapimento di Matteotti, i deputati comunisti e Nenni del partito socialista propongono di indire uno sciopero generale contro il Governo con ciò volendo spostare la battaglia nelle strade e nelle piazze. Le altre forze di opposizione tentennano, si mostrano timorose ipotizzando l’innescarsi di una risposta reazionaria e violenta oltre a ritenere che l’opinione pubblica non avrebbe solidarizzato con l’iniziativa in ragione del fresco ricordo del caos provocato durante il “biennio rosso”.

Su questo punto gli autori del saggio attribuiscono l’incertezza del partito socialista ad un ben radicato convincimento di stampo pacifista già dimostrato con la scelta non interventista durante il primo conflitto mondiale e ad una sottovalutazione della forza del fascismo. La rottura all’interno delle forze di opposizione si consuma con la ferma volontà dei comunisti di non voler abbandonare la scelta dello sciopero generale. La commemorazione del rapimento di Matteotti diventa occasione di divergenze all’interno del comitato delle opposizioni: Turati presenta una bozza di un ordine del giorno in cui vengono chieste le dimissioni di Mussolini, lo scioglimento della milizia, la formazione di un nuovo esecutivo e la messa in stato di accusa della compagine governativa mussoliniana. Tale impostazione viene considerata da alcuni come eccessiva in ragione di una ben radicata speranza che vedeva nel lavoro della stampa di opposizione il grimaldello che avrebbe scardinato il muro del fascismo.

I deputati di opposizione leggono al Parlamento un testo in cui ribadiscono la scelta di non partecipare ai lavori e chiedono la sostituzione del Governo con un ministero incaricato di ripristinare la legalità. I comunisti, invece, organizzano una commemorazione sul posto in cui si è consumato il rapimento di Matteotti. La reazione del sovrano, invitato dalle forze di opposizione a decretare le dimissioni di Mussolini, delude le aspettative e rinfocola l’odio verso la monarchia nelle fila di quei partiti che, per compattare le forze all’interno del blocco antifascista, avevano accantonato la questione istituzionale. Durante quelle giornate in Parlamento si consuma un atto di forte accusa rivolto contro Mussolini portato avanti da alcuni esponenti come Albertini, direttore del “Corriere della Sera”.

La risposta del Duce arriva immediata: viene rinforzato il potere dei prefetti sulla possibilità di sequestrare i giornali ostili e la milizia viene inquadrata all’interno delle forze armate con ciò acquisendo una veste di “legalità”. La stampa d’opposizione e le forze politiche non si fermano. A Napoli i popolari e gli altri partiti d’opposizione (esclusi i comunisti) organizzano un’assemblea. La violenza dei fascisti, rinforzata dall’intervento della milizia richiesto dal prefetto del posto, si scatena provocando feriti, morti e devastazioni in molti quartieri della città. Turati è convinto che l’opposizione debba fare un passo in avanti sul fronte dell’organizzazione: è necessario un comitato permanente a Roma e delle federazioni sparse sul territorio nazionale.

Il fronte aventiniano cerca di spronare i rappresentanti dell’industria al fine di corrodere il consenso mussoliniano: Amendola, esponente vicino al mondo liberal-imprenditoriale, ed Albertini tentano di portare avanti questa strategia. In particolare Albertini chiede all’economista liberale Einaudi di affrontare la questione sulle pagine del “Corriere della Sera” con un articolo in cui veniva chiesto un cambio di passo alla categoria ritenuta troppo passiva di fronte alle violenze perpetrate dalla compagine fascista. Tale tentativo, come ricordano gli autori, non trova sponda tra gli imprenditori i quali rivendicano solo la presenza di uno “Stato forte” che possa far rispettare la legalità.

Nel frattempo, dopo i fatti del rapimento e del ritrovamento dei resti di Matteotti, Mussolini decide di riprendere con forza l’atteggiamento violento contro le opposizioni che, ad inizio settembre del 1924, votano un ordine del giorno in cui viene espressa una diretta condanna verso i soprusi del Governo. All’interno del blocco delle opposizioni emerge sempre più nitida la leadership di Amendola il quale era ancora convinto che il consenso al fascismo e la caduta del governo potessero avvenire mediante soluzioni istituzionali e non connotate da evocazioni rivoluzionarie. Tale convincimento era legato anche alla situazione che si stava delineando all’interno del partito liberale che, a seguito del congresso di Livorno, espresse posizioni in linea con la strategia aventiniana. Tale cambiamento però venne soffocato dal fatto che quanto deciso veniva destinato alle forze parlamentari per il processo di attuazione, deputati liberali che, anche in presenza di qualche malcontento, erano posizionati all’interno della compagine governativa e sostenevano la maggioranza.

Anche all’interno del Senato, durante l’autunno del 1924, sembra affacciarsi una critica al governo con i discorsi portati avanti da tre ex esponenti delle forze armate i quali pongono al centro della questione la necessità di “normalizzare” la milizia fascista, corpo di polizia che viene descritto come privo di ogni rispetto della disciplina militare, espressione del più becero affarismo specie tra gli ufficiali, completamente libero nell’accesso al possesso e all’uso delle armi (che venivano custodite anche nelle singole case dei militi). Mussolini si ritrova stretto in una morsa: da un lato la propaganda antifascista e le campagne di stampa volte a svelare il coinvolgimento del governo sia nella vicenda Matteotti sia dietro ogni omicidio o violenza di matrice politica, dall’altro l’insoddisfazione dell’area intransigente del fascismo.

L’ultimo dell’anno Mussolini riceve una visita inaspettata: i rappresentanti della milizia chiedono un definitivo passo verso la cancellazione delle opposizioni, si apre così la strada verso la dittatura. Il discorso di Mussolini alla Camera del 3 gennaio 1925 viene considerato come il passaggio definitivo verso la trasformazione dell’Italia in una dittatura. Il capo del Governo sfida apertamente le opposizioni e si dichiara colpevole morale di tutte le violenze perpetrate.

Nella sua retorica il Duce da un lato minaccia le forze moderate dall’altro porta a considerare gli aventiniani come un’associazione di stampo sovversivo con ciò evocando il rischio del ritorno di una guerra civile e di non certezza nelle dinamiche economiche. La durezza delle parole del Duce induce Amendola a richiedere un intervento della Corona. La mossa delle dimissioni di Casati e di Sarocchi dal governo illude le opposizioni circa la concreta possibilità di un intervento risolutore del sovrano.

Tuttavia Vittorio Emanuele III accetta le dimissioni e nomina Rocco, Fedele e Giuriati. Tale rimpasto provoca la formazione di un esecutivo con una marcata impronta fascista. Di fronte a questi sviluppi il blocco aventiniano rimane ancorato ad una strategia legalitaria, con l’obbiettivo di non spaventare l’opinione pubblica e di non adottare soluzioni che si ponessero fuori dal solco costituzionale. Tale scelta divenne oggetto di critiche in quanto iniziava a farsi strada l’idea di prevedere un ritorno dei parlamentari all’interno della Camera onde poter fronteggiare il governo mediante la dialettica assembleare. In particolare Gobetti, rappresentante dell’ala sinistra del blocco, spingeva per intraprendere una strada molto più radicale nella speranza di formare una nuova classe dirigente e di preparare il popolo italiano ad affrontare con dignità le difficoltà che una manovra di rottura avrebbe comportato.

Il partito popolare inizia a voler rimarcare la propria identità e la propria autonomia di azione pur mantenendo l’impegno della secessione aventiniana. La decisione presa suscitò l’indignazione dei socialisti massimalisti, mentre Gramsci sollecitava il PSI ad uscire fuori da ogni forma di ambiguità per schierarsi definitivamente a favore di un programma rivoluzionario con al centro la classe operaia. Turati diede un forte scossone alla tenuta del blocco secessionista in quanto, a conclusione dei lavori dell’assemblea dell’Associazione italiana per il controllo democratico, rivendicò la possibilità anche di tornare nel Parlamento per fronteggiare il governo del Duce. Il fronte aventiniano comunque presenta al suo interno alcune fratture le quali trovano spazio anche all’interno dei singoli partiti con ciò favorendo la nascita di correnti che non vedevano di buon occhio il permanere in un immobilismo dettato dal convincimento di non adottare soluzioni drastiche che avrebbero (timore sempre riconosciuto da Amendola ad esempio) portato ad un consolidamento del consenso a Mussolini. Anche nei momenti più critici Amendola non abbandona la speranza di un intervento salvifico della Corona. Il deputato democratico lavorava anche ad una futura alleanza politica con i popolari e gli unitari.

Invero tali forze politiche prepararono un messaggio-manifesto indirizzato al sovrano in cui si chiedeva un intervento per ripristinare le legalità costituzionali spazzate via dal governo fascista. Nella giornata del 10 giugno Amendola ed altri rappresentanti delle forze politiche che avevano votato il documento furono ricevuti da Vittorio Emanuele III il quale mostrò il suo consueto atteggiamento attendista con ciò gettando nello sconforto le forze costituzionali di opposizione.

Nell’estate e nei mesi successivi del 1925 si consuma l’esperienza aventiniana. Amendola, seguito da tempo in ogni suo spostamento dal regime mussoliniano, subisce intimidazioni continue ed è costretto a lasciare in fretta la Toscana in una giornata di luglio nel quale subisce un pestaggio che causerà la sua morte alcuni mesi dopo. Il PSI è la prima forza politica che decreta l’abbandono dell’Aventino. Tale gesto verrà seguito anche dal PSU, dai repubblicani, dal partito popolare e dalla Democrazia sociale.

Anche le vicende estere sembrano sorridere al Duce: la spedizione italiana riesce ad ottenere sia una dilazione del debito di guerra che l’Italia doveva estinguere nei confronti degli Stati Uniti sia un investimento promosso da istituzioni americane private. Tale risultato viene rappresentato dalla propaganda fascista come una grande mossa politica voluta e portata avanti da Mussolini.

Nel mese di dicembre De Gasperi, dopo le violenze riservate ai parlamentari aventiniani che tentavano di rientrare in Aula e dopo la presentazione delle “leggi fasciste” in Parlamento, presenta le dimissioni nel giorno in cui a Milano muore Anna Kuliscioff.

Con la decadenza dei parlamentari aventiniani, del 9 novembre del 1926, si chiude ufficialmente la vicenda della secessione. I deputati decaduti subiscono l’ennesima prova di prevaricazione con arresti, perquisizioni delle loro abitazioni e sequestro dei locali sedi di partito. Mentre il governo mussoliniano costruisce sempre più la sua intelaiatura di regime: la costituzione dell’Opera Balilla per formare le giovani generazioni, il controllo asfissiante dei “nemici” politici, lo scioglimento dei partiti di opposizione, l’istituzione di un Tribunale speciale.

La strada di alcuni ex aventiniani, come lo stesso Turati, fu l’esilio in Francia. In questo paese gli esponenti antifascisti ripresero la propaganda di stampa grazie anche ad un ambiente intriso di libertà e di speranza.

A distanza di anni Nenni ricordò l’esperienza dell’Aventino e confermò che quella manovra fu dettata da un forte convincimento morale anche se mancò di una fase operativa che avrebbe potuto condizionare gli avvenimenti qualora i partiti avessero organizzato un’azione di rottura contro la violenza e le prevaricazioni fasciste.

L’esperienza della secessione aventiniana si consegna al lettore come un evento che ha segnato inevitabilmente il sentire emotivo della Resistenza: durante quei mesi venne sperimentate l’alleanza antifascista tra repubblicani, socialisti, unitari e popolari, durante quelle giornate si iniziò a comprendere da vicino la brutalità del regime.

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