Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: D. Giglioli, Critica della vittima, Nottetempo, Milano 2024, pp. 128, € 14,00.

Torna dopo dieci anni in libreria una nuova edizione di Critica della vittima, scritta dal critico letterario e saggista Daniele Giglioli. Si tratta di un tema (quello del dominio ormai incontrastato dell’ideologia vittimaria nel mercato politico e immaginario attuale) che non smette di esibire la propria emergenza e tante, dirompenti conseguenze. Giglioli tenta di farne qui la genealogia, mostrando come l’essere riconosciuti come vittime sia diventato ormai uno strumento essenziale nelle mani di ogni potere. È un vero e proprio instrumentum regni. In mezzo alla crisi strutturale e forse definitiva delle ideologie, nel momento storico più controrivoluzionario di sempre, l’importante non è più il fare, l’agire, l’assumersi delle responsabilità, ma il patire, la passività. L’essenziale è il riconoscimento generale dello status di vittima, perseguitata da nemici più o meno immaginarie disumani, in una passività che discolpa e deresponsabilizza.

L’ideologia vittimaria è specificamente il «travisamento delle ragioni dei forti» (p. 10). La vittima produce leadership, regala identità forti e indiscutibili. A sua volta, chi sta con la vittima, non sbaglia mai, è esonerato persino dalla coerenza, è immune alle critiche e, per queste ragioni, è in una posizione che rappresenta l’ideale di ogni forma di potere. L’ideologia vittimaria è la negazione del conflitto e, quindi, della stessa politica. Fine della politica, dominio della polizia. Rappresenta il trionfo dell’epoca post-democratica, in cui pure ci siamo avviati velocemente. La vittima garantisce il marchio dell’innocenza, fornisce una storia che sarà sempre attuale e autorevole nei discorsi pubblici e sancisce l’incapacità di nuocere.

Giglioli pone negli anni Sessanta del Novecento, proprio nel punto più alto della contestazione e del sapere critico, l’avvio di questa trasmigrazione dall’agire al patire, il percorso verso l’idolatria della vittima. Ciò rappresenta in un certo senso la crisi definitiva della modernità politica, l’esito dell’individualismo esasperato, il dominio del neocapitalismo e della società dello spettacolo (e l’elenco potrebbe essere ancora lungo). Ciò che conta è la correlazione fra il dominio della vittima come protagonista della vita pubblica, con un ruolo primario e inattaccabile, e la scomparsa del futuro, delle crisi che permettono ipotesi di futuro. Questa relazione paradossale fra innocenza e potenza (vero salvacondotto universale) presenta una infinita serie di esempi che potremmo fare, non solo legati alla vita politica, ma anche a quella culturale, al mondo dello sport e dello spettacolo. Chi è vittima, per definizione non può essere colpevole di ciò che ha subito, ma anche e soprattutto di ciò che ha fatto (di male) agli altri: se lo ha fatto, lo ha fatto solo perché costretto, per difendersi, per salvarsi.

Fra tutti gli ingredienti di questo vasto immaginario vittimario, vale la pena qui citarne uno soltanto: l’ossessione attuale per la memoria, per i testimoni, che tende a schiacciare e ad annichilire la storia, di cui pure pretende di essere sostenitrice. Sempre che oggi soltanto le vittime (o meglio: ormai gli eredi più o meno diretti delle vittime) abbiano diritto a una posizione etica privilegiata: che le sofferenze subite (in realtà da altri, dalle vere vittime, che rimangono, in quanto tali, mute) diano il diritto a giudicare l’attualità, a usare il proprio prestigio, la propria audience, per pontificare sui nuovi carnefici, sui nuovi orrori. In questo senso, è persino scontato citare la seconda guerra mondiale e la tragedia dello sterminio ebraico come momento per certi versi fondativo di questa ossessione imperante. I sopravvissuti, ormai in realtà sostituiti da portavoce autonominatisi tali, continuano a usare ogni tipo di commemorazione per ribadire l’innocenza e la verità che solo l’essere vittima può trasmettere. Da ciò non può che derivare una odiosa comparazione concorrenziale fra memorie, fra vittime, fra ingiustizie subite: del resto, «non circola da qualche tempo anche tra gli accademici la tentazione di piegarsi a una storiografia da beccamorti, ossessivamente intenta ai cadaveri, ai corpi dilaniati, alle mummie, alle reliquie, come se non ci fosse più una vita da raccontare?» (p. 22). E così si spiega la becera, costante «reductio ad Hitlerum» (metro universale e definitivo) che riemerge ogni volta che si discute di una guerra, di un genocidio vero o presunto, dalla Palestina all’Ucraina.

Questo bisogno di essere vittime, di sentirsi vittime almeno di qualcosa (del meteo impazzito, di un complotto del mercato ecc.), come se fosse un nuovo diritto universale, si esprime dunque in mille e mille modi e rilegge il passato anche recente col fine di sacralizzare ogni comportamento: dalla scoperta dei tossicodipendenti come fenomeno sociale (i giovani vittime delle droghe) alla rilettura a posteriori dei movimenti degli anni Settanta come vittime di trame occulte e deriva poliziesche.

La melassa che ne deriva, uccide le diversità e le verità, obbliga sempre più a ritirarsi nel privato e in un eterno presente dove non c’è più lotta né alternativa, ma solo risentimento. Tutto viene congelato e tutto è giustificato.

Loading