Stefano Berni (1960) è docente di Filosofia e scienze umane nei licei. È stato professore a contratto presso la cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, assegnista e dottore di ricerca. È tra i fondatori e nel comitato scientifico della rivista “Officine filosofiche” dell’Università di Bologna e Presidente della Società Filosofica Italiana di Prato. Le sue ultime pubblicazioni sono: Potere e capitalismo. Filosofie critiche del politico (Pisa 2018); Etiche del sé. Foucault e i Greci(Firenze 2021); L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt (con Antonio Camerano; Milano 2022).

«Quanto più i popoli si conoscono, tanto più sono restii a considerarsi eguali, tanto più indietreggiano inorriditi di fronte all’ideale di umanità» (Arendt 1999, 328).

Con il capitalismo si sono formati veri e propri miti moderni la cui funzione è sempre quella di omologare le società e le comunità sempre più atomizzate e disgregate. Così è anche per il richiamo ai presunti diritti umani, che promuovono la funzionalità, la fungibilità, la sostituibilità di ogni uomo, il quale diventa esso stesso merce di scambio e forza-lavoro. Tuttavia, accanto a questi miti, permangono ancora forme di socializzazione e associazione basate però e soprattutto su interessi privati e sulla stessa logica del mercato, come lobby, trust, massonerie, mafie che hanno tutto l’interesse a non apparire ma a demolire le comunità stesse. Se associazioni, partiti, chiese, corporazioni si insinuano nelle istituzioni dello stato, come pensare che non ne approfittino per seguire i propri interessi?

Dunque, il problema maggiore che si pone oggi è: se lo stato, fin da subito, è il protettore di pochi proprietari che detengono la maggior parte delle ricchezze della terra; se super-stati come gli Stati Uniti d’America, la Cina, la Russia, l’Europa, svolgono solo una politica economica per favorire interessi di poche élite o trust; se la cultura politica egemone promuove e ha convinto ogni cittadino che la sfera economica è l’unica che conta e dunque non si danno comunità che sfuggano al controllo dello stato; allora, come è possibile modificare lo status quo? E perché? Come potrebbe accadere che alcune comunità si emancipino e tornino ad una vita più tranquilla, meno competitiva, in cui sia possibile trovare delle relazioni amicali e meno conflittuali rispetto alla società odierna? L’esperimento, tentato dal potere e in parte riuscito, è quello di omologare tutti gli individui entro un solo, grande e universale stato-nazione. Fare di tutte le nazioni una sola comunità coesa, laboriosa e produttiva.

Questo tentativo però si scontra, oltre all’idiosincrasia a cui si riferisce Arendt, anche con la stessa logica comunitaria, che si esprime soltanto in forme pluralistiche e limitate dal numero stesso dei consociati. Godbout spiega molto bene questo cortocircuito logico della democrazia che, da un lato, «conserva l’utopia della comunità» ma dall’altro, «non può funzionare se non sul riconoscimento dell’impossibilità di raggiungere questa unanimità» (2003, 51).

Per quale ragione gli individui abbiano ancora bisogno di riconoscersi in un’identità forte e coesa richiamandosi alle origini della propria cultura rimane un mistero psicologico prima ancora che antropologico e politico. Il pluralismo vale sono all’interno della democrazia, espressione di una cultura coesa. Vero è che ormai il richiamo a identità, per così dire proteo, sostituiscono, almeno in Occidente, sempre di più le identità che potremmo chiamare molok. Ma anche le prime sono esse stesse forme di identità, anche se sono il riflesso e l’effetto di una cultura specifica quale quella occidentale, costituitasi sui miti dell’homo faber e del self-made man.

Come già accennavo, pensare a una sola identità universale, ammesso che possa realizzarsi, ci spinge verso una contraddizione insanabile, perché le identità si costituiscono anche e soprattutto nel confronto, nello scontro, nel riconoscimento, differenziandosi e pluralizzandosi. Inoltre una sola e unica identità benché proteiforme, ci condurrebbe non solo all’omologazione e al conformismo ma anche a problemi sociali e psicologici non irrilevanti: «un essere che non è mai esso stesso, ma è solo l’esistente» (Agamben 2001, 82) rischia non solo di essere esposto a qualsiasi evento ma soprattutto alla catastrofe. D’altra parte, se è vero che siamo «gettati nel mondo», è vero anche che nel momento in cui siamo gettati, questo mondo, poi, lo abitiamo, lo occupiamo nello spazio e nel tempo e non permettiamo ad altri di occupare il nostro stesso spazio e tempo. Di qui il mio scetticismo e pessimismo rispetto a chi pensa sia possibile applicare l’idea arendtiana di trovare uno spazio condiviso nell’in-fra, laddove permangono invece culture diverse, differenti identità molok.

In questi giorni si parla tanto di razzismo e pertanto si conclude che vi sia un ritorno al fascismo. Non entro nel merito della questione, tuttavia il sospetto che ci sia anche un uso strumentale della politica non è da sottovalutare, ma, soprattutto, sembra si voglia deliberatamente perdere di vista il vero obiettivo, una sorta di convitato di pietra, la cui presenza sembra stranamente sfuggire a una certa sinistra radical chic ma che invece non era certo sfuggita a Pasolini, che in un articolo uscito su “Il corriere della sera”, il 24 giugno 1974, scriveva: «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi». Perlomeno «il vecchio fascismo distingueva: mentre il nuovo fascismo non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo» (Pasolini 1974, 50)

Bibliografia

Agamben, G. La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001.

Arendt, H. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1999.

Godbout, T. J. Chi ha paura della comunità? A proposito di laicità, in Il ritorno dell’etnocentrismo, (a cura di S. Latouche), in «Mauss», n. 1, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

Pasolini, P.P., Scritti corsari, Garzanti, Milano 1990.

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