Katiuscia Vammacigna, nata e cresciuta a Brindisi, si laurea in Filosofia a Lecce, specializzandosi a Parma, dove insegna per diversi anni. Tornata a Brindisi, si dedica a passioni quali scrittura, teatro, filosofia. Frequenta corsi di scrittura creativa e partecipa a diversi concorsi letterari. Nel 2018 si classifica seconda nel concorso letterario Verso l’altro, promosso dall’associazione Jonathan di Brindisi, con il racconto La mia terra non ha nome. Sempre nel 2018 riceve una menzione di merito per il Premio Letterario Nazionale Città di Mesagne con il racconto Odore di salsedine su Tunisi. Si definisce ironica, appassionata e curiosa di indagare ancora sè stessa e il mondo attraverso la scrittura.

Recensione a: M. Kundera, Un Occidente prigioniero, Adelphi, Milano 2022, pp. 85, € 12,00.

Scrittore di origine ceca, Milan Kundera, nel discorso La letteratura e le piccole nazioni, tenuto a Praga nel 1967 al Congresso degli scrittori cecoslovacchi, in un paese dominato dalla Russia comunista, difende la libertà dello spirito creativo e l’identità culturale della sua nazione d’origine.

Come già aveva fatto Solženicyn a Mosca, egli condanna la censura imposta dall’ideologia sovietica sulle nazioni occupate, che ha svilito la loro identità culturale. Con una scrittura ironica e sagace, Kundera apre una serie di questioni a cui cerca di dare risposta, interrogandosi sul destino della nazione ceca e delle piccole nazioni, aprendo una più grande questione, quella sul destino dell’Occidente. È un discorso sul bisogno di liberare la cultura dall’influenza del potere, per difenderne il progresso a garanzia dell’esistenza di ogni nazione. L’autore ricorda che tra le due guerre furono proprio «una pleiade di uomini di genio» (p. 24) e il loro spirito creativo ad innalzare la cultura ceca a livello europeo, contribuendo con la sua lingua e la traduzione letteraria, allo sviluppo della stessa letteratura europea. Ma quando essa era ancora nella fase adolescenziale, l’occupazione e lo stalinismo l’hanno isolata, relegandola a periferia d’Europa. Per questo motivo è necessario che la letteratura e la cultura ceca rivendichino la propria appartenenza europea, liberandosi dallo stigma di un’appartenenza esclusivamente slava. È solo all’interno dell’Europa che la Cecoslovacchia può esistere. I popoli piccoli possono sopravvivere all’omologazione della cultura dominante, difendendo il peso culturale della propria lingua e l’unicità dei valori della letteratura, superando il limite del provincialismo dell’orientamento letterario ceco e del «vandalismo» (p. 28), inteso come «superba ristrettezza di vedute [che] è sempre pronta a rivendicare i suoi diritti» (p. 29). Con il vandalismo contemporaneo un comitato di cittadini può distruggere «una chiesa, un tiglio centenario» (ibid.). Ma dalla distruzione alla proibizione, il passo è breve.

L’arte e la letteratura ceca devono essere garantite da libertà di pensiero e creazione, recuperando la ricchezza creativa degli anni Sessanta del Novecento. L’identità e l’esistenza del popolo cieco dipendono dal coraggio della sua letteratura e dei suoi scrittori. E non è un caso che proprio la rinascita delle arti, della letteratura, del cinema cieco sono stati «i prodromi della primavera di Praga» (p. 40). Il discorso La letteratura e le piccole nazioni si ricollega così all’articolo Un Occidente prigioniero, uscito su «Le Dèbat» nel 1983, in cui Kundera rivendica l’appartenenza alla cultura europea occidentale dei popoli della cosiddetta “Europa centrale”: Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia. Essi storicamente appartenevano all’Europa radicata nella cristianità romana, all’interno di un’Europa divisa in due: da una parte, l’Europa occidentale legata all’antica Roma e alla Chiesa cattolica, dall’altra, l’Europa orientale legata a Bisanzio e alla Chiesa ortodossa. Ma dopo la seconda guerra mondiale il confine tra le due Europe si è spostato ad Ovest e nazioni da sempre poste ad Occidente si sono ritrovate ad Est. Perciò, nel dopoguerra, accanto ad un’Europa occidentale e orientale, si pone un’Europa centrale, culturalmente a Ovest e politicamente a Est (p. 45). Da qui l’inizio del dramma e del destino della non-esistenza delle piccole nazioni, costrette a rivendicare la loro identità culturale. Intorno a quel valore identitario minacciato a morte, furono proprio la letteratura e i popoli a stringersi, lottando tenacemente per la libertà, mentre l’Occidente negava con esse la propria identità culturale.

Fu la riflessione critica promossa dagli scrittori a preparare la rivolta ungherese del 1956. Furono teatro, cinema, filosofia a promuovere «l’emancipazione libertaria della primavera di Praga» (p. 47). Negate dall’Occidente a cui appartenevano per tradizione, le rivolte centroeuropee si opposero alla russificazione e all’omologazione «attraverso un felice connubio di cultura e vita, creazione e popolo» (ibid.). Esse erano la parte fragile dell’Occidente, prigioniere della storia dei vinti. Il destino dell’Europa centrale fu così, quello dei suoi stati vulnerabili, stretti tra Germania e Russia, vinti e conquistati prima da Hitler e poi da Stalin. Ma, sottolinea Kundera, quel crogiuolo di popoli centroeuropei con il «massimo della diversità nel minimo spazio» (p. 40) non era definito da confini politici, imposti da occupazioni, ma da valori e da una memoria comuni.

Kundera specifica che il destino di una piccola nazione è quella per cui, in qualsiasi momento essa «può vedere messa in discussione la propria esistenza» (p. 63). Ma, ammonisce l’autore, la vulnerabilità delle piccole nazioni dell’Europa centrale anticipa la vulnerabilità dell’Europa intera e il suo destino. Infatti, nel mondo moderno e, possiamo aggiungere, contemporaneo, in cui il potere è nelle mani di pochi grandi, tutte le nazioni europee rischiano di diventare piccole nazioni. E così anche l’Occidente rischia di essere una società euforica ignara che potrà diventare una piccola nazione e sparire all’indomani, come profetizza Musil ne L’uomo senza qualità. L’unità dell’Europa, che nel Medioevo si fondava sulla comune religione e nell’età moderna sulla cultura, ora sembra non avere più una base. La cultura ha ceduto un posto che sembra destinato a restare vuoto. Come aveva anticipato lo scrittore ceco Franz Werfel nel 1937 in un convegno sul futuro della letteratura, l’«instupidimento ideologico del nostro tempo» (p. 68), ha ucciso la cultura. E la proposta di Werfel di fermare questo processo, fondando «un’accademia mondiale dei poeti e dei pensatori» (ibid.) libera da politica e propaganda, era sì ingenua in un mondo in cui anche l’arte era politicizzata, eppure, coraggiosa nella rivendicazione del bisogno di far sentire «la voce ineludibile della cultura» (p. 69).

Per questo motivo Kundera considera le rivolte centroeuropee anacronistiche nel loro tentativo di restaurare il passato della cultura, rivendicando la loro appartenenza occidentale all’Europa. Esse non furono preparate da media o politica, ma da poesia, filosofia, letteratura. E non è un caso che dopo l’occupazione russa, furono eliminate le riviste letterarie e culturali dai paesi occupati. La gravità di questa privazione culturale non è stata però compresa da nazioni dell’Europa occidentale, come la Francia. Perché, come sottolinea Kundera, esse hanno ormai perso l’unità culturale, dominate come sono dalla cultura dello svago, in base a cui anche negli ambienti colti francesi e occidentali si discute più di trasmissioni televisive che di riviste culturali. Ecco perché il messaggio inviato al mondo nel settembre del 1956 dal direttore dell’agenzia di stampa ungherese prima che il suo ufficio fosse distrutto dall’artiglieria russa, in cui avvertiva che il suo popolo stava per morire per l’Ungheria e per l’Europa, non fu compreso appieno. L’Europa e l’Occidente non avevano compreso che colpendo l’Ungheria non si colpiva l’Europa centrale, ma l’Europa intera. E così, incalza Kundera, la vera tragedia delle piccole nazioni dell’Europa centrale non è stata la Russia, ma l’Europa stessa, nel momento in cui essa non ha sentito più come valore l’identità culturale che aveva radici in quelle nazioni (ibid.).

L’Occidente ha deciso di restare prigioniero della dimensione politica e di una cultura dello svago che omologa e distrugge identità, essenza ed esistenza. Persino la propria. Un Occidente prigioniero che ha assistito inerte alla sparizione di quel crogiolo culturale che gli apparteneva, rappresentato da quell’Europa centrale che ha relegato ai margini. Ecco che le questioni sollevate da Kundera appaiono profetiche e attuali, laddove ancora oggi appare necessario recuperare la voce ineludibile della cultura, attraverso il coraggio degli scrittori e della letteratura, come rinnovata base dell’unità europea e far sì che l’Occidente salvaguardi la visione centroeuropea del mondo senza colpirla a morte ancora una volta, inconsapevole che sarebbe un ulteriore colpo al centro del proprio cuore identitario e culturale.

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