Andrea Capo (1998) si è laureato in Mediazione Linguistica e Comunicazione Interculturale presso l’Università degli Studi "Gabriele d’Annunzio" di Chieti-Pescara. Ha conseguito il titolo magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università Roma Tre. Le sue aree di interesse riguardano lo studio della geopolitica, dei processi di democratizzazione e involuzioni democratiche, con un focusin Asia centrale e Africa orientale.

Recensione a: A. Varsori, Le relazioni internazionali dopo la guerra fredda (1989-2022), il Mulino, Bologna 2022, pp. 288, € 27,00.

La fine del sistema internazionale bipolare ha determinato l’apertura di una nuova era nel sistema delle relazioni internazionali. Con il venir meno del blocco del socialismo reale e il conseguente inizio della fase unipolare a condotta statunitense, il panorama politico mondiale si è evoluto in maniera straordinariamente veloce, dando inizio ad una serie di cambiamenti epocali e segnando l’ascesa di nuove potenze. Il volume di Antonio Varsori, Le relazioni internazionali dopo la guerra fredda (nuova edizione aggiornata del 2022), si inserisce in questa cornice, illustrando in maniera semplice e articolata le sfide emerse dalla caduta dell’Unione Sovietica fino ai giorni attuali.

Gli eventi narrati nell’opera attraversano un periodo storico determinato dall’egemonia del blocco occidentale, in particolar modo dagli Stati Uniti, i quali manifestano in maniera crescente il desiderio di determinare unilateralmente la politica internazionale. Alla vigilia del cambiamento del sistema politico internazionale, l’Onu viene rapidamente coinvolta in una serie di difficoltà. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti iniziano a godere dello status di unica superpotenza. All’indomani del 1989-1991 si profilava uno scenario mai verificatosi nella storia mondiale. Si prospettava infatti la creazione di un sistema internazionale trainato dalla potenza d’oltreoceano, con la conseguente instaurazione di un nuovo ordine mondiale fondato sui valori liberali e democratici. Questo il progetto intravisto e sostenuto da alcuni.

Tuttavia, pur avendo de facto carta bianca nella gestione delle controversie, gli Stati Uniti vengono ben presto messi alla prova da una serie di eventi che minacciano lo status quo da loro stessi creato. È il caso della prima Guerra del Golfo, scoppiata a seguito della decisione di Saddam Hussein di invadere deliberatamente il Kuwait. La decisione del dittatore iracheno sembra essere dovuta alla convinzione che gli occidentali, impegnati con il processo di integrazione europea determinato dal cambiamento del clima politico dei regimi post-comunisti dell’Europa orientale, non sarebbero intervenuti per sostenere lo Stato invaso. Il Kuwait, ritenuto da Saddam lontano e distante dagli occhi dell’opinione pubblica internazionale, sembrava essere una scommessa vincente per consolidare maggiormente il dominio iracheno nel Medio Oriente. La risoluzione del conflitto in Kuwait testimonia come «l’Onu si sia trasformata in uno strumento dell’azione degli Stati Uniti che potevano vantare ora il ruolo di difensori del diritto internazionale» (p. 43). La condanna unanime alle azioni belliche dell’esercito iracheno, senza trovare opposizione né da parte dell’Unione Sovietica, ormai giunta al canto del cigno, né da parte dei paesi arabi filosovietici, come la Siria, testimoniava in modo eloquente il consenso che si era venuto a creare intorno al ruolo guida degli Stati Uniti perfino dalle potenze fino a qualche anno prima ostili.

La crisi in Jugoslavia, che si protrae dal 1991 fino al 2006, rappresenta un altro elemento critico messo in luce nello studio di Varsori. Anche qui, come in Kuwait, emerge il ruolo fondamentale di Washington nella risoluzione di un annoso problema politico europeo. Grande assente nella controversia balcanica è l’Europa, rivelatasi, nel tempo, incapace di sbrogliare il bandolo della matassa del proprio spazio geopolitico di influenza. Pertanto, l’intervento statunitense sembra essere stato determinante per arginare le crescenti violenze e deporre il regime di Slobodan Milošević, ritenuto responsabile di crimini contro l’umanità a discapito della popolazione non serba della Federazione jugoslava.

Il prestigio crescente degli Stati Uniti è dimostrato anche dagli equilibri geopolitici in Africa e America Latina. Il lento sgretolamento del gigante sovietico ha offerto l’opportunità alla superpotenza statunitense di guidare l’intervento a Panama nel 1989 senza incontrare opposizione alcuna. Inoltre, nel frattempo, senza l’aiuto sovietico i regimi di Cuba e Nicaragua, avversi all’egemonia degli Stati Uniti sul continente americano, sperimentano pesanti problematiche economiche e umanitarie. Nonostante le grandi difficoltà, i governi di Managua e l’Avana riescono a conservare ampi margini di potere, rinunciando a liberalizzare la società e proseguendo la fallimentare e ortodossa via del socialismo allo sviluppo.

Parallelamente a ciò, il consolidamento dei regimi filoamericani in America Latina prosegue, ma viene richiesto loro un processo di democratizzazione. È così che il Cile di Pinochet, le giunte militari del Guatemala, El Salvador e Argentina perdono potere e si avvia un processo di riforme volto a sostituire le élites governanti. Anche in Africa i regimi illiberali di stampo sovietico vengono travolti dallo Zeitgeist. Infatti l’Etiopia di Menghistu Haile Mariam, stremata dalla situazione interna, collassa e avvia le procedure per riconoscere l’indipendenza della parte settentrionale del Paese, l’Eritrea.

La globalizzazione, concepita come «processo che implica quattro componenti fondamentali, ossia trasformazioni tecnologiche, creazione di un’economia globale, globalizzazione politica e globalizzazione delle idee» (p. 96), emerge come naturale conseguenza della fine del modello comunista, aprendo le porte a un’era di contraddizioni e processi di omologazione nei Paesi in via di sviluppo. Il fallimento dell’economia pianificata di tipo socialista apre una nuova era caratterizzata dal predominio delle idee economiche liberiste e del capitalismo finanziario in molte aree del mondo, producendo una serie di contrasti. Se da un lato abbiamo lo sviluppo di molte economie emergenti in Asia orientale (Corea del Sud, Taiwan, Indonesia, Filippine), l’altra faccia della medaglia è rappresentata dall’enorme profitto delle grandi multinazionali estorto con il duro sfruttamento della manodopera sottopagata in alcuni stati del Terzo Mondo.

Nel libro viene dato spazio anche alla descrizione del processo di integrazione europea e alla creazione dell’euro. Parafrasando le parole del segretario statunitense Henry Kissinger («Se ho un problema con gli Stati Uniti, posso chiamare il presidente Reagan per risolverlo. Se ho un problema con l’Unione Sovietica, posso chiamare il leader Gorbaciov. Ma se ho un problema con l’Europa, chi devo contattare esattamente per risolverlo?»), si fa riferimento al fatto che i veri passi verso la creazione di un’Europa politica non sono stati ancora compiuti. La mancanza di una politica estera, esercito e tesoro comune, rende difficile la creazione di un’Unione Europea forte e compatta, libera dagli interessi egoistici delle singole nazioni che la compongono. Questo dato è reso drammaticamente evidente con la Seconda Guerra del Golfo. Infatti, a seguito degli attentati dell’11 settembre, gli Stati Uniti e la coalizione della cosiddetta “nuova Europa”, si impegnano in un incisivo intervento militare per rovesciare definitivamente il regime di Saddam Hussein, dando inizio ad un’occupazione militare che facilita l’insorgere del fondamentalismo islamico, determinando così una forte instabilità politica nella regione. In questo contesto l’Europa, priva di una visione politica unitaria, si divide in diverse correnti. Da un lato, i Paesi della “vecchia Europa” (Germania, Belgio, Francia), contrari all’intervento in Iraq, dall’altro quelli della “nuova Europa” (Spagna, Italia, Repubblica Ceca, Polonia), favorevoli invece a soddisfare pienamente le richieste di Washington, impegnandosi militarmente nel conflitto.

Dopo una stagione di dominio pressoché incontrastato degli Stati Uniti, il sistema internazionale unipolare inizia ad essere messo in discussione da una moltitudine di fattori. Il primo è dovuto al progressivo indebolimento del potere statunitense, causato dalla crisi finanziaria del 2007-2008. Quest’ultima «aveva assunto caratteri tali da poterla paragonare alla Grande depressione su scala globale che aveva fatto seguito al crollo di Wall Street del 1929» (p. 159). La gravità della crisi ha segnato un periodo di declino americano nel mondo, aprendo alcuni spiragli per l’emergere di un sistema multipolare. È esattamente in questo quadro che si inserisce infatti il crescente potere delle potenze revisioniste. Queste ultime, costituite dalle principali economie emergenti come Cina, Russia, Brasile, India e Sudafrica, hanno iniziato a discutere di una sfera di collaborazione che avrebbe portato, successivamente, alla creazione del gruppo Brics, vale a dire ad un’alleanza informale che propone una cooperazione politica ed economica volta a contrastare l’unipolarismo occidentale, utilizzando strumenti economici condivisi e il soft power per rimodellare lo status quo in suo favore. I principali paesi membri del gruppo emergente, Russia e Cina, perseguono obiettivi contrapposti a quelli del blocco atlantico. Pertanto, l’incredibile crescita economica di questi attori, a fronte della recessione di molte economie europee, testimonia la potenziale minaccia del cambiamento degli equilibri internazionali, con il concreto rischio di future contese tra i rivali.

Un altro elemento degno di considerazione descritto nel volume è costituito dall’ampio arco di crisi dovuto alla disillusione delle istanze portate avanti dalle primavere arabe iniziate tra il 2010 e il 2011. Le speranze nutrite per questi moti democratici, che volevano contrastare i regimi autoritari tradizionalmente presenti nella totalità dei paesi arabi, furono ben presto disattese dal corso della storia. Infatti l’unico paese a riuscire effettivamente a compiere un processo di democratizzazione è stato la Tunisia che, una volta liberatosi dal lungo regime di Ben Ali, è riuscito ad avviare una serie di riforme che hanno garantito al paese uno stato di diritto e un governo relativamente democratico. I moti insurrezionali registrati in Egitto, Yemen, Libia e Siria, hanno portato invece alla formazione di ulteriori regimi dispotici, con conseguenze devastanti nel caso libico e siriano. Questi ultimi due, infatti, sono stati traumatizzati da violente guerre civili che hanno aggravato una situazione già precaria. La Siria, in particolar modo, soffre un periodo di violente sommosse popolari contro il regime della famiglia Assad, che, grazie all’intervento della Russia, è riuscito infine a conservare margini di potere. In questa situazione di instabilità politica, formazioni terroristiche come Al Nusra e Isis hanno proliferato nelle aree coinvolte dalla crisi, assumendo un ruolo sempre più influente nella gestione di quei territori. Nonostante la caduta dello stato islamico a Raqqa, avvenuta nel 2017, la Siria continua tuttora a soffrire di fenomeni riconducibili al fondamentalismo islamico. Inoltre la diffusione di altri movimenti terroristici in altre aree del mondo come Nigeria, Somalia e Africa equatoriale procede e si è intensificata soprattutto a partire dal 2018.

Agli inizi del 2020 il mondo viene scosso da un’ulteriore ondata di instabilità politiche. La diffusione del morbo SARS-CoV-2, manifestatosi verso la fine del 2019 nella città cinese di Wuhan, è stata seriamente sottovalutata dalle autorità cinesi e internazionali. Il virus rapidamente si è diffuso in tutto il globo, dando origine ad una pandemia che ha condizionato profondamente buona parte della popolazione mondiale. I governi hanno reagito più o meno rapidamente con misure restrittive, imponendo lockdown, coprifuoco e smartworking per far fronte all’emergenza. La prolungata sospensione delle attività produttive non ha ovviamente facilitato la ripresa delle economie europee e ha aggravato una situazione già precaria. A questo riguardo è opportuno notare che l’impatto della pandemia si è fatto sentire duramente nelle economie di Gran Bretagna, Francia e Italia, le quali, «solo nel 2020, subivano un calo del PIL tra il -5 e il -15%. La pandemia di Covid-19 si registra dunque come la peggiore recessione dal tempo della Grande depressione» (p. 263).

Varsori afferma anche che è solo nel 2021 che, grazie ai vaccini prodotti dalle grandi case farmaceutiche come Pfizer, Johnson & Johnson e AstraZeneca, si è riusciti ad intravedere una soluzione alla crisi, che si è comunque prolungata per alcuni anni. In altri paesi del mondo, continua l’Autore, si è preferito, come nei casi di Russia e Cina, produrre vaccini nazionali per contrastare l’aggressività del virus.

Durante i tragici eventi della pandemia, gli Stati Uniti hanno vissuto un cambio di governo che ha portato il candidato democratico Joe Biden alla Casa Bianca. Infatti, il repubblicano Donald Trump, che aveva inaspettatamente vinto le elezioni americane nel 2016, non è riuscito a continuare la sua presidenza con un secondo mandato. La sua agenda di governo, che tendeva a posizioni isolazioniste e anti-immigratorie, non ha soddisfatto la maggioranza degli elettori americani che hanno invece deciso di premiare l’ex vicepresidente di Barack Obama. Tuttavia, il nuovo governo democratico si è rivelato debole e inefficiente. Nel 2021 l’immagine internazionale degli Stati Uniti è stata gravemente compromessa dal disastroso ritiro in Afghanistan che ha garantito il rapido ritorno dei talebani al governo, avvenuto nel giro di poche settimane dal ritiro delle truppe occidentali. Si è così ripetuto uno scenario simile che ricorda la caduta di Saigon nel 1975, dove la sconfitta americana innescò un frettoloso e catastrofico ritiro dal Vietnam del Sud, lasciando il paese nelle mani del governo comunista di Hanoi, che avrebbe poi preceduto alla riunificazione del paese sotto un regime autoritario.

A rendere ancora più complesso il quadro internazionale è l’invasione russa dell’Ucraina iniziata il 24 febbraio del 2022. L’Ucraina, governata dal presidente Volodymyr Zelenskij, aveva iniziato in quegli anni a compiere i passi decisivi per l’ingresso nell’Unione Europea e nella Nato, tanto che questi obiettivi erano stati inseriti nella costituzione nazionale. Le annose questioni nell’est del paese vengono ad acuirsi drammaticamente a seguito dell’invasione di Donetsk e Lugansk. L’intervento militare russo di Vladimir Putin, incoraggiato da un apparente declino americano e spinto dal desiderio di scoraggiare l’ingresso del vicino nel blocco rivale, segna l’inizio di una nuova guerra in Europa. La recente guerra in Ucraina, più che spingere i paesi europei verso la risoluzione del conflitto – rafforzando così il peso delle istituzioni europee –, ha rafforzato l’alleanza militare Nato, che è riuscita ad inglobare due nuovi membri: la Svezia e la Finlandia. La politica adottata dai paesi occidentali nella risoluzione del conflitto ha implicato l’inasprimento delle sanzioni contro Mosca e l’invio di armamenti militari all’Ucraina, con il fine di ostacolare l’avanzata russa nel paese aggredito. Tuttavia queste politiche hanno agito come un boomerang per alcuni paesi fortemente dipendenti dalle forniture di gas del Cremlino, come Italia e Germania. I paesi europei, già duramente provati dalla pandemia, faticano a sostenere il peso di una guerra nel loro continente. A complicare il quadro, vi è anche l’inizio di una crisi migratoria di tre milioni di profughi ucraini che hanno via via trovato rifugio nei paesi dell’Unione Europea.

Come suggerito dall’Autore, l’escalation del conflitto ucraino sembra riproporre pericolosamente la realtà manifestatasi in Europa prima dello scoppio della Prima guerra mondiale. A questo riguardo, «sarebbe facile sostituire gli Stati Uniti all’Impero britannico, la Cina o l’India con gli Stati Uniti o la Germania guglielmina, l’Unione Europea con l’Austria-Ungheria; per la Russia non vi sarebbe quasi necessità di sostituzione perché le direttrici della politica estera di Putin sono molto simili a quelle dell’Impero zarista; quanto alle aree di conflitto, le rivalità balcaniche sono state sostituite da Medio Oriente, Taiwan e Ucraina» (p. 273), con uno scramble for Africa che non è più di tipo militaristico o coloniale, bensì economico. Il “concerto di potenze” viene pertanto a riproporsi nella realtà attuale, con il rischio di una potenziale rottura che provocherebbe nuovi conflitti mondiali.

Per concludere, il volume di Antonio Varsori permette di avere uno strumento utile per comprendere l’evoluzione del sistema politico internazionale negli ultimi trent’anni, attraverso una descrizione efficace e stimolante degli eventi più significativi avvenuti dopo la fine della Guerra Fredda. Uno strumento conoscitivo estremamente utile per orientarsi nel complesso e incerto scenario internazionale dei nostri giorni.

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