Gianfranco Andorno (1937), da bambino ha vissuto a Genova i tragici eventi della guerra, che ricorda intensamente. Giovanissimo vanta articoli su “Il Borghese” di Leo Longanesi. Conserva una lettera di Gianna Preda che si complimenta e lo incoraggia.  Poi si adegua ai dettami delle avanguardie e partecipa al “funerale” della parola scritta. Opta per le immagini che ritiene più immediate: la fotografia (Popular Photografy ecc.) e la pittura (Flash Art). Mostre a Milano 1998, Art Innsbruck 1999. Infine, ha un ripensamento e ritorna alla scrittura. Con il primo libro Le stagioni dell’inganno raccoglie il Fiorino d’Oro a Firenze. Altri libri premiati: Prima che il buio(Cinque Terre Golfo dei Poeti); Il falò dell’io (terzo premio Lord Byron Porto Venere 2022). Il suo slogan è: “Scrivo storie che non sono storie”.

 

Il 28 agosto del 1870 Arthur Rimbaud tenta la prima fuga da casa, da Charleville. Ha sedici anni, ha frequentato con profitto l’Istituto Rossat e gli piace scrivere. Con le sue elucubrazioni poetiche spaventa gli insegnanti che gli predicono un futuro fiabesco ma dannato. La sua meta è Parigi presto sconvolta da la Comune. Le fughe saranno diverse e contrastate dai gendarmi. Parigi riuscirà ad arpionarla solo nel settembre dell’anno dopo. Qui, le sue recite destano scalpore ma non consenso. I suoi versi, tizzoni incandescenti,  cacciano gli altri poeti  nelle caverne a blandire i pipistrelli. Li balzano all’indietro. Sconvolti si stringono in difesa e lo respingono, deridono i suoi errori imputabili al caos voluto. C’è il battesimo a quello che lui sarà per tutta la vita: un paria, un «non accettato».

Il fanciullo insolente è condannato al bando da quel scialbo parnaso, questo ingigantisce il valore dell’incontro con Paul Verlaine, già poeta stimato. Paul è sposato con la remissiva Mathilda e hanno un bimbo di un anno, George.  Il matrimonio è un collare che lo strozza, picchia la moglie, le strappa i capelli, scaglia il figlio contro un muro e chiede perdono. Nel rapporto tra Paul ed Arthur avviene la deflagrazione dell’esplosivo contenuto negli scritti di quest’ultimo. Si crea un’unione che travalica la poesia scritta. Ubriachi fanno baldoria, declinano la depravazione nei suoi casi, culminanti nell’eccesso. Pervengono al parossismo, ferirsi vicendevolmente con i coltelli. Per Verlaine è l’appagamento dei sensi mentre per Rimbaud è il trionfo di quel corredo di sofferenze che s’impone. In fondo è un cercare disperato nell’altro quello che non si ha, nello strusciamento meschino dei corpi. Malgrado questo Arthur resta un intoccabile, appartiene a una casta repellente a ogni umana mendicità. «La noia del caro corpo, del caro cuore». Jacques Rivière: «In Rimbaud il male si comporta come una purga».

Quando Mathilda chiede il divorzio, denuncia la relazione immorale del marito con Mademoiselle Rimbaud, come lo sbeffeggiano le cronache. Osano, osano! Questi delatori fanno parte del “misero bestiame”, di quel popolo di “dormienti” dai quali Arthur fuggirà. Da tener presente la sua età, sta vivendo queste emozioni, queste esperienze a soli diciassette anni.

Nel 1873 i due poeti sono a Bruxelles. Arthur non sopporta più lo sbrodolamento sentimentale di Paul, offende la sua concezione manichea. Paul teme che l’amico lo abbandoni e gli spara tre colpi di pistola, due finiscono nella parete della stanza e uno  lo ferisce ad un polso. Ha compreso che non sarà mai suo, una necessità che gli verrà a mancare. I proiettili sono un ammettere la superiorità di Rimbaud. Verlaine si prende una condanna di due anni che sconterà quasi pienamente a Mons. Rimbaud parte per Roche. Nella fattoria di famiglia scriverà Una stagione in Inferno, estrarrà dallo scrigno di quei mesi il suo tesoro. E sarà il suo sarcofago letterario. Una poesia in prosa, un poema troncato in brevi frammenti.

La password per entrare nel testo e in lui, è il suo vedere un salotto in fondo al lago. Arthur è un visionario simbolista che libera le belve dell’inconscio. L’opera un magma, una melassa con il lievito madre caglio, rancido. C’è un’ebbrezza da “posseduto” mescolata ad alchimie verbali. Sono nove bocconi amari e nel primo c’è la discesa all’inferno. Dante? Arthur invita al suo sontuoso banchetto Faust, in fondo costui è un Angelo costretto a quel ruolo. «L’inferno è l’io», allora si fa demonio? Immagina un duello tra Dio e Satana ma questo è una creatura del primo. Ci sono il bene e il male con l’albero del sapere, i suoi rami sono molto intriganti.

Arthur vuole strapparsi dal corpo e dalla mente ogni cosa.  San Francesco alla spoliazione rinuncia ai beni, è l’apostolo della teoria della liberazione contro il capitalismo finanziario. Arthur si fa sua controfigura ma va oltre. Si ribella al peccato originale che per lui sono le imposizioni già presenti alla nascita e anteriori. McLuhan ci illustra attaccati agli oggetti, lui a quel cumulo di imprinting di Lorenz che ci farà camminare per tutta la vita come gregge di pecore, come schiera di oche. Non usciamo dall’utero liberi ma già curvi per il gravame dei condizionamenti.

Arthur ha bisogno di Dio e lo invoca ma non del Dio che opprime e tace. «Perché mai Cristo non mi aiuta? Aspetto Dio con ingordigia». I suoi dubbi ricordano quelli di Gesù sulla croce: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Dio è il male di Proudhon, Dio è morto di Nietzsche che impazzisce dal dolore, ma tutti devono fare i conti con Lui. Arthur tramite la poesia voleva farsi Dio, lo urla ed è bestemmia. La bestemmia è il rovescio della fede, affermano. L’ammissione: «Deu, suis-je bete!». E conferma che meglio di lui si spiega il mendicante con i suoi eterni Pater e Ave Maria.

Nei peccati è in buona compagnia. Agostino confessa: «Voglio ricordare le turpitudini del mio passato e la corruzione carnale della mia vita». Eppure sarà santo! Con Arthur c’è il tentativo di santificare il peccato. In una lettera ha indicato la via: «Il poeta si fa veggente attraverso la sregolatezza di tutti i sensi». La vergine folle è Verlaine. «Sono schiava dello sposo infernale, quello che ha dannato le vergini folli… Noi non siamo al mondo… Con i suoi baci e i suoi amplessi amici entravo in cielo cupo…».

«Sono ingannato? La carità sarebbe sorella della morte, per me?». È il tramonto, lo sfacelo di non trovare l’aiuto che rifiuta. E vede milioni di corpi morti, pieni di vermi, che saranno giudicati! Avviene la scissione, forse vuol riscattare l’anima gemella: lui stesso o l’altro che è in lui? Non è «io è l’altro» come vorrebbe ma «io e l’altro». Ed è lui che espelle l’altro, ma l’altro espulso è lui. È la vittima, il capro. La mente prevarica l’io, sempre. L’asceta dell’illusione, sconfitto dalla realtà,  va in esilio a cercare se stesso. Luca Ormelli: «La carogna per tornare a vivere doveva immolarsi».

Il gran finale: «… e mi sarà lecito possedere la verità in un’anima e un corpo». Ambiguo: quando e come? Una nuvola rosa da bel tempo, ma lieve e pronta a dissolversi. Tracce dello scritto saranno rinvenute in Pascoli e D’Annunzio.

La madre, Marie, versa un acconto alla tipografia Poot et Cie, a Bruxelles, per la stampa di 500 copie. Qualche mese e Arthur nella frenesia dell’insuccesso che lo perseguita, dell’incomprensione, brucia tutti i suoi manoscritti, è il rogo della Giovanna d’Arco che è in lui. Nella vampata non i libri come si ipotizza. Questi saranno ritrovati qualche anno dopo nella cantina del tipografo, il conto non è stato pagato. Arthur ha ritirato solo poche copie per gli amici, tra questi Verlaine.

C’è stato un ultimo incontro tra gli ex amanti maudits, nebuloso e vagamente datato. L’indomani, sulle rive del fiume Neckar a Stoccarda viene rinvenuto Verlaine incosciente e con diverse contusioni, sicuramente i postumi di una violenta rissa. Arthur ha respinto, a modo suo,  l’offerta di cristiana amicizia fatta da Paul.

A diciannove anni Arthur, nel 1873, non scriverà più. Nei tempi a seguire sarà oggetto di un dibattito sulle motivazioni. La più plausibile è che lo strumento usato si rivela impotente a dare le risposte che pretende. «Se l’ottone si desta tromba non è per colpa sua». La poesia non rivela i misteri della vita, lo sanno bene i letterati. Non è il totem magico, il logos, ma un pezzo di legno asciato dai sogni di onnipotenza degli uomini. Una folla di arroganti che cerca il potere con l’insistenza dei venditori di aspirapolveri. La poesia  una masturbazione sacrale, di eletti impostori.  Come lo scoprono i poeti che fanno? Si suicidano, la pazzia una sorta di uscita di sicurezza. O si erigono a falsari, propinano placebo. Sartre: «Lo scrittore è un bugiardo teso alla menzogna assoluta».

Arthur dal verso inerte, inerme, che piscia sottomissione, passa all’azione come consiglia Jules Michelet con il suo eroe dell’azione. Rientra nella vita e la sfida, sfida quel mondo che odiava. Quel popolo di burattini, di avatar. I futuri uomini vuoti di Eliot. Arthur è conscio che in quelle regole il peccato comporti il castigo. Una colpa da espiare. Dove? Nel deserto somalo. Diventare selvaggi per fuggire dalla società insopportabile, lo slogan del momento. Le avanguardie si tuffano nel primitivismo, nell’esotismo. Paul Gauguin s’imbarca per Taboga…

Arthur sarà l’uomo dalle suole di vento. Vagabondo, dal 1875 al 1879 proverà un’infinità di lavori, anche il soldato di ventura. «Avrò dell’oro, sarò pigro e brutale», si ripromette, si vanta già. Infine il completamento della sua metamorfosi in Africa: contrabbandiere di armi, mercante di schiavi. Impara l’arabo, legge il Corano. Conduce una carovana di cammelli dal ras Melenik, con il quale battibecca per  i pagamenti. Lo dicono iroso, collerico. Ad Harar, in Etiopia, diventa responsabile di un’agenzia di vendita di caffè e altro.

Nel 1891 Arthur si ammala, ha trentasette anni. È debilitato dalla febbre e dal dolore. Il suo male: la cancrena in un ginocchio e la sifilide contratta a Harar. Al battello viene trasportato con una rudimentale lettiga, affidato a portatori scalzi, maldestri, ed a impietosi sobbalzi. Arrivato a Marsiglia viene immediatamente ricoverato all’ospedale Conception, escluso un bugiardo agosto, sarà la sua ultima dimora. Accanto a lui la sorella Isabelle, la madre è latitante e rancorosa. Le illuminazioni da lui immaginate ora ritornano, appaiono visioni meravigliose suggerite dalla morfina, lo conducono per mano a… lontano da quella terra di lupi, dalla quale era fuggito ed è  dovuto ritornare. Mormora quello che vede, delira, si ribella ai dubbi degli astanti: «Mi prendono per pazzo!». Nello sconforto: «Andrò sotterra». E forse intuisce che quella è la terra promessa che tanto ha vagheggiato. La ricerca vana  era lì, sotto i piedi!

La paralisi continua a impadronirsi di lui, lo costringe all’immobilità. La ignora, progetta nuovi viaggi impossibili. Non riesce neppure a provare la gamba artificiale che dovrebbe sostituire quella amputata. Avviene la sua conversione sponsorizzata dalla sorella. Una conversione forse immiserita dalla scommessa di Pascal: «Con la fede non perdiamo niente, ma con l’incredulità possiamo perdere l’eternità».

Agostino d’Ippona porta serenità a Isabelle: «Se mi ami non piangere». La rassicura: «La morte non è niente». Esplicito: «Possono uccidere il corpo ma non l’anima».

Per Arthur una sontuosa bara da otto sterline. Un funerale solenne: cavalli piumati, sacerdoti con le migliori vesti, i coristi e venti orfanelli con le candele accese. In processione verso il cimitero, così scrive Enid Starkie. Arthur viene avvolto in quei beceri onori mercantili che ha sempre ripudiato. Ma non c’è  nessun piscia poesie, come li chiama René Char, dai quali un giorno fuggì, a incensarlo. A Parigi, negli stessi giorni, viene riconosciuto come il più grande poeta della sua epoca. Nel gran codazzo dei suoi estimatori Patti Smith, Jim Morrison e Bob Dylan con le loro canzoni.

 

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