Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: G. Berto, Oh Serafina! Fiaba di ecologia, di manicomio e d’amore, Neri Pozza, Vicenza 2023, pp. 136, € 17,00.

Potremmo dire che Giuseppe Berto con Oh Serafina! abbia anticipato di cinquant’anni la crudele contraddizione che oggi paralizza tutti, quella fra questione (anzi: emergenza) ambientale e questione sociale. Nel 1973 lo scrittore veneto, reduce dal successo de Il male oscuro, pubblicò questa fiaba (trasferita anni dopo al cinema e ripubblicata da poco da Neri Pozza) che si pone in mezzo fra la critica e la rassegnazione.

In questa pagina si accavallano molti temi sociali (le lotte sindacali, l’abbrutimento causato dal consumismo, la distruzione delle risorse naturali, la violenza delle istituzioni totali, l’asfissiante potere esercitato dalle famiglie sui propri membri, specie quelli più deboli e dissonanti), ma, al fondo, c’è pur sempre una volontà, un desiderio di sottrazione, di recupero di una (impossibile) purezza. A ben pensarci, non ci sono figure positive in questo racconto (se non gli uccellini che vivono, mangiano e amano senza pensarci su). Non c’è un vero “eroe” in questo mondo fatto di risentimento, invidia, impotenza e bramosia. C’è solo il bisogno, sempre insoddisfatto, di recuperare un mondo prima di quello attuale, senza smog e senza plastica, senza pretese operai e senza ascensori sociali.

Il protagonista, Augusto Secondo Valle, è un tipo originale, che proviene da una famiglia impossibile ma che gli ha garantito la proprietà di una fabbrichetta di bottoni. Lui sogna di resistere al progresso e, per questo, finisce in manicomio: si oppone a ogni innovazione, vuol salvaguardare, andando contro i propri interessi, un proprio parco dove sopravvivono tanti “passeriformi” assediati dalle industrie e dalle case popolari.

Se non fosse stato per una ragazza, una sua operaia che cercava il modo di salire la scala sociale, da cui lui era irresistibilmente attratto, forse Augusto sarebbe riuscito anche a conservarsi in questa parvenza, un po’ velleitaria, di purezza. Invece i due si sposano, hanno un figlio (di cui Augusto dubita di essere il vero padre e quindi lo disprezza) e iniziano inevitabilmente a combattersi: una vuole conquistare il futuro, l’altro vuole difendere il passato. Così Augusto, che passa le giornate parlando agli uccelli e credendosi, da padrone, un nuovo San Francesco, finisce in manicomio, spedito là dalla moglie ma, a ben vedere, dall’inerzia stessa delle cose del mondo.

Dentro il manicomio, fra i colloqui con lo psichiatria che deve naturalmente giudicare le sue stranezze e le varie “strategie” difensive di Augusto che complicano solo le cose, lo stesso nostro protagonista trova però l’amore, il vero amore e, con esso, l’immagine di una nuova, inattesa purezza. Trova Serafina, una ragazza che incarna un modo diverso, più al passo coi tempi, di contestare il mondo. Figlia di un grosso editore, contesta il “padrone”: «E lei s’era messa in rivolta. Partecipava a tutte le manifestazioni rosse, lanciava sassi e sputi e insulti contro la polizia, si faceva arrestare, perché il suo nome uscisse sui giornali. La figlia del grande editore. E lei diceva la figlia dello sporco capitalista» (pp. 104-105).

L’ospedale psichiatrico è anche in questo libro (siamo negli anni triestini di Basaglia) un luogo di pena, uno spazio di violenza insensata, ma è anche uno spazio dove, paradossalmente, è possibile riuscire a scappare dalla realtà, ritirarsi ai margini, rallentare. È però, a ben pensare, una ben magra consolazione ed anche il finale di questa fiaba di Berto non è poi troppo consolante: Augusto riesce a uscire dal manicomio e ci riesce Serafina, ma entrambi devono “comprare” la propria libertà, contrattando con le rispettive famiglie una nuova vita più pura, in mezzo alla natura, in una specie di oasi, ricovero di uccelli. Infatti Augusto non si dimentica di chiedere, per realizzare questo suo progetto di vita, alla ex moglie, a cui lasciava la proprietà della fabbrica, un vitalizio:

«“Poi voglio un milione al mese”.

“Sei matto?” essa [la moglie Palmira] esclamò, con poco riguardo.

“La fabbrica non rende un milione al mese”.

“Lo rendeva quando l’avevo io”, egli disse. “Con le tue idee renderà molto di più”.

“Facciamo mezzo milione”.

“Va bene. Ma ancorato al marco. Noi svalutiamo”» (p. 120).

Ecco che ritorna la contraddizione di cui dicevamo all’inizio: nell’Italia del boom (già un po’ declinante), un ereditiere può preoccuparsi della crisi ecologica, mentre i suoi operai non pensano che al reddito e al proprio futuro più prossimo.

Questa fiaba è a suo modo il manifesto apolitico di un conservatore disperato: la stessa tradizione, la famiglia, l’amore “borghese”, la paternità e la maternità, non riescono a giustificare il mantenimento, certo faticoso, di un ruolo sociale. Anzi, le famiglie di origine in questa storia appaiono irrimediabilmente segnate dalla malattia, dal rancore, dalla crudeltà persino.

Questi due “disadattati”, Augusto e Serafina, questi due amanti avversari di ogni “miracolo economico”, scoprono l’uno nell’altra una via di fuga appassionata dal mondo ed entrambi sono forse malati di una specie di “perfezionismo”.

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