Lorenzo Bravi (1982) è laureato in Lettere e Storia. Ha scritto per «L'Intellettuale dissidente» e «Pangea». Collabora con la rivista «Il Pensiero Storico».

«Con la morte di Chabod si conclude un periodo degli studi storici (se vogliamo, della storiografia) italiana». Con questa frase Delio Cantimori aprì il necrologio, scritto per la rivista «Belfagor», per la scomparsa di Federico Chabod, avvenuta il 14 luglio del 1960.

Chabod era stato il rappresentante di una generazione di storici che comprendeva nomi quali Walter Maturi, Carlo Morandi, Franco Valsecchi e Nello Rosselli. Questi studiosi non si ponevano in antitesi con i maestri della storiografia italiana precedente come Pasquale Villari, Gaetano Salvemini, Gioacchino Volpe, Pietro Egidi e Giacinto Romano, solo per citarne alcuni, ma diedero un loro contributo per innovare la ricerca storiografica. Federico Chabod si laureò nella Facoltà di Lettere dell’Università di Torino nel 1923, con una tesi di laurea sul Principe di Machiavelli, relatore Pietro Egidi. Chabod inquadrò l’opera machiavelliana collocando l’autore all’interno del contesto storico e sociale dell’Italia del Cinquecento, in cui lo stesso Machiavelli risultava essere «l’espressione teorica, il riassunto ideale dello svolgimento della vita italiana fra il Tre e Quattrocento» (F. Chabod, Scritti sul rinascimento, Einaudi, Torino 1965, p. 171).

Il Principe era la figura istituzionale che si era andata creando nella crisi istituzionale del Comune, provocando numerose e profonde tensioni sociali, che contribuirono a creare l’istituzione della Signoria, interpretata da Chabod come un segnale di decadenza etico-morale: «questo mondo, di profondi motivi morali e politici, senza forma di masse, vivente solo nell’isola della virtù di individui sparsi, i quali ispirano la propria orma in una materia fiacca e senza coesione, viene espresso nella sua primordiale e suprema natura del Principe» (F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Einaudi, Torino 1964, p. 56). L’interpretazione di Chabod dell’opera di Machiavelli era lontana rispetto a quella, di stampo giuridico-nazionalistico, di Francesco Ercole. Su questa analisi del Principe da parte del giovane storico aostano si vedeva una profonda lezione indiretta di Friedrich Meinecke, in modo particolare della lettura da parte di Chabod del Die Idee der Staatsraison in der neueren Geschichte.

Il testo di Meinecke fu fondamentale nel far derivare a Chabod il sentimento di crisi in Europa durante il Cinquecento. Chabod, oltre che attento lettore di Meinecke, fu anche suo allievo diretto a Berlino nel 1926 in qualità di seminarista. Seminario che fu determinante per il giovane storico perché ebbe modo di confrontarsi direttamente con la storiografia tedesca, dominata ancora dal magistero di Leopold von Ranke. Da Meinecke Chabod riprese la concezione della teorizzazione che i momenti storici, politici e filosofici andavano a confluire uno con l’altro, dando vita allo spirito moderno. Secondo Chabod tale approcciò per leggere gli eventi storici doveva essere un metodo critico di ricerca, «era una chiave necessaria per conoscere il mondo» (F. Chabod, Necrologio Meinecke, in Lezioni di metodo storico, Laterza, Bari 1974, p. 280).

Con lo stesso Meinecke però Chabod sarà in disaccordo, successivamente, in un saggio del 1927, sui tempi di composizione del Principe. Per lo storico aostano il libello fu composto in arco di tempo di pochi mesi da luglio a dicembre del 1513, mentre per Meinecke Machiavelli compose la sua opera in maniera discontinua e che si protrasse per qualche anno. Per Chabod fu imprescindibile anche l’influenza che ebbe Benedetto Croce. Fin dai suoi anni universitari studiò le opere storiografiche del filosofo napoletano, come la Storia del regno di Napoli e Storia della storiografia italiana, pubblicate in volume nel 1923.

In quegli anni Chabod ebbe modo di collaborare anche con Gioacchino Volpe, il massimo esponente della storiografia italiana dell’epoca, incontro che avvenne presso l’Enciclopedia Treccani. Fu proprio Volpe a contattare Chabod per redigere alcune voci per l’Enciclopedia. Collaborazione di Chabod con Volpe che continuò presso il neonato Istituto per la Storia Moderna in cui Volpe era il direttore. Per Chabod quel periodo fu importante perché ebbe modo di conoscere altri giovani ricercatori, quali Ernesto Sestan, Carlo Morandi, Ruggero Moscati e, in misura maggiore, Walter Maturi. Sicuramente la frequentazione dell’Istituto romano e di Volpe furono importanti per acquisire, per le sue ricerche, la conoscenza di utilizzare altre fonti di carattere giuridico-economico.

Chabod che però non rimase influenzato dal metodo di ricerca e contenutistico della rivista degli «Annales», anche se ebbe modo di frequentare e conoscere diversi membri, in modo particolare strinse una profonda amicizia con Fernand Braudel in un viaggio di ricerca negli archivi di Simancas nel 1933. Grazie alla permanenza nell’archivio spagnolo, nel 1934 scrisse un’importante opera storiografica, Lo Stato di Milano al tempo di Carlo V, redatto in soli tre mesi, anche di notte. Pubblicato nella prima edizione nel 1934 e che consentì a Chabod di vincere il concorso per la cattedra di Storia moderna presso l’Università per stranieri di Perugia. Per la redazione dell’opera Chabod partì dai documenti d’archivio di Simancas, per descrivere un quadro generale dello Stato di Milano, tentando poi di abbracciare anche il vasto campo sociale tramite la lettura di documenti burocratici. Dopo quattro anni, pubblicò un altro studio sullo Stato di Milano sotto il dominio di Carlo V, Per la storia religiosa dello Stato moderno di Milano sotto il dominio di Carlo V, in cui mise in evidenza come la religione cristiana nelle sue forme devozionali fosse fondamentale per la struttura istituzionale della costruzione dello Stato moderno. Nel saggio si ha un’analisi dettagliata delle istituzioni ecclesiastiche, della vita quotidiana degli appartenenti al clero, oltre alla crisi religiosa anticipatrice della riforma protestante e oltre alle sue conseguenze controriformistiche. Il testo pubblicato nel 1938 fu influenzato dallo studio da parte di un cospicuo numero di studiosi modernisti delle vicende della Controriforma del XVI secolo. Esemplari furono il saggio di Carlo Morandi, Problemi storici della Riforma, pubblicato nel 1938, e la pubblicazione dell’Alfabeto cristiano di Juan de Valdés, con la prefazione di Benedetto Croce, nel medesimo anno.

Nell’anno successivo venne pubblicato l’importante saggio Eretici italiani del Cinquecento di Delio Cantimori. Chabod e Cantimori perseguirono un metodo storiografico pervaso da una ricerca prettamente etica in cui la religione rappresentava un elemento unificante, imprescindibile da escludere nei fattori storici. Stessa metodologia di ricerca applicata anche per comporre La Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. L’idea di una storia delle relazioni internazionali dell’Italia era nata nell’ambito dell’Ispi, ente fondato nel 1933 e inaugurato nel marzo del 1934, per volere di Alberto Pirelli che ne fu il presidente. L’ente era collegato al Ministero degli Esteri, alla Banca Commerciale e finanziato anche dalla Presidenza del Consiglio. Vi lavorarono diversi storici come Omodeo, Salvatorelli, La Mola e lo stesso Chabod. Quest’ultimo iniziò le sue ricerche nel 1936 che si protrassero fino al 1943. Ebbe modo di consultare l’Archivio degli Affari esteri, quello francese del Quai d’Orsay, oltre a quello storico di Vienna. Dopo la consultazione degli archivi, Chabod si rese conto che necessitava anche di altre fonti diverse da quelle ufficiali e queste erano i carteggi personali raccolti negli archivi privati. Chabod consultò le carte private di Emilio Visconti Venosta, i diari personali di Costantino Nigra, oltre all’archivio personale di Vittorio Emanuele II. L’apporto metodologico fu chiaramente anti-meccanicistico, in cui la filosofia della storia era chiaramente di stampo crociano. Il momento storico si andava a porre in relazione dialettica con la volizione umana:

Perché, prima di tessere l’ordito minuto di quella politica, prima di immergermi nella parte più tecnica direi del dio assunto, mi è sembrato indispensabile chiarire quali fossero le basi, materiali e morali, su cui quella parte specifica e tecnica necessariamente passava, quale il complesso di forze e di sentimenti onde era avvolta ed entro cui doveva muoversi, in quel momento storico, anche la iniziativa diplomatica. Vale a dire, passioni e effetti, idee e ideologie, situazione del paese e uomini, tutto ciò in una parola che fa della politica estera nient’altro che un momento (F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, vol. I, Laterza, Bari 1965, p. 10).

Nuovo utilizzo di fonti per lo studio di un determinato periodo storico attuato da Chabod che fu sintetizzato nelle lezioni sul metodo storico, che lo storico tenne durante le lezioni di storia moderna all’Università Statale di Milano e poi, in seguito, alla Sapienza di Roma. Chabod eseguì delle copie dattiloscritte, in poche centinaia di esemplari, pubblicati, con vari emendamenti, per ben otto volte nell’arco di circa vent’anni. Le dispense avevano il seguente titolo: Sommario metodologico, che poi venne mutato nelle successive edizioni, dapprima in Questioni metodologiche e infine in Premessa metodologica. Le dispense sono state poi curate e raccolte da Luigi Firpo e pubblicate in volume da Laterza nel 1969, con il titolo di Lezioni di metodo storico.

Secondo Chabod, l’unica regola principale era la ricerca di un metodo personale «un proprio procedimento metodologico». Dopo una premessa in cui prendeva in esame le varie fonti che trattavano di storia della storiografia, che andavano da Cicerone ai Grundriss dei Historik di Droysen, quest’ultimo considerato il massimo esponente della scuola dello storicismo tedesco. Chabod entrava nel dibattito storiografico, teorizzando che per lo storico le fonti dovevano ovviamente limitarsi ai documenti scritti. Questi a loro volta dovevano essere suddivisi in due categorie: fonti documentarie e fonti narrative. Le prime dovevano raccogliere atti pubblici e privati, come le bolle papali, diplomi imperiali per il medioevo, poi in età moderna avrebbero dovuto contenere i dispacci dei legati e dei ministri degli esteri. Per la seconda categoria dovevano far parte le fonti narrative ovvero tutta quella tipologia di scrittura creativa, le biografie, la produzione memorialistica e quella delle cronache, tipi di letterature, quest’ultime due, particolarmente ampie nel basso medioevo. Fonti narrative che nella scuola storicistica erano state considerate non oggettive a discapito di quelle documentarie. Ma per Chabod le fonti narrative dovevano essere  complementari a quelle oggettive, come aveva dimostrato anche nella Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896.

Chabod sosteneva che la soggettività associata alle fonti narrative poteva essere presente anche in quelle documentarie, il che poteva compromettere tutta l’attività di ricerca. Per evitare tale errore, lo storico avrebbe dovuto eseguire una serie di analisi, che consistevano nell’esaminare il profilo intellettuale di chi fosse il redattore del documento, poi in una seconda fase analizzare il contesto storico e ambientale in cui il documento era stato redatto. Ovviamente lo storico doveva essere in grado di stabilire anche l’autenticità di una data fonte, sia esso un documento di tipo documentario o narrativo. Secondo Chabod andava condotto un esame sulla fonte, secondo due fasi ben distinte, «l’esame intrinseco ed estrinseco». La prima di queste fasi consisteva nell’analizzare la forma esteriore del documento, il tipo di materiale in cui era realizzato, la tipologia di scrittura utilizzata, la grafia, la verifica delle formule utilizzate per la redazione del documento, oltre all’analisi della struttura morfo-sintattica. Una volta eseguita la prima fase di esame, andava effettuata la seconda fase, quella dell’esame intrinseco in cui il documento andava analizzato nella sua non confutabilità rispetto al contesto storico coevo.

Tali precetti di carattere metodologico erano gli strumenti intellettuali attuati da Chabod durante i suoi lavori di ricerca ed anche per impostare i suoi corsi universitari. Esemplificativo in tal senso fu il corso sulle origini della Rivoluzione francese, tenuto nel 1951-52 nel corso di  Storia moderna della Facoltà di scienze politiche all’Università di Roma La Sapienza. Chabod fondò le sue lezioni partendo dall’assunto di Georges Lefebvre, sostenitore delle quattro diverse rivoluzioni francesi susseguitesi senza soluzione di continuità dal 1788 al 1830, come aveva teorizzato nell’opera l’Ottantanove, tradotta in Italia per Einaudi nel 1939, adottato come testo obbligatorio per il corso. Chabod per suffragare la tesi di Lefebvre, utilizzò lo studio delle “fonti narrative” degli scrittori e pubblicisti francesi del XVIII secolo, quali Fénelon, Boulainvillers, Dubos, Montesquieu, D’Argenson e Sieyès, insieme a quelle dei prelati francesi del Settecento.

Chabod diede un contributo significativo allo sviluppo scientifico della storiografia. La storiografia italiana aveva fatto uno sviluppo di carattere metodologico rispetto a quella codificata da Gioacchino Volpe, ma Chabod rimaneva pur sempre uno storico che si era formato negli anni Trenta, in cui la storiografia era caratterizzata da una forma disciplinare generalista, in cui non vi era una separazione netta tra la ricerca storica per quanto concerne l’ambito cronologico e la specialità analizzata. Si può congetturare che la polemica che vide protagonista lo stesso Federico Chabod con Arnaldo Momigliano nel 1959 possa essere riferita ad una differenza di veduta di metodo storico tra i due storici. La polemica si sviluppò per via epistolare, in tutto furono quattro lettere, due di Chabod e due di Momigliano, e nacque dopo che Arnaldo Momigliano aveva redatto un necrologio su Carlo Antoni, deceduto il 3 agosto del 1959. Necrologio che doveva essere pubblicato sulla «Rivista storica italiana». Momigliano aveva inviato le bozze dell’articolo ai condirettori della rivista, ovvero Sestan, Venturi, Maturi, Cantimori, Falco e Chabod, condirettore era anche lo stesso Momigliano. Quest’ultimo, nella seconda e terza parte dell’articolo, dava un giudizio sugli storici che provenivano dalla scuola storicistica italiana del primo dopoguerra, accusandoli di essersi messi al servizio della nazione fascista senza aver la contezza che stavano contribuendo all’affermazione del regime di stampo nazionalista, sulla scorta del nazionalismo di stampo naturalista propugnato da Herder, ritenuto il precursore dell’ideologia di matrice nazista in Germania. Chabod sentendosi accusato direttamente, scrisse un’epistola indirizzata a Momigliano alquanto violenta, sia nei toni che nello stile.

Ovvio che al netto di tali polemiche, Momigliano muoveva la sua critica nei confronti della scuola storicistica di stampo crociano, che secondo lui ormai era superata a vantaggio di una metodologia storiografica sempre più parcellizzata e specialistica, che aveva come modello la scuola inglese e che Momigliano, a causa dell’abbandono dell’insegnamento accademico in Italia provocato dalla promulgazione nel 1938 delle leggi razziali, trovò ospitalità in Inghilterra, in cui svolse attività di ricerca a Oxford, University College di Londra e al Warburg Institute, dove ebbe l’occasione di venire in contatto con correnti storiografiche nuove in cui negli anni Cinquanta gli atenei inglesi si ponevano come l’avanguardia della storiografia.

Bibliografica critica:

D. Cantimori, Federico Chabod, in «Belfagor» XV, n. 6, 1960, pp. 688-704.

R. Morghen, Federico Chabod (23 febbraio 1901-14 luglio 1960), in «Archivio Storico Italiano», CXIX, n.3/4, 1961, pp. 462-467.

Federico Chabod e la “nuova storiografia” italiana dal primo al Secondo Dopoguerra, 1919-1950, a cura di B. Vigezzi, Jaca Book, Milano 1984.

G. Sasso, Un carteggio del 1959, Il Mulino, Bologna 1996.

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