Giusy Capone insegna Lingua e cultura greca e Lingua e cultura latina dal 1998. Giornalista, è redattrice della Rivista culturale bilingue registrata "Orizzonti culturali italo-romeni"; si occupa delle pagine culturali di diversi portali dell'area Nord di Napoli; collabora con l'Istituto di Mediazione linguistica di Napoli; cura un blog letterario.
Μήδεια, “astuzie, scaltrezze”, incessantemente ricordata come assassina dei suoi figli.
Il mito ha ispirato Pindaro nella Pitica IV, Euripide nella tragedia omonima e nel perduto Egeo, Eschilo e Sofocle, le cui tragedie non sono pervenute, Apollonio Rodio nelle Argonautiche e tra i latini le tragedie per noi perdute di Ennio (Medea exul) e Ovidio, la Medea di Seneca e le Argonautiche di Valerio Flacco. Anche Lucano aveva scritto una Medea, non compiuta.
Nell’età moderna, ispirandosi a Euripide e a Seneca, celebrarono il mito di Medea, tra gli altri, P. Corneille e G.B. Niccolini con le tragedie omonime, Fr. Grillparzer con la terza parte della trilogia classica Il vello d’oro, H. Lucas con la riduzione da Euripide, E. Legouvé con la tragedia Médée.
Tra le varie opere musicali eccelle la Medea di L. Cherubini, su libretto del francese Hoffman; altre opere di M.-A. Charpentier, G. Benda, G. Pacini, D. Milhaud. Da ricordare, infine, il dramma Lunga notte di Medea di C. Alvaro ed il film, Medea, realizzato da P.P. Pasolini per l’interpretazione di M. Callas.
All’origine della tradizione artistica è Medea di Euripide, rappresentata nel 431 a. C.: straripante ed incontrastata personalità; emotiva e passionale; vittima di pulsioni interne incontrollabili ed attanagliata da una morsa di dolore; violenta e feroce eppur dubbiosa.
Prima ancora che Medea domini la scena, fatto avvenuto esclusivamente nell’incipit del primo episodio, le donne del coro hanno udito la sua voce minatoria giungere dalla parte interna della casa, auspicando che la prole perisca unitamente al loro genitore (Medea, vv. 110-114); successivamente, l’indignazione cede il passo a parole di cupo sconforto, con cui la maga compatisce, costernata, la sua triste storia di donna esule e rinnegata (Medea, vv. 160-167).
Tali fugaci cenni, che assumono il carattere di un acre sfogo, colmo di tormento e zeppo di livore, in seguito vengono riproposti e dilatati nel dialogo con le donne del Coro, a cui Medea invoca indulgenza e mitezza. Il brano è meritevolmente rinomato per l’ampiezza tributata alla condizione femminile, modello eccezionale in un poeta tragico.
Le parole di Medea, invero, quantunque conferiscano alla sua individuale avventura un valore esemplare, ne oltrepassano la individualità e possono essere reputate una disamina critica complessiva del legame fra Uomo e Donna nell’ambito di una unione matrimoniale o ad essa similare. Adottando i coevi parametri di percezione sociale ed individuale, la discrepanza tra condizione maschile e femminile era ritenuta un dato di ordine congenito e necessario nella vita della famiglia e della πόλις: gli abbandoni o gli assassini delle neonate si verificavano soventemente, laddove era inusitato che ciò accadesse rispetto ad un maschio in buona salute e ben formato. Le figlie, in realtà, erano concepite dalla famiglia un gravame non di scarso conto, giacché dovevano essere mantenute fino ai quattordici o sedici anni, età prevista per il matrimonio nonché fornite di una dote. Di conseguenza, un padre non avrebbe nutrito più figlie di quante ne potesse fornire di dote, valutando che l’entità della dote influenza decisamente l’eventualità di un buon matrimonio.
Sconfortanti le parole con cui Medea asserisce che le donne debbono “acquistare” ad esoso prezzo un consorte, che si farà, poi, il loro proprietario, insinuano, precisamente, ciò (Medea, vv. 232-234). Ella dichiara che sia pressoché inattuabile, per una donna, affrancarsi da uno sposo malaccetto, invece per l’uomo ciò è molto più fattibile. Infatti, se teoricamente il divorzio era ottenibile, su spinta di ambedue i coniugi oppure di uno solo di essi, nei fatti ciò era valido per l’uomo solamente. Il marito poteva spezzare l’unione con semplicità, cacciando di casa la moglie; la donna che avesse desiderato divorziare doveva portare il “caso” di fronte all’arconte, appoggiata dal padre o da un altro consanguineo maschio, poiché non le era riconosciuta “figura giuridica”.
Indicativo il fatto che, nell’Atene classica, si conoscano unicamente tre casi di divorzio caldeggiati dalla moglie; il più celebre è quello in cui è coinvolta Ipparete, moglie di Alcibiade. Nel corso della guerra del Peloponneso, la donna lasciò il tetto coniugale e andò a vivere in casa del fratello Callia; allorché andò dall’arconte per la registrazione del divorzio, Alcibiade stesso si intromise e la ricondusse a casa con l’uso della forza (Plutarco, Vita di Alcibiade, 8, 5). Appare trasparente che la donna vivesse per diventare moglie e genitrice; ciò è confermato inoltre dalle epigrafi mortuarie di ragazze trapassate precocemente, nelle quali si sottintende il fallito compimento degli sposalizi e della maternità. Efficace è che addirittura irriducibile Antigone sofoclea spicchi parole di vittimismo poiché queste felicità le sono negate.
Medea narra, poi, del matrimonio, enfatizzando la complessa condizione della donna, dalla quale si esigere tanto, concedendo molto poco in cambio: concretezza e quotidianità. Secondo l’usanza, le giovani si sposavano presto, raggiunta la maturità sessuale, laddove gli uomini, generalmente, si sposavano intorno ai trent’anni: “Bisogna essere indovine”, considera malinconicamente Medea, sottolineando che, mentre l’uomo può seguitare la sua consueta vita, frequentando chi gli pare e piace, alla donna non sono permesse amicizia e libertà; per di più, è sottinteso che debba essere devota e fedele al marito. A questo punto, Medea propone la più proverbiale e la più popolare delle discolpe maschili riguardo alla discriminazione femminile: le donne conducono una vita distesa e in assenza di pericoli, al sicuro nella loro abitazione, mentre agli uomini competono il lavoro e gli azzardi della guerra. Medea non pare disposta ad accettare quest’ottica che sancisce una volta di più la posizione del tutto subalterna della donna e la sua risposta è meritatamente famosa: “Io preferirei tre volte stare dietro lo scudo, piuttosto che partorire una volta sola”.
Gli studi statistici ed antropologici condotti in proposito le danno, purtroppo, ragione. Nella Grecia classica, l’età media raggiunta da un adulto era di circa quarantacinque anni per gli uomini e dieci di meno per le donne; uno dei motivi della precoce morti femminile era appunto il parto o le complicazioni delle nozze e della maternità, ed è significativo che perfino l’inflessibile Antigone sofoclea pronunci parole di autocommiserazione perché queste gioie le sono negate.
Medea parla, poi, del matrimonio, sottolineando la difficile condizione della donna, dalla quale si pretende molto, concedendo assai poco in cambio; anche in questo caso, l’eroina del mito si cala in una concreta situazione quotidiana. Secondo la consuetudine, le ragazze si sposavano presto, appena raggiunta la maturità sessuale, mentre gli uomini, in genere, si sposavano verso i trent’anni. Poiché la sposa si trasferiva in casa del marito è facile immaginare quale dovesse essere il suo stato d’animo, nel trovarsi di colpo fuori del suo ambiente, con un uomo che non la conosceva e del quale ella ignorava praticamente tutto: «Bisogna essere indovine» commenta amaramente Medea, sottolineando che, mentre l’uomo può continuare la sua vita di sempre, frequentando chi vuole e come vuole, alla donna non sono concesse né amicizia né libertà; inoltre, è implicito che debba essere fedele al marito senza la minima garanzia che il coniuge faccia altrettanto. A questo punto, Medea porta in campo la più tradizionale e la più nota delle giustificazioni maschili riguardo alla discriminazione femminile: le donne, in fondo, vivono un’esistenza tranquilla e senza pericoli, al sicuro nella loro casa, mentre agli uomini spettano il duro compito del lavoro ed i rischi della guerra. Medea, però, non sembra disponibile ad accogliere questa visione che ratifica la posizione subordinata della donna e la sua risposta è famosissima: “Io preferirei tre volte stare dietro lo scudo, piuttosto che partorire una volta sola”.
Si presti attenzione: nella Grecia classica, l’età media raggiunta da un adulto era di circa quarantacinque anni per gli uomini e dieci di meno per le donne. Una delle ragioni delle acerbe morti femminili erano il parto oppure le complicanze che ne discendevano. Una “tomba di famiglia” posta nell’agorà di Atene ha riconsegnato ventidue scheletri: nove sono di neonati, due di bambini sotto i sei anni, quattro di donne adulte, una di più di quarant’anni e tre di età compresa fra i sedici e i diciotto; i sette scheletri maschili hanno rivelato un’età fra i trentaquattro e i quarantotto anni.
Tali resti attestano con limpidezza l’alta mortalità infantile ed il pericolo sfidato dalle donne in età fertile, dovuto a gravidanze in età prematura e ravvicinate tra loro. Siffatto rischio non cessava in tempo di pace, quando gli uomini erano al sicuro dal pericolo di crollare in battaglia, il più alto fattore di letalità maschile fra i venti e i quaranta anni.
Al ben giustificato stato di sofferenza derivante dalla condizione femminile, per Medea se ne addiziona un altro, più personale, ma non meno penoso, spettante alla sua condizione di esule. Le donne del Coro alle quali si volge vivono in un luogo che è loro naturale, nel quale, pur con emarginazioni e impedimento, sono pubblicamente ed affettivamente introdotte. Per Medea Corinto è una città straniera, che non le ha regalato nessuna eventualità d’inserimento. Per Medea, barbara e άπολις, “senza patria”, l’unico punto di riferimento, l’unico piedistallo non solo affettivo, è stato Giasone, l’uomo che l’ha condotta via “come una preda” e che, pur avendo avuto da lei figli maschi, cosa che dovrebbe garantirle deferenza e difesa, ha determinato di abbandonarla. Non si ravvede alcun dubbio, così, che egli sia un infame: Medea annienta risolutamente la tradizione secondo cui una donna può trovare supporto solo negli uomini, e, visto che non possiede padre né fratelli, domanda appoggio e addirittura favoreggiamento alle altre donne, qualsiasi sia il contegno che ella terrà verso l’infedele, torvamente preannunciato nelle sue ultime parole.