Alessandro Della Casa (1983) è assegnista presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione dell'Università degli Studi di Torino, nonché docente a contratto di Storia del pensiero politico presso l’Università degli Studi della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2033). È autore di numerosi articoli e delle seguenti monografie: Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill(2009); L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (2014); Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (2018); La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a: Quale politica dopo il virus? Concetti politici alla luce della pandemia, a cura di G. Sciara, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 252, € 24,00.

A pochi giorni dall’inizio del lockdown, nel marzo 2020, anche in Italia iniziarono a diffondersi in rete interventi che reiteravano la promessa che tutto sarebbe andato “bene” e saremmo presto tornati ad “abbracciarci con più calore” in una ritrovata normalità. Altri, viceversa, proclamavano apocalitticamente “Nulla sarà più come prima”: una minaccia o un miraggio di salvezza, considerando il Covid-19 la nemesi giunta a punire la hybris umana – o almeno occidentale – e a indicare la via di un più sano modello di vita (“la normalità era il problema”), meno votato all’apparenza e alla competizione.

Oggi l’utilizzo delle mascherine è ormai raro e obbligatorio solo in ospedali e RSA, gli avvisi sull’obbligo di distanziamento scoloriscono sulle vetrine di qualche negozio (magari definitivamente chiuso) e passano praticamente inascoltati – e comprensibilmente sovrastati dalle notizie sul conflitto in Ucraina o sui disastri naturali – i periodici lanci di agenzia circa nuove contagiose varianti o altre possibili epidemie in arrivo. Si ha quasi l’impressione che quanto avvenuto nello scorso triennio non abbia lasciato grandi tracce nei comportamenti individuali, nel discorso pubblico e nelle dinamiche mondiali. Eppure così non è. Lo attesta l’interessantissimo volume Quale politica dopo il virus? Concetti politici alla luce della pandemia, che si propone, come scrive il curatore Giuseppe Sciara, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna, di tracciare, nei contributi di venti studiosi del pensiero politico, la carriera semantica di altrettanti concetti adoperati «per comprendere e spiegare la politica» e di indagare il ruolo e il significato che essi hanno assunto nel periodo dell’emergenza, provando anche a ragionare su quelli che potrebbero o dovrebbero verosimilmente avere nel prossimo futuro.

Per comprendere come la pandemia abbia contribuito a ridisegnare il linguaggio politico, e dunque la politica stessa, attraverso uno dei percorsi offerti da questo ‘dizionario’, si può partire riflettendo sulla Globalizzazione (voce redatta da Lorenzo Vai). Quale fenomeno che ha esteso lo «sfruttamento intensivo delle risorse naturali» (e qui si badi alla problematizzazione da parte di Stefania Mazzone del dualismo tra uomo e Natura e, dunque, dell’antropocentrismo sotteso anche alla teoria dell’Antropocene), in ragione delle crescenti necessità produttive e della deregolamentazione, la globalizzazione potrebbe infatti aver favorito le condizioni per le quali è avvenuto il “salto di specie” del virus. E questo, di certo, si è diffuso ampiamente e velocemente nel mondo per via della sempre maggiore consistenza e rapidità di spostamento di esseri umani e di merci. Viceversa la «globalizzazione dei saperi» e i programmi di sostegno messi in atto a livello sovranazionale hanno consentito, benché non completamente né in modo omogeneo, di sopperire alle mancanze delle singole istituzioni nazionali, ostacolate dallo stesso regime di interdipendenza mondiale, nella risposta al contagio e alle sue ricadute sul piano sanitario ed economico.

L’innegabile riduzione delle interconnessioni nella fase pandemica – segnalata nei primi mesi anche dalla «visione strettamente nazionale e nazionalistica» della Solidarietà (Annalisa Furia) – non si discosterebbe, peraltro, dal già diffuso ripensamento, secondo il trilemma di Rodrick, della conciliabilità tra democrazia, sovranità e integrazione economica. O, quantomeno, essa avrebbe segnalato l’urgenza di aggiornare gli strumenti di Governance (Alessandro Arienzo) progettati nell’ottica ottimistica dei primi anni Novanta di un «contesto di stabilità, di prevedibilità, di pieno multilateralismo».

All’esplosione pandemica è appunto seguito l’«inaspettato ritorno» dello Stato (Cristina Cassina) che, «forte di nuovi saperi e di nuove tecniche», «ha accresciuto le sue forze e moltiplicato i propri campi di azione». La gran parte del confronto, infatti, è ruotata prevalentemente attorno alle modalità di contrasto alla pandemia adottate dai governi, che hanno assunto poteri di Emergenza (Francesco Raschi), attribuendosi un’ampiezza di prerogative (e in particolare del potere «sulla vita», cioè il terreno della Biopolitica, come rileva Xavier Tabet) apparse ad alcuni – specialmente tra gli Intellettuali (Monica Quirico e Gianfranco Ragona) – incompatibili con il mantenimento delle garanzie costituzionali e prossime a tramutarsi nella «dittatura sovrana» propria, secondo le categorie schmittiane, dello «stato di eccezione».

Invero, sottolinea Maurizio Griffo, pure il ricorso alla «più intensa concentrazione di potere nell’esecutivo», imposta dalla necessità di velocizzare il processo decisionale per contrastare la diffusione del contagio, più che preludere a una differente organizzazione della Costituzione, è la manifestazione di una tendenza di lunga durata a scavalcare la fase deliberativa, dunque i parlamenti. In questa circostanza la giustificazione emergenziale, sulla falsariga della lotta al terrorismo, è stata condita di una superficiale e poco opportuna retorica bellicista. Presentare però il virus come un «nemico invisibile» contro cui si doveva vincere una Guerra «con tutte le armi disponibili» – finché un reale conflitto non si è presentato di fronte ai nostri occhi –, secondo Michele Chiaruzzi, è stato un esempio di distorsione della realtà, che ha permesso di evocare la «mobilitazione» e la «subordinazione»: «Protego ergo obligo». Sempre più smaterializzata, la Paura (Maria Laura Lanzillo), come già Hobbes aveva asserito, si è dunque confermata fonte e strumento dell’attività di governo.

Su questi temi l’Opinione pubblica (Mauro Simonazzi) è apparsa effettivamente divisa, non potendo oltretutto avvalersi, scrive Stefano De Luca, dei «meccanismi» atti a un’elaborazione del giudizio e del consenso pienamente informata, indispensabile in Democrazia. Il distanziamento fisico – e non “sociale”, si rimarca in vari contributi – ha, infatti, costretto il dialogo perlopiù entro i canali digitali. Questi, secondo la «logica filtrante e spettacolarizzante» che li caratterizza, hanno forzato l’amplificazione di speranze e timori, non di rado sulla scorta di fake news; e i cittadini meno consapevoli, nuovamente Folla (Michela Nacci) più che Comunità (Elena Irrera), hanno finito in molti casi per suddividersi nella maniera manichea tipica delle echo chambers.

Su un versante si è assistito all’accettazione acritica e perfino appassionata – non, quindi, alla rassegnazione o alla fortezza adeguate a sopportare un male necessario – delle paternalistiche limitazioni alla Libertà (Giovanni Giorgini) individuale e collettiva e degli strumenti di tracciamento. Sul lato opposto, si è avuto un fiorire di narrazioni degne della più fantasiosa Distopia (Manuela Ceretta) riguardo all’origine (se non all’esistenza) del virus, alla sua propagazione e alle celate finalità dei mezzi (primariamente il vaccino) per contrastarlo. In anni nei quali la produzione della serie distopica più nota, Black Mirror, è stata sospesa perché, nelle parole del suo creatore, difficilmente il pubblico, già spaventato dalla quotidianità, avrebbe potuto tollerarne un’altra stagione, si può chiaramente interpretare la massiccia adesione alle tesi complottiste quale meccanismo psicologico di autodifesa. Essa avrebbe, infatti, permesso lo spostamento dei timori, dal «piano medio-sanitario dell’epidemia di cui poco si conosceva», a quello apparentemente più noto della «politica». Maggiori indiziati delle presunte cospirazioni si sono ritrovati, oltre allo Stato (sulla falsariga dei classici di Orwell e Zamjatin), gli esperti, presunti ideatori di piani per impiantare una Tecnocrazia (Giovanni Borgognone) mondiale retta dal capitalismo internazionale. È però indubbio che, nell’esporre i propri provvedimenti, i governi si siano fatti scudo del parere di tecnici – in questa occasione nel settore sanitario dopo anni di supremazia del ramo economico –, tralasciando lungamente l’indispensabile bilanciamento, spettante alla «decisione politica», con gli «altri fattori sociali, economici, giuridici, psicologici». Scrive bene Pier Paolo Portinaro nell’introduzione che «la gestione dell’emergenza evidenza [la] debolezza del potere politico apicale, sempre più supportato ma anche assediato e spesso contraddetto dalle espertocrazie».

Una delle lezioni che si possono trarre dalla lettura del libro, della cui ricchezza si è dato solo un assaggio, è che le scelte e il tenore del dibattito seguenti l’avvento della pandemia abbiano accelerato processi perlopiù già in atto. Negli ultimi tre anni sono, o dovrebbero essere, venuti alla vista lo sfibramento delle reti, anche semantiche (basti pensare alla banalizzazione del discorso sui Diritti, su cui si sofferma Antonio Maria La Porta), che ai vari livelli compongono le nostre società e la disfunzionalità delle logiche utilitaristiche e materialistiche che le informano, come osserva Giacomo Tarascio nella voce Crisi.

Se il coronavirus non ci ha resi “migliori”, si può quantomeno sperare che l’esperienza sia venuta a suggerire l’impellenza di operare con perizia nel delicato compito di rendere le istituzioni politiche nuovamente adatte al governo dei «processi sociali» e di diffondere quella che Portinaro definisce una «pedagogia della cittadinanza», responsabilmente matura e cosciente che il pluralismo che connota inevitabilmente l’esistenza umana esige il «bilanciamento tra diritti (e valori), e tra diritti e doveri».

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