Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Domando scusa al lettore se nel mio breve intervento farò riferimento a un evento privato. In questi giorni i miei familiari ed io, dopo vari confronti con gli specialisti, abbiamo dovuto prendere la dolorosa decisione di praticare l’eutanasia al nostro cane. Purtroppo, colpita da una grave e incurabile malattia, in età ormai avanzata, la prospettiva che aveva innanzi era l’intensificarsi delle sofferenze e poi la morte. Nelle ultime settimane, guardandola spegnersi lentamente, diversi pensieri hanno percorso il mio cuore. In particolare nell’ultima giornata, quando la osservavo, distesa nel suo fazzoletto di terra, ignara e stremata. Se la moralità, e con essa l’imputabilità, la colpa, possono darsi solo a partire da un certo livello di distanza tra il vivere e la coscienza di questo vivere, in una sofferenza che sa appena di sé, priva del raddoppio di un senso che vi si può sovrapporre – com’era quella che mi trafiggeva da una pozza di prato umida – non c’è forse una forma acuta di dolore innocente?

Tornano alla mente i famosi e struggenti versi di La capra di Umberto Saba:

Ho parlato a una capra.

Era sola sul prato, era legata.

Sazia d’erba, bagnata

dalla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno

al mio dolore. Ed io risposi, prima

per celia, poi perché il dolore è eterno,

ha una voce e non varia.

Questa voce sentiva

gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita

sentiva querelarsi ogni altro male,

ogni altra vita.

Per il poeta triestino, gli animali, grazie al loro immediato rapporto con la vita, sono la porta per trovare un contatto più autentico con l’esistenza (Marzia Minutelli, in un saggio di qualche anno fa, dal titolo L’arca di Saba «i sereni animali / che avvicinano a Dio», ha offerto una guida interessante alla “zoologia” di Saba). Ma in cosa consiste tale rapporto fondamentale? Qual è la stoffa di cui è composta la solidarietà tra i viventi? Qui sta un bivio fondamentale, al quale ogni essere gettato nell’esistenza, e dunque consegnato alla domanda di senso, è conficcato. Che cosa ci include davvero? La gioia, il godimento di sé della vita che genera senza posa i viventi, come scintille di un eterno incendio, oppure una radicale finitudine, il dolore che attraversa tutto ciò che muta e finisce, la scissione inemendabile dell’animo che condanna a «rispondere del selvaggio dolore di essere uomini», come scriveva Pasolini?

La direzione in cui Saba ci fa guardare è inequivocabile. Quando il poeta, ammalato, osserverà un mobile antico della sua stanza, scorgendo dietro una vetrina le stoviglie che appartennero alla madre e agli avi, scriverà in La vetrina:

Ciascuna d’esse a un tempo mi richiama

che fu sì dolce, che per me non fu

tempo, che ancor non ero nato, ancora

non dovevo morire. Ed anche in parte

ero già nato, era negli avi miei

il mio dolore d’oggi. E in un m’accora

strano pensiero, che mi dico: Ahi, quanta

pace al mondo prima ch’io nascessi;

e l’ho turbata io solo. Ed è un mendace

sogno; è questo il delirio, amiche cose.

C’è stato un tempo, ragiona il poeta, in cui la non esistenza era la salvezza: l’essere tratto dal Nulla significa iniziare a entrare nella caducità dell’esistenza, belare sotto la pioggia, legati e sazi d’erba. La domanda per noi si ripropone: è bene che le cose esistano se poi sono attraversate dal dolore? Qui esistenza concreta e metafisica si intrecciano, a dispetto della vulgata che le dispone su due rette parallele. L’intreccio sta nella questione del rapporto tra “Essere” e “Bene”. Se la tradizione metafisica ha affermato fin dai suoi inizi, nella maggioranza delle sue voci, l’equivalenza tra “Essere” e “Bene”, il moderno nichilismo ha revocato in dubbio tale posizione e con ciò la preferibilità di principio dell’esistenza rispetto al nulla. E così Nietzsche, ne La nascita della tragedia, riallacciandosi al Sofocle dell’Edipo a Colono, scriveva:

L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente”.

Su questa scia, tra i nostri contemporanei, merita una citazione il filosofo sudafricano David Benatar, esponente dell’“antinatalismo”, corrente di pensiero che, in sintonia intellettuale con autori quali Schopenhauer o Cioran, dichiara la preferibilità morale della non procreazione: uno sguardo spassionato alla condizione umana, sostiene Benatar, mostra come la quantità di dolore sia assai maggiore della quantità di felicità. Perché dunque infliggere a un altro essere umano l’infelicità insita nella vita, e per giunta senza neppure domandargli il permesso? (Si può vedere D. Benatar, La difficile condizione umana. Una guida disincantata alle difficili domande esistenziali, trad. it. di L. Lo Sapio, Giannini, Napoli 2020).

Eppure, dopo tutte queste considerazioni, resta ancora qualcosa. La coscienza umana, qualunque sia la sua origine, porta in sé una protesta, un “no” dinanzi al dolore del mondo. Il senso d’ingiustizia provato, ad esempio, nel distacco da un essere che amiamo, la rivolta che s’accende nel nostro cuore (la “rivolta metafisica”, la chiamava Camus) perché l’esistenza non è come dovrebbe ci avvisa, forse, di un di più che va oltre il male. In fondo è un problema affrontato anche da Kant (mi scuso per le semplificazioni che seguiranno). Nella Critica della ragion pratica (1788), il filosofo tedesco scrive che essere felice è necessariamente l’aspirazione di ogni essere razionale finito. Ciascun uomo non solo può conoscere le cose per come sono, ma aspirando alla felicità, implicitamente le desidera in un certo modo (in cui ancora non sono ma dovrebbero essere). Sappiamo che per Kant, però, tale aspirazione alla felicità non s’incontra con la moralità. Il desiderio di felicità (che è particolare, perché che si realizza per ciascun soggetto in modo diverso) non può dettare il dovere morale (lo può solo la legge morale che è universale). Da ciò segue che l’uomo virtuoso, per Kant, non sempre è felice; anzi, si può dire che l’uomo è tanto più virtuoso quanto più segue la legge morale indipendentemente dalla felicità personale che gliene potrà venire. Purtuttavia, prosegue Kant, tutto ciò non ci soddisfa pienamente.

Essere bisognevoli di felicità e anche degni di essa – scrive il filosofo sempre nella Critica della ragion pratica  ̶  ma non esserne partecipi non è cosa compatibile con il volere perfetto di un essere razionale che avesse al tempo stesso potestà su ogni cosa, cioè Dio, anche se noi ci rappresentiamo un tale essere, cioè Dio, solo per experimentum, cioè è una finzione.

In altre parole, anche se dal punto di vista razionale dobbiamo rigorosamente affermare la separazione tra moralità e felicità (non sempre l’uomo buono è felice), alla ragione medesima appare intollerabile pensare che un uomo sia degno della felicità perché ha obbedito al dovere morale e insieme non possa essere effettivamente felice.

Che la virtù (cioè il meritare di esser felici) sia la “condizione suprema” di tutto ciò che comunque può apparire desiderabile […] e, quindi, che sia il “bene supremo”, è stato dimostrato nell’Analitica. Ma con questo essa non è ancora il bene totale e completo […] perché per esser questo, dovrebbe aggiungervisi ancora la “felicità”, afferma Kant.

Lo spirito umano, insomma, si scopre riottoso ad accettare l’ingiustizia che il mondo, effettivamente, spesso ci presenta: i buoni che soffrono mentre i malvagi godono. Sappiamo che da tali considerazioni, Kant farà seguire il postulato dell’esistenza di Dio: «è moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio», dirà il filosofo tedesco, non volendo con ciò portare una “prova dell’esistenza di Dio” (impresa per lui impossibile sul piano teoretico), ma desiderando mostrare una necessaria esigenza della coscienza morale.

Per quanto mi riguarda, non vedo altro luogo migliore per affermare plausibilmente la libertà umana se non nel “no” che risale dalle viscere dinanzi al male nel mondo: non dal male che si fa a me, ma dal male che si dà, indipendentemente dal mio coinvolgimento. Se non fossimo liberi, la questione del “come dev’essere il mondo per essere come dovrebbe” non si porrebbe neppure. Ci basterebbe la verità, e invece vogliamo pure la giustizia: il cancro è una verità, ma la sua giustizia proprio ci sfugge. Per questo Sergio Quinzio ha detto: «Guardate gli occhi di un cane che muore, e vergognatevi della vostra presuntuosa teologia», perché c’è chi vorrebbe addomesticare lo scandalo coi concetti. Dinanzi a ciò c’è una protesta che in noi risuona. Che alla nostalgia di un senso che riscatti il dolore corrisponda davvero qualcosa e non il nulla, nessuno lo può sapere scientificamente: ci sentiamo chiamati, ma non sappiamo da chi o da che cosa. Possiamo solo scegliere da quale parte inclinare.

Io rivado ora al respiro affannoso del mio cane, ai suoi occhi con dentro una parola che non poteva venire, allo strano miscuglio di colpa e sollievo che viene se penso di aver accorciato il suo dolore: c’è abbastanza buio per immaginare che sia finita lì, e altrettanta luce per immaginare il contrario. Il problema non è chiudere la questione ma imparare a starci dentro.

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