Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan (Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Nel settembre 1995, l’antropologo statunitense Johan Reinhard e il collega peruviano Miguel Zarate si trovano sul vulcano Ampato, che è parte della cordigliera delle Ande, in Perù. Qui fanno una scoperta sensazionale: la mummia di un’adolescente di circa 12 anni, vissuta nella metà del 1400. La ragazza era morta a causa di un forte colpo al cranio. Con ogni probabilità, non si era trattato di un incidente: Juanita  ̶  questo il nome dato alla mummia  ̶  era stata sacrificata agli déi Inca. Lo stato di perfetta conservazione del corpo, ha permesso agli studiosi di condurre molte indagini interessanti e ha reso Juanita una sorta di star dell’archeologia. Chiaramente, la vicenda di questa ragazza non è un caso isolato. La pratica dei sacrifici umani, spesso proprio di bimbi o addirittura neonati, è largamente attestata nella storia umana, presso tante civiltà. Il legame tra violenza e sacro, che emerge prepotentemente appena si guarda alla storia delle religioni, è uno dei temi più studiati dagli specialisti. Secondo William Robertson Smith, ad esempio, la forma più antica di sacrificio sarebbe quella di comunione. Compiuto dal clan che ne condivide la responsabilità attraverso il consenso dell’uccisione e la consumazione della vittima, tale sacrificio consente la comunione con il dio e tra i membri della comunità stessa. La vittima è sacra in quanto fornisce ciò che è vitale per la sussistenza del clan. Naturalmente su questo genere di temi il dibattito tra studiosi è sempre accesso: l’elemento comune alle diverse posizioni è, appunto, il legame tra sacro e violenza. Tale rapporto sembra emergere, in continuità con l’esperienza religiosa umana, anche nel cristianesimo, in particolare nella figura del crocifisso. Qui, però, il discorso assume una piega singolare, che proprio uno dei massimi critici del cristianesimo ci aiuta a indagare. Stiamo parlando di Nietzsche.

La sua intuizione profonda – l’acume intellettuale di questa figura non smetterà mai di sorprenderci – comprende che, se il cristianesimo dev’essere criticato, non è perché incoraggi la sofferenza, come ripetono coloro che strimpellano a orecchio motivetti sentiti milioni di volte, ma perché rifiuta la sofferenza. La protesta contro il dolore e il tentativo di immaginare un rimedio, se assumiamo il punto di vista nietzschiano, colloca il cristianesimo proprio dalla parte del “platonismo”, cioè di quella perversione dello spirito, che rifiuta di dire “sì” alla vita così com’è e cerca una via d’uscita dall’immanenza assoluta della propria condizione. Come ha sintetizzato il celebre antropologo e studioso delle religioni René Girard, nelle sue splendide pagine dedicate al tema della “morte di Dio”, vi sono due tipi di religione secondo Nietzsche. La prima, quella pagana, comprende che la vita stessa, la sua eterna fecondità e il suo eterno ritorno determinano la sofferenza, la distruzione, il bisogno di annientamento. Essa è al di là del bene e del male. Il secondo tipo, invece, parte da questa visione per superarla col dramma della redenzione.

Ogni volta che, nel mito greco, appare Dioniso, una vittima è fatta a pezzi e divorata dai suoi uccisori. Il dio può essere vittima o assassino. Nel cristianesimo, di contro, il “linciaggio sacro” è interpretato in modo da diventare condanna di tutti i sacrifici del genere. Gesù è l’innocente ingiustamente sacrificato, come Abele e tutti gli altri innocenti della storia umana, la cui condanna è nello stesso tempo critica del sacro arcaico (cui Nietzsche invece consapevolmente si rivolge come a un’aurora colpevolmente spenta dalla morale successiva) e della sua natura violenta. Secondo René Girard, il sacrificio ha la sua origine storica nell’uccisione di una vittima espiatoria sulla quale viene trasferita la violenza innescata dal desiderio mimetico nella collettività. La nascita delle civiltà arcaiche è legata a un omicidio rituale originario, che si consumava previa individuazione di un capro espiatorio cui venivano addossate tutte le colpe collettive e che veniva espulso o ucciso. La scena madre della civiltà è la folla si accanisce sulla vittima espiatrice, che magari successivamente la stessa folla adorerà, come colei che ha consentito alla città di sopravvivere perché ha assunto su di sé la violenza che circolava nel sottosuolo della comunità e che da qualche parte doveva trovare il proprio sfogo. I riti successivi non fanno altro che ripresentare questa origine. Ora, sottolinea Girard, già nell’Antico Testamento e poi nei Vangeli, la logica fin qui presentata è disinnescata: Dio prende il posto della vittima innocente per rendere manifesto lo scandalo di un ordine umano fondato sulla violenza. La passione di Gesù, secondo Girard, inverte lo schema sacrificale: «I Vangeli non si servono certo dell’espressione “capro espiatorio”, ma ne usano un’altra anche migliore: Agnello di Dio. Essa esprime, […] la sostituzione di una vittima a tutte le altre. Ma sostituendo ai connotati sgradevoli e ripugnanti del capro quelli interamente positivi dell’agnello, indica con efficacia maggiore l’innocenza di questa vittima, l’ingiustizia della sua condotta, “il senso causa” dell’odio di cui oggetto». La Passione di Gesù, allora, diventa così una narrazione che vuole demistificare il sacro. In un’ottica credente, si potrebbe dire che la religione, in quanto fenomeno squisitamente umano e dunque interessato dalla distorsione del peccato, è inclusa in ciò che ha avuto bisogno della redenzione del Cristo.

La differenza ravvisabile nei racconti evangelici, è perfettamente colta da Nietzsche. Non a caso, nei Frammenti postumi, nel brano I due tipi: Dioniso e il Crocifisso, il filosofo tedesco, pur mettendo in relazione il mito dell’assassinio collettivo di Dioniso nell’episodio dei Titani con la Passione di Gesù, sottolinea la distanza tra i due racconti, che «non è in base al martirio». Scrive infatti Nietzsche: «Dioniso contro il “Crocifisso”: eccovi l’antitesi. Non è una differenza in base al martirio  ̶  solo esso ha un altro senso. La vita stessa, la sua eterna fecondità e il suo eterno ritorno determinano la sofferenza, la distruzione, il bisogno di annientamento…Nell’altro caso il dolore, il “Crocifisso in quanto innocente” valgono come obiezione contro questa vita, come formula della sua condanna». Dioniso e Gesù vengono sacrificati. Nel caso del Cristo, però, l’enfasi cade sull’innocenza della vittima. In questo senso, sottolinea René Girard, davanti alla grande abbondanza di dèi uccisi collettivamente nei culti religiosi di tutto il mondo, Nietzsche mantiene una sensibilità ermeneutica che gli evita di appiattire tutte le diversità, come altri antropologi ed etnologi avevano già fatto e faranno successivamente:

Nietzsche ha visto con chiarezza  ̶̶  scrive Girard  ̶  che Gesù non è morto come vittima sacrificale di tipo dionisiaco, ma contro tutti i sacrifici di questo genere. […] La Passione è vista come un’obiezione alla vita o una formula per la sua condanna, dal momento che accusa e respinge tutto quello su cui le antiche religioni pagane erano fondate, e con esse, secondo l’abituale giudizio di Nietzsche, tutte le società umane in ciò che hanno di meglio, le società in cui i deboli e gli sconfitti non impedivano ai “forti” e ai “vittoriosi” di godere i frutti della loro superiorità.

Attraverso i rilievi di René Girard, possiamo cogliere – a mio avviso – come il grande tema dell’assassinio collettivo di Dio (e la sua interpretazione) sia davvero la questione cruciale di una civiltà. L’annuncio nietzschiano della “morte di Dio” viene troppo anestetizzato se non si comprende che in gioco non è semplicemente l’indebolimento della fede in Dio, nei valori o in altri assoluti nell’ateismo moderno, quanto la presa di posizione rispetto a questa questione ancestrale, che non riguarda tanto ciò che è bene o ciò che è male, ma l’origine stessa della nostra distinzione tra bene e male o, per dirla in modo più altisonante, la “moralità del fondamento”.

La questione è insieme morale e metafisica: che cosa favorisce davvero la vita, la volontà di potenza di Dioniso o la volontà d’impotenza del Crocifisso? Se Albert Camus ha detto che la questione filosofica fondamentale è il suicidio, noi affermiamo che più in alto ancora sta il problema del deicidio.

Solo uno sguardo – mi sia permesso di dirlo – scioccamente positivistico può relegare questi temi in una ipotetica fase infantile dell’umanità ormai superata. In tale orizzonte, la passione di Gesù, il Dio che viene ucciso “come agnello senza macchia immolato”, è una visione da cui non si può distogliere lo sguardo. Nietzsche ci ha lottato tutta la vita e ha capito molto, sebbene forse non l’essenziale: ma a questo punto è il cristiano che parla in colui che scrive.

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