Alessandro Della Casa (1983) è assegnista presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione dell'Università degli Studi di Torino, nonché docente a contratto di Storia del pensiero politico presso l’Università degli Studi della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2033). È autore di numerosi articoli e delle seguenti monografie: Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill(2009); L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (2014); Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (2018); La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.
Recensione a: C. Ocone, Il non detto della libertà, Rubbettino, Soveria Mannelli 2022, pp. 200, € 16,00.
Pochi concetti nella storia della cultura, della politica e del pensiero occidentali hanno attirato tanti, e tanto conflittuali e infruttuosi, tentativi di definizione quanto quello di libertà. In questo suo più recente libro Corrado Ocone vaglia gli sforzi compiuti in tal senso da dodici autori della modernità, suddividendoli (ma l’autore premette che tale suddivisione non esclude le capacità di alcuni di loro di sconfinare negli altri piani e modi del discorso) tra coloro che da differenti prospettive hanno scisso la libertà in due differenti, e spesso contrastanti, concetti o concezioni (Benjamin Constant, Isaiah Berlin, Norberto Bobbio, Quentin Skinner), coloro che l’hanno ricomposta in un’ottica empirica liberale (John Locke, John Stuart Mill, Friedrich von Hayek, Raymond Aron) e, in ultimo, quelli che hanno applicato un’impostazione più propriamente filosofica (Immanuel Kant, Friedrich Schelling, Martin Heidegger, Luigi Pareyson); con le riflessioni di Benedetto Croce, anzi i Croce di differenti fasi, a orientare sovente la speculazione verso il disvelamento di ciò che tutte le definizioni delle libertà dei moderni avrebbero, ineludibilmente, omesso di dichiarare.
La disamina non potrebbe principiare che dal discorso su La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni con cui Constant nel 1819, seguendo in effetti una più rigida distinzione di Madame de Staël, fissava su basi storiche la libertà civile (o, meglio, nelle libertà: di opinione, occupazione, proprietà, movimento, riunione, associazione) adatta ai moderni, ma già parzialmente presente nell’Atene periclea, del «godimento pacifico dell’indipedenza privata» da parte dell’individuo e nelle garanzie a essa accordate tramite la limitazione dell’autorità governativa. E la contrapponeva alla libertà delle poleis, società nelle quali non era pienamente tracciata la separazione tra sfera pubblica e sfera privata: l’esercizio collettivo della deliberazione in ogni ambito, con «l’assoggettamento completo […] all’autorità dell’insieme» dell’ancora sconosciuto individuo. Se poi probabilmente «il principale motivo polemico» del discorso era stato il tentativo nefasto, sulla scorta di Jean-Jacques Rousseau e dell’abate Mably, di resuscitare la seconda di libertà nelle fasi più cupe della Rivoluzione francese. Ma Constant insisteva che per garantire la libertà più conveniente ai moderni, che Ocone descrive riprendendo anche il «paradigma immunitario» sviluppato da Roberto Esposito, fosse necessaria la libertà politica della democrazia rappresentativa, latrice non tanto, sottolineò favorevolmente Croce, di edonismo quanto più di «perfezionamento morale».
Principalmente la rivoluzione russa e la declinazione che le sue fonti intellettuali avevano dato della libertà avevano spinto invece Berlin a dedicare, applicando sostanzialmente un approccio analitico alla distinzione del filosofo di Losanna, la conferenza sui Due concetti di libertà del 1959: vale a dire il negativo, quale area non sottoposta a interferenze, e il positivo, quale padronanza di sé stesso da parte dell’individuo. Ocone mette in luce diverse contraddizioni della tesi berliniana. La quale, va detto, è quella che a lungo ha procurato la maggiore notorietà, ma non sempre in senso apprezzativo, allo storico delle idee, costretto negli anni successivi a specificare che la sua evidente preferenza per la libertà negativa – l’apertura al soggetto di un maggiore numero di possibilità di scelta, indipendentemente dal fatto che questi ne usufruisse (o ne potesse materialmente usufruire) – non implicava il farne il valore sempre prevalente sugli altri, né l’opposizione a qualsiasi intromissione dell’autorità pubblica, né un sospetto radicale verso la partecipazione politica. Soprattutto Berlin aveva inteso mettere in guardia dai rischi implicati dalla concezione monistica, per la quale la soluzione di ogni problema umano sarebbe illuminata da un unico valore regolativo e in vista di un unico ideale. La concezione positiva, indubbiamente un valore autentico, si era infatti prestata, praticamente, all’inversione del suo significato: il “sé stesso” era stato individuato in un io vero, spesso collettivo (lo Stato, una Chiesa, un partito, una classe, una razza…), che, in virtù della propria superiore razionalità, si sarebbe intestato il diritto di coartare la volontà degli io empirici al fine di renderli “liberi”. Di qui il nesso indicato da Berlin tra la libertà positiva e i totalitarismi novecenteschi. Però, sottolinea Ocone, il pluralismo berliniano, postulando una inevitabile condizione di conflitto assiologico, indispensabile all’esistenza della politica, si traduceva in una «metafisica relativistica» e offriva una giustificazione debole alla libertà negativa. Un ventennio dopo quella lecture, per smarcarsi dalle accuse di relativismo mossegli da Arnaldo Momigliano (e, ancora prima, da Leo Strauss), Berlin avrebbe dovuto fare riferimento alla situazione concreta con cui si ha a che fare, entro l’oggettivo contesto culturale – lo «strato di roccia» su cui «la vanga si piega», per dirla con Ludwig Wittgenstein – che sostanzia il significato e il peso di un valore. E, in questo senso, ma senza la medesima fede positivistica e perfettistica nel progresso, l’interpretazione berliniana della libertà negativa pare avvicinarsi – e non casualmente – all’apologia della libertà tout court offerta in On Liberty da John Stuart Mill. Ocone sottolinea, infatti, l’opposizione milliana al paternalismo e alla tendenza delle maggioranze culturali e sociali, prima ancora che politiche, a imporre i propri gusti e voleri alle minoranze, fino alla più piccola di queste: l’individuo; ma pone anche in risalto come poi quella stessa fede nel progresso conducesse Mill a sostenere la necessità dei «popoli ‘civili’» a estendere, paternalisticamente, il «processo di ‘civilizzazione’ occidentale» oltre i propri confini.
Più complessa risulta la lettura che delle due libertà diede Bobbio nella voce dedicata al concetto pubblicata originariamente nel 1975 nell’Enciclopedia del Novecento della Treccani. La ragione dell’incedere tra definizioni analitiche – che inizialmente richiamano, problematizzandola, la lezione constantiana – e successive confutazioni va probabilmente ritrovata nel desiderio di superare la distinzione fra la libertà liberale e quella democratica. Bobbio, sottolinea Ocone, le riteneva «non solo integrabili ma di fatto sempre più integrate e integrantesi in un processo che egli giudica, da liberaldemocratico quale è, assolutamente da assecondare»; quando non faceva della libertà negativa il tèlos a cui il «principio motore» della libertà positiva avrebbe spinto. Benché così il filosofo del diritto finisse in un «cortocircuito» analitico e smentisse la sua stessa corretta collocazione della società liberale prima di quella, per lui “superiore”, «democratica, e persino forse quella socialista, o comunque liberal-democratica (o liberal-socialista)», la cui piena realizzazione, alimentata dai diritti sociali conquistati, sarebbe dovuta conseguire nel Novecento.
Anche la riflessione avanzata da Skinner sin dai primi anni ’90 intendeva porsi criticamente verso il presunto monopolio negativo della libertà, ma allo scopo di additare una terza via repubblicana o, come poi avrebbe preferito chiamarla, «neo-romana degli Stati liberi»: un correttivo alla nozione negativa, che attinge alla tradizione aristotelica, alla filosofia morale romana e alla ripresa che di essa si era avuta nell’Italia rinascimentale (con il Machiavelli dei Discorsi) e, dopo, nelle opere di Harrington, Milton e Montesquieu. La libertà repubblicana prevede l’immissione di «una quota di ‘positività’», vale a dire un richiamo alla necessità che la legge – non più confine alla libertà – faccia il più possibile degli «uomini quasi naturalmente corrotti» cittadini virtuosi e razionali, capaci cioè di servire attivamente e «di buon grado il bene comune, garantendo alla comunità grandezza civica e libertà». E l’accento sulla virtù più che sui “diritti fondamentali” (come nel caso di Locke, affrontato nel libro), scrive Ocone, evita la «doppia degenerazione» – vale a dire «proliferazione o bulimia dei ‘diritti’», con la dimenticanza dei doveri, e la diffusione di un accentuato “egocentrismo” – a cui il liberalismo si è recentemente sempre più prestato.
Si tratterebbe, quindi, di riconoscere la «costitutiva politicità» della dimensione umana, con tensioni che non possono essere espunte neutralizzando appunto la politica; un crinale su cui si sarebbe posto anche Hayek, fuoriuscendo dal dualismo delle libertà, nel teorizzare l’ordine spontaneo collegato alla rule of law, nel corso della riflessione sul vero individualismo elusiva sulla piena tematizzazione del «concetto di individuo». E per questo «sarebbe opportuno parlare forse di nominalismo», chiosa Ocone, rifacendosi al Croce di Etica e politica presentando poi la critica all’assolutizzazione della libertà negativa portato all’austriaco da Aron. Per questi la libertà individuale andrebbe considerata nel suo rapporto dialettico con la «costrizione» di cui il singolo ha «percezione soggettiva». Non stupisce, allora, che sia sul mutevole terreno «empirico e concreto» che per il francese si può stabilire la qualità e la quantità di libertà, formali e sostanziali: e ciò pare degno di nota perché, da un versante ritenuto liberalconservatore (però si vedano le interessanti osservazioni, riportate nel libro, sul ’68 e sul «recupero delle rivendicazioni libertarie»), Aron ammette nel discorso sul concetto quelle che, ad esempio, Berlin aveva escluso come mere condizioni per l’effettiva fruizione delle opportunità.
Benché non se ne tacciano sul versante politico i corollari repubblicani dell’autonomia, con Kant ci si addentra sul piano più propriamente speculativo, e la libertà si fa «postulato della ragion pura pratica in quanto è la ragion d’essere della moralità, la sua ratio essendi». Ma la libertà kantiana, condizione della «legge morale, con le connesse idee di dovere e responsabilità», è libertà «di scegliere il bene piuttosto che il male». Con le schellinghiane Ricerche filosofiche sulla libertà umana si valicano, invece, i «limiti ristretti della morale», allorché si concepisce il male come «possibilità stessa che è insita nella scelta». «Intesa in senso speculativo», scrive Ocone, la libertà viene allora a richiamare «in modo stretto, in qualche modo coincidendovi, non solo il concetto di male ma anche quello di Essere. O meglio di quell’Essere/Nulla che esso diventa nel momento in cui viene messo in relazione proprio con la Libertà (e con il Male)». Il male, dunque, è coesistente e coessente all’Essere stesso; e nell’uomo è una «naturale tendenza al male» che si spiega con «il disordine delle forze introdotto con il risveglio del volere individuale della creatura».
Alla luce di questo nesso tra essere/nulla e libertà Ocone ricostruisce il dipanarsi, seppure nel costante confronto con Kant, la riflessione di Heidegger: allorché «si dilegua nella sua totalità», nella «notte chiara del Niente dell’angoscia», si legge in Essere e tempo (1927), l’ente può essere colto, poiché «senza l’originale manifestazione del niente non c’è un essere-se-stesso, né una libertà». E nel corso friburghese del 1930 sull’essenza della libertà umana si ritrova la contrapposizione di libertà negativa, «come indipendenza», e positiva, «come autonomia», con quest’ultima a includere la distinzione kantiana di libertà cosmologica («la capacità di iniziare da sé uno stato») e libertà pratica (tanto «liberarsi o rendersi indipendenti dalla sensibilità» quanto «determinarsi secondo razionalità»)
Richiamandosi più direttamente a Schelling, perché immettendo nuovamente la questione del male, sarà Pareyson a riprendere il discorso heideggeriano per radicalizzare ulteriormente il riconoscimento dell’ambiguità della realtà tra essere e nulla. Nella prolusione del 1990 su Filosofia e libertà, il filosofo piemontese sottolinea infatti che fare della libertà un «problema autentico» significa non rapportarla più alla necessità, ma al «nulla», osservando la gratuità e infondatezza della realtà, «interamente appesa alla libertà, che non è un fondamento ma un abisso, ossia un fondamento che si nega sempre come fondamento». Questa è dunque la duplicità connaturata alla realtà in quanto connaturata alla libertà, sempre positiva e negativa, sfuggente alle «strategie immunizzanti e rassicuranti» volte a limitare – ad esempio, istituendo e condannando la licenza – l’«impeto vitale» della libertà primigenia, in cui il bene e il male sono inestricabilmente commisti. E tale commistione Ocone trova ravvisata in uno dei primi Frammenti di etica di Croce – già in parte «tragico», e verrebbe da dire ‘romantico’, benché ancora non depurato dei residui hegeliani dello Spirito assoluto – come dato ineliminabile della vita terrena, propriamente umana, e della irrequieta ed espansiva «Vitalità» che ripone, richiudendola, nella quiete «disumana» di una realtà ultraterrena la soluzione delle tensioni a vantaggio del bene.
Non pare casuale che Ocone concluda l’excursus tra i tre livelli e i tanti pensatori con il tentativo del liberale Croce di fare i conti con l’ambiguità del reale, per fuggire i tentativi di normalizzazione razionalizzante che sarebbero stati la cifra di tanta parte del pensiero liberale, soprattutto di marca angloamericana. Perché, appunto, «il non detto» delle definizioni sulla libertà, per Ocone, sarebbe in ultimo la sua stessa indefinibilità. «Della libertà può solo farsi esperienza, non la si può dire o fissare. La libertà appartiene a sé stessa, non ci appartiene», se non quando facilmente la «riconosciamo» perché «ci si dà». E così, il liberalismo, come concezione della vita che la tragicità e il polimorfismo della «necessaria e impossibile» libertà e della vita stessa intende rispettare, non può limitarsi a fissare «la linea del campo di gioco» tra le forze plurali, ma deve continuamente deformarsi.