Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Recensione a: P. Grossi, Il diritto civile in Italia fra moderno e posmoderno. Dal monismo legalistico al pluralismo giuridico, Giuffrè, Milano 2021, pp. XI + 170, € 20,00.

Pubblicato nel 2021, il libretto che oggi commentiamo conclude la pluridecennale, ragguardevole sequela delle opere monografiche di Paolo Grossi (1933-2022). Non sarebbe esatto innalzare questo lavoro alla dignità di testamento spirituale e suggello dell’intera produzione scientifica di Paolo Grossi perché l’Autore, già in una sua raccolta di scritti di qualche anno fa (L’invenzione del diritto, Roma-Bari 2017) aveva esplicitamente attribuito a quella pubblicazione l’aureola del commiato dai lettori. In realtà negli anni seguenti Grossi ha continuato a studiare, pensare, scrivere e pubblicare perché il suo itinerario di ricerca avrebbe potuto dirsi del tutto concluso solo con la fine dell’esistenza terrena. Cosicché il suo Diritto civile in Italia del 2021 va visto come un arricchimento di studi e ricerche che hanno contrassegnato tutta l’intensissima vita accademica del giurista fiorentino. E soprattutto il saggio conferma la visione interpretativa di fondo che sorregge tutte le precedenti opere scientifiche: l’anti-positivismo, ovverosia il recupero della socialità e storicità del diritto in contrapposizione a quel legalismo di matrice illuminista che negli ultimi duecentocinquant’anni pretese di ridurre il diritto ad atto potestativo (la norma) del legislatore (lo Stato). Ribaltata in pro, la grande lezioni di Grossi (ma non di lui solo) fu la riscoperta anche in Italia del pluralismo giuridico, della varietà delle fonti di produzione del diritto (di cui la fonte legislativo-statualista è solo una delle tante e nemmeno la più ragguardevole) e della cardinale funzione ermeneutica del ceto dei giuristi (scienziati del diritto; giudici; notai, avvocati).

In questo scritto del 2021 Grossi si dedica in particolare al ruolo – che fu anche il suo – degli scienziati del diritto. In linguaggio medievale, egli si occupa qui dei doctores: gli elaboratori del diritto sapienziale, la “dottrina” insomma. Impresa non nuova perché già in passato il Nostro autore si era occupato approfonditamente dei più grandi giuristi italiani del Novecento (1). La novità del libro sta nel contesto in cui Grossi inserisce i suoi profili di giuristi: la lunga, sofferta e tormentata transizione – tutt’ora in atto – tra giuridicità moderna e giuridicità post-moderna. E infatti l’attenzione di Grossi è catturata da quei doctores (accademici) che con i loro scritti, lezioni, prolusioni contribuirono a smarcare il diritto civile (e commerciale; e del lavoro) dalla oppressiva cappa del legalismo statualistico e a restituirlo a una dimensione viva, dinamica (cioè storica) e autenticamente sociale. E si comprende dunque la selezione operata: in queste pagine spiccano i nomi di quei giuristi dediti – chi consapevolmente, chi meno; chi sin dalle origini della propria carriera accademica, chi invece solo dopo lunghe fasi di incertezza – alla “causa” del pluralismo giuridico. Si incontrano i “pionieri” che a fine Ottocento, in un clima giuridico ostile e pervaso dalla «codicolatria» (p. 13) d’importazione francese e dall’assoluto primato della norma positiva, si accorgevano dello scarto sempre più ampio tra realtà sociale e economica da un lato e legge generale e astratta (e «imbalsamata» nel testo scritto) dall’altro, e proponevano seppure ancora ingenuamente di riscoprire la complessità del diritto: erano i giuristi «neoterici» (come li chiama Grossi), Enrico Cimboli, Carlo Gabba etc.

Subito dopo si entra nel vivo dell’opera di quei giuristi i cui nomi sono noti a tutti gli studenti di Giurisprudenza degli ultimi trent’anni. Ne citiamo alcuni: Enrico Redenti, Francesco Carnelutti, Filippo Vassalli, Santi Romano, Tullio Ascarelli, Enrico Finzi, Emilio Betti, Salvatore Pugliatti, Pietro Rescigno, Stefano Rodotà, Alberto Trabucchi, Pietro Trimarchi, Gino Giugni, Luigi Mengoni. Una eletta schiera, ma minoritaria. Infatti la civilistica italiana, nella sua stragrande maggioranza sino a tutti gli anni Settanta ma oggi sempre meno, restò tenacemente avversa al pluralismo giuridico e visse rannicchiata (molto spesso per pigro conformismo) all’ombra del rassicurante Codice Civile. Tra gli “avversari” del pluralismo giuridico brillano i nomi di Francesco Santoro Passarelli e Natalino Irti nei cui confronti Grossi non manca di prendere polemica posizione, ma sempre con l’inconfondibile stile che lo contraddistingue. Torneremo più avanti su Natalino Irti ma prima, non potendo dar qui conto della sottile e elegante analisi che l’Autore propone per ognuno dei vari giuristi sopra elencati, ci soffermiamo su due figure particolarmente rappresentative: Tullio Ascarelli (1903-1959) e Luigi Mengoni (1922-2001).

Ascarelli, per l’epoca giuridica in cui visse, assunse posizioni estremamente avanzate. Civilista versato nel diritto commerciale, studiò con attenzione la ribollente fattualità dell’universo economico e si persuase ben presto dell’esistenza di una frattura tra il diritto legale (le norme codicistiche) e il diritto effettivo e non esitò a concentrare l’attenzione su quest’ultimo in quanto «diritto socialmente vigorante», secondo le sue stesse parole (cfr. p. 43). Egli si spinse sino al punto  di sostenere che nel mondo dei fatti economici la produzione giuridica è competenza del ceto dei giuristi (doctores, magistrati, notai, avvocati) ma persino degli uomini d’affari con le loro prassi e consuetudini. Il punto di arrivo ascarelliano è il riconoscimento di «un diritto frutto di fonti plurali, statuali e extrastatuali», dove il momento interpretativo dei testi svolge un ruolo di traino. Oggi, epoca di globalizzazione giuridica, queste idee sembrano scontate, ma non lo erano affatto ai tempi di Ascarelli. E infatti lui stesso, per quanto autentico e audace precursore del pluralismo giuridico non oltrepassò mai l’ordinamento giuridico statuale, l’unico che – secondo lui – avrebbe potuto garantire certezza e sicurezza nei rapporti giuridici. Resta però intatta la grande lezione di Ascarelli: «recuperare al diritto l’interpretazione e tornare a inserirla tra le forse vive dell’universo giuridico» (p. 45).

L’interpretazione in Ascarelli resta immersa nella cieca empirìa dei fatti, salvo agganciarsi alla norma positiva quale áncora di certezza e stabilità. D’altronde Ascarelli (di matrice culturale liberale-agnostica) rifuggiva dall’idea di orientare valutativamente e valoriarmente l’ermeneutica giuridica. Un altro giurista più giovane di Ascarelli, Luigi Mengoni, si smarca molto presto dalla astratta e a-storica dogmatica del monismo giuridico codicistico (di cui pure offre splendide prove scientifiche nella giovanile opera Gli acquisti “a non domino”) e riconosce compiutamente la storicità del diritto. Anzi, per lui il diritto è ontologicamente storia, possiede – per usare le sue stesse parole – «la struttura temporale della storicità» (p. 102) in quanto fenomeno storico e sociale. Il diritto però non vive solo per pressione delle estrinseche forse sociali ma anche in virtù di una sua forza interna: l’interpretazione. Da qui è inevitabile l’approdo a forme decise di pluralismo giuridico: consuetudini e prassi sociali; volontà del legislatore (che permane, ma non più in regime di monopolio); interpretazione dei giuristi (opinio juris) e della giurisprudenza. Ma a differenza di Ascarelli Luigi Mengoni (la cui matrice culturale è cristiano-cattolica) rigetta l’empirìa a-valutativa dei fatti. Secondo lui il momento dell’ermeneutica giuridica va saldamente connesso alla dimensione valoriale, anche per una legittima esigenza di certezza (che Ascarelli ancora ritrovava nella norma positiva). Questa dimensione valoriale dell’interpretazione non è una dottrina filosofica astratta e «nuvolesca» cui ispirarsi bensì il personalismo (che per Mengoni è cristiano) come ripensato e inserito nella Costituzione del 1948. L’interpretazione delle leggi va agganciata ai «valori morali [personalistici] incorporati nella Costituzione formale» (p. 123). In tal modo, secondo Mengoni, si raggiunge un doppio risultato. Si pone al centro dell’ordinamento la persona umana (e non, ad esempio, il mercato); si vincola il soggettivismo dell’interpretazione al rispetto della centralità della persona.

Si è detto che Grossi si occupa anche degli “avversari”: Natalino Irti, civilista e filosofo, è il giurista più citato (e confutato) nel libro. Egli effettivamente si ispira a ideologica unilateralità che continua a vedere nel legislatore statale, nonostante tutto, l’unica fonte del diritto, e nel Codice Civile il thesaurus di pura scienza giuridica da custodire gelosamente al riparo dalle caotiche leggi speciali, dagli altrettanto caotici “fatti sociali” e soprattutto dalle “creative” ermeneutiche dei giuristi («il giurista è chiamato a piegarsi sul testo della norma in una sorta di nudità storica», p. 111): non interprete dunque ma mero esegeta, «muto o quasi all’ombra del testo di legge» (p. 112). Ma Irti è troppo intelligente per non rendersi conto che è stato lo stesso legislatore statale ad abdicare dal ruolo. Al nitido e conchiuso sistema codicistico è subentrato un profluvio di norme statali di mediocre o bassissima fattura, una «incessante produzione e consumo di norme» degradate a merci. In questo degradato paesaggio giuridico non c’è più spazio per la vera e pura dogmatica, la scienza del diritto. Al cultore del diritto civile, conclude un Natalino Irti ormai sconsolatamente approdato al nichilismo giuridico, non resta che ridursi a semplice operatore del diritto, a tecnico indifferente al contenuto e alla fattura delle norme e che risolve tutto il diritto «nella correttezza dei meccanismi procedurali» (p. 151).

Ben diversa, e decisamente più ottimistica, la conclusione di Grossi il quale, al termine di una lunga e operosa vita spesa al servizio del jus, constata – rallegrandosene – il recupero della dimensione eminentemente esperenziale, sapienziale e storicistica del diritto. Un risorgimento, adattato alle esigenze del XXI secolo, del jus commune dopo quasi tre secoli di positivismo statualista.

NOTE

1 Per esempio, P. Grossi, Nobiltà del diritto. Profili di giuristi, Giuffrè, Milano 2008.

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