Miriam Breschi (2006) frequenta la quarta classe del Liceo Classico "Marsilio Ficino" di Figline Valdarno (FI).
Perché Omero nell’Odissea ha voluto soffermarsi molto più sulle donne rispetto agli uomini? E quali relazioni hanno legato il protagonista con esse? Credo che il suo scopo fosse quello di contrapporle ai caratteri molto differenti degli uomini senza metterle in una posizione subordinata rispetto ad essi e delineando una società diversa da quella che emerge dall’Iliade. Mentre gli uomini sono concentrati ad occuparsi di affari di guerra e di politica, le donne invece sono associate alla figura della casa (οἰκία). Infatti, secondo la concezione di quell’epoca, le donne trascorrevano la loro vita in casa sebbene fossero abbastanza istruite: non oziavano mai perché si dedicavano a crescere i propri figli, fare le pulizie in casa, tessere, filare, preparare i pasti e perciò venivano escluse dagli affari pubblici.
L’Odissea è stata definita proprio il “poema delle donne” dato che è incentrato soprattutto su di esse. Sono donne con una personalità “vivida” e un’individualità ben delineata sia nel bene che nel male. Omero ci si sofferma molto e le descrive con dettagli utili a capire anche quali sono i modelli da imitare e quali da evitare. Ulisse nel suo viaggio ne incontra principalmente quattro, accomunate dalla fedeltà, dall’obbedienza e soprattutto dalla bellezza. Queste quattro donne si dividono in due gruppi: le figure positive, Nausicaa e Penelope, e quelle negative, Calipso e Circe.
Nell’Odissea la donna che rappresenta l’ideale di comportamento è proprio Penelope, la moglie di Odisseo. Lei rientra nella categoria “positiva” perché il lettore può ricavarne insegnamenti buoni e imparare un modello di donna da imitare ed è spesso definita come l’alter ego del marito; si mostra pari a lui per astuzia e intelligenza e inoltre è una donna saggia, bella, determinata, devota, comprensiva, paziente e forte. L’amore di Penelope non ha tempo, ha confini immensi. Infatti è ammirevole perché aspetta con pazienza e fedeltà il suo amante. Nonostante molti pretendenti, i Proci, la volessero in sposa, lei ha resistito e ha usato la tecnica dell’inganno della tela per rimanere fedele ad Ulisse. Penelope ha saputo governare Itaca per ben venti anni con coraggio e disciplina, da sola, senza l’appoggio di una figura maschile.
Quando Ulisse infine torna a casa, sua moglie non si fida, all’inizio non riconosce suo marito nelle vesti di mendicante perché molti in quegli anni sono giunti all’isola fingendosi Ulisse, per questo motivo era diventata più diffidente e sospettosa. Non intendeva cadere in un’altra trappola. Eppure non perse mai la speranza. Alla fine soltanto il segreto del letto permetterà ai due di ritrovarsi e riconoscersi. Le intelligenze dei due coniugi si confrontano proprio nel verso 177 del XXIII canto: «στόρεσον πυκινὸν λέχος» ovvero «stendi il solito letto», con questo imperativo Penelope esortava Odisseo a spostare il letto nuziale e da qui emergono sia la furbizia della donna sia la sua sorpresa per la risposta di Odisseo.
Nell’episodio narrato da Omero sono usati toni dolci e commoventi. Dopo il riconoscimento Penelope corre incontro al marito, piangendo, e così i due si fonderanno in un affettuoso abbraccio. Qui si percepisce tutto il dolore provato da entrambi per quei lunghi venti anni di lontananza e attesa.
Ulisse aveva raccontato le sue avventure a Scheria, nella corte del re Alcinoo, la cui figlia si chiama proprio Nausicaa. Lei è l’immagine dell’accoglienza, della dolcezza, della purezza e sensibilità, una ragazza adolescente che, illusa da Atena in sogno, si innamora di uno straniero giunto nelle sue terre. Ma torniamo al racconto. Ulisse, giunto alla terra dei Feaci, si addormenta sulla riva del fiume e viene poi trovato dalla figlia di Alcinoo. La ragazza insieme alle ancelle ascolta le suadenti parole dello straniero, il quale possiede una grande abilità oratoria, e successivamente lo invita a recarsi nella reggia (il tutto è comandato da Atena). Nausicaa, intimidita ma anche attratta, lo rasserena con eleganza e raffinatezza. Arrivato da Alcinoo, Odisseo sarà pregato di sedersi e nutrirsi al banchetto (scena tipica, ricorrente nel lungo viaggio del nostro eroe). Si mette dunque a raccontare ai commensali i suoi ultimi dieci anni. L’uomo, perciò, viene accolto molto generosamente (senza chiedere niente in cambio) e tutto ciò dimostra che i Feaci sono un popolo molto civilizzato e rispettoso dei vincoli dell’ospitalità. Quest’ultima è virtù fondamentale nella Grecia antica ed è un dovere reciproco sia per l’ospite che per l’ospitante e inoltre implica un codice morale da rispettare che a volte può creare persino legami di amicizia. Un esempio di anti-ospitalità è quello del Ciclope Polifemo che non accoglie gli ospiti ma anzi li sbrana e per questo motivo è considerato un essere incivile, quasi come una bestia.
«Sii felice, straniero: tornato alla terra dei padri, non scordarti di me, perché a me per prima devi la vita», queste sono le ultime parole che Nausicaa rivolge a Ulisse quando accetterà di lasciarlo tornare a casa. La giovane ragazza gli chiede di essere ricordata perché sa bene che l’unico modo per sopravvivere nei secoli è quello di rimanere impressa nella memoria del protagonista. Infatti il ricordo è l’unico rimedio alla sofferenza di lasciare andare chi si ama. Quasi tremila anni dopo il filosofo tedesco Nietzsche scriverà un’affermazione che recita così: «Bisogna prendere congedo dalla vita come Odisseo da Nausicaa – benedicendola, piuttosto che innamorati di essa». Dunque Nausicaa dopo aver espresso parole amorose di addio scomparirà dal poema e non verrà più nominata.
Per concludere, sebbene lei sia la più giovane tra quelle menzionate da Omero è anche «la più padrona di sé», cioè non vuole un principe azzurro ma accoglie «Ulisse nella sua terra e nel suo cuore per cercare sé stessa. Nausicaa vuole la sua vita con un uomo come lui e Ulisse rivuole la sua vita grazie a una donna come lei. La loro storia d’amore comincia e finisce qui» [1].
Proseguendo nel percorso di Ulisse, incontriamo la cosiddetta “signora degli animali e delle piante”, ovvero la maga Circe. La sua fama è quella di “incantatrice”, poiché illude gli uomini con il piacere. Odisseo quindi, dopo l’esperienza tremenda presso i Lestrigoni, approda a Eèa, l’isola di Circe. Lei è una donna pericolosa ma diversa dalle altre perché rientra appunto nel campo della magia: è intelligente così come Ulisse, ma l’incantesimo della maga che lo dovrebbe trasformare in un maiale, come ha già fatto con i suoi compagni, non ha funzionato su di lui grazie all’aiuto che il dio Hermes ha dato all’eroe. Queste bevande che la donna prepara sono chiamate φαρμακός, che in greco significa sia “medicina” sia “veleno”; questa potente miscela permette appunto di trasformare a suo piacimento gli uomini in animali, tramite una metamorfosi. Questa parola indica un mutamento soprannaturale, un passaggio di forma, ovvero un cambiamento di un oggetto, animale o persona in qualcos’altro. Dunque Circe usa degli espedienti per irretire la mente dell’uomo e conquistarlo. Così come Medea, moglie di Giasone, sono donne «passionali nell’innamoramento e feroci nella vendetta nei confronti degli uomini che osano rifiutarle» [2].
Nel frattempo Ulisse si invaghisce del fascino di Circe e resterà nella sua isola per un anno intero, durante il quale la sua memoria sarà appannata e offuscata. Questo è l’unico momento in cui l’eroe vacilla ed è insicuro di sé stesso, dopodiché lei gli permetterà di continuare il suo viaggio, ma prima gli consiglia di scendere nell’Ade e consultare l’indovino Tiresia riguardo al suo futuro. Nell’Ade incontrerà anche sua madre. Da quando l’eroe se ne è andato via, la maga non hai mai smesso di sperare di rivederlo un giorno: era sicura che prima o poi i loro destini si sarebbero riuniti.
Successivamente il nostro Ulisse giunge nell’isola di Ogigia, dove abita Calipso (viene pure citata nel proemio dell’Odissea). Questo nome deriva dal verbo greco καλύπτω (“nascondere”), e in effetti lei stessa si nasconde da tutti, vive in un luogo sperduto; per questo è definito un nome parlante proprio come quello di Tersite nell’Iliade. Ciò implica che dal significato del nome di una persona se ne deduce i tratti della personalità. A Ogigia il tempo scorre in modo diverso e infatti l’eroe ci rimarrà per sette anni, anche se lui stesso non se ne rende conto. Si parla quindi di “sfera molle” perché il tempo è rallentato (si dice infatti che nell’isola regni il non-tempo).
Calipso rappresenta la lontananza, l’ignoto, è quasi una parentesi di fuga dai suoi doveri di eroe, marito, re e padre. È colei che riduce il viaggiatore ad una creatura fragile e debole, così come fanno le Sirene. Odisseo ammette pure che la bellezza di Calipso superi decisamente quella di sua moglie Penelope, tuttavia desidera comunque ritornare a casa nonostante le parole suadenti della donna tese a far dimenticare Itaca. Ulisse sente il bisogno di andare via da lì perché quella ninfa ha creato in lui una situazione di benessere ma anche di squilibrio interiore, in cui neanche l’offerta di immortalità lo attrae. Quando appare “Aurora dalle dita di rosa”, la ninfa lo lascerà andare solo perché forzata dal dio Hermes, come era avvenuto prima con Circe. Le ultime parole che l’eroe rivolgerà alla ninfa sono state:
Oh dea, non adirarti con me per questo. Lo so bene: la saggia Penelope è inferiore a te per aspetto e per statura. Lei è mortale, tu invece sei immortale e sempre giovane, ma io desidero e sogno di tornare a casa e vedere il giorno del mio ritorno (V 215-220).
Però Calipso, a differenza di Circe, non è una che si lascia convincere facilmente e soprattutto odia coloro che riescono a resistere al suo fascino; ama essere corteggiata e non obbedisce agli ordini esterni. Infatti quando Ulisse è in procinto di andare via preferisce adottare un atteggiamento di seduzione attraverso l’uso del suo corpo, piuttosto che servirsi dell’intelligenza.
Inoltre Calipso è una ninfa, oltre che bellissima anche tenace, riesce a sentire la potenza dell’ἔρως, cioè dell’amore carnale, del desiderio, innamorandosi dello stesso Ulisse in un modo quasi possessivo da renderlo prigioniero. Lei è proprio l’immagine della femminilità in un insieme di dolcezza, seduzione e affettuosità. Un elemento che la accomuna a Circe è proprio l’arte dell’incantare. Eppure quando Alcinoo chiederà ad Ulisse di raccontargli tutte le sue tappe, il protagonista tace riguardo a Calipso, come se fosse un argomento troppo privato da affrontare. Alla fine di questi lunghi sette anni Ulisse, con il consenso di Calipso, si prepara in fretta per andarsene il più velocemente possibile. Questa impazienza non l’ha avuta con la maga Circe, che saluta addirittura due volte, dato che con lei si era sentito meno intrappolato.
Un’altra figura femminile fondamentale nell’Odissea è la vecchia nutrice dell’eroe, chiamata Euriclea. Viene presentata al lettore durante l’arrivo di Ulisse alla reggia di Itaca, dopo essere stato trasformato in un mendicante irriconoscibile. L’ospite è lavato dalle ancelle di Penelope. Grazie proprio all’incarico che la regina dà alla balia di lavare i piedi allo straniero avviene il riconoscimento; la cicatrice di Ulisse, causata da un cinghiale quando era piccolo, ha immediatamente aperto un ricordo indelebile nella memoria di Euriclea. Così come da bambino la cicatrice aveva determinato il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, adesso aveva permesso il cambiamento di uno status da mendicante a re. A parte quella del cane Argo, che muore dopo aver riconosciuto e salutato il suo padrone, quella della nutrice è l’unica agnizione; la donna capisce immediatamente chi era senza bisogno che Ulisse si riveli. In preda ad una serie di emozioni, la balia lascia cadere la gamba di Ulisse nel catino pieno d’acqua provocando un frastuono: subito il protagonista costringe l’anziana a tacere per non mettere in confusione il suo piano. La donna accetta nonostante il suo stato d’animo fosse in subbuglio perché si mescolavano emozioni contrastanti di gioia e dolore.
Quindi questa donna è il simbolo della fedeltà e del rispetto nei confronti della casa e del padrone, una sorte di figura materna sia per Ulisse, che ha dovuto colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa della madre Anticlea, che per Telemaco, nonostante la presenza della vera madre Penelope.
L’ultima figura femminile che merita analizzare è quella di Atena. La dea è una delle poche presenti nel poema e parteggia per Ulisse aiutandolo nelle sue avventure. Atena è sempre al suo fianco e non lo giudica mai; si schiererà contro Poseidone, il quale tenterà in ogni modo di far naufragare l’eroe. Atena trova sempre soluzioni alle sciagure.
In generale gli dei, sia nell’Iliade che nell’Odissea, sono antropomorfi, ovvero non hanno qualità esclusivamente divine, ma anzi sono molto simili a noi uomini: provano gli stessi nostri sentimenti, sono spesso capricciosi e l’unica differenza è che sono immortali. Atena è la figlia di Metis, la divinità della saggezza e dell’intelligenza; questa fu la prima moglie di Zeus, padre dalla cui testa uscirà la stessa Atena come fosse stata partorita. Per questo è una dea dai tratti maschili, poiché è nata senza il bisogno di una donna, è pura e intoccabile e inoltre non può procreare. La sua attività preferita è la guerra, ma ama anche riflettere e non provare emozioni, proprio come Ulisse, dal quale infatti sarà molto affascinata.
Quindi lei è la dea protettrice di Odisseo (anche nell’Iliade si schiererà dalla parte dei Greci) e interviene per aiutare lui e suo figlio sotto la forma di vari mortali oppure apparendo in sogno a persone vicine al protagonista, come ad esempio Nausicaa. Infine Atena lo assisterà anche durante il suo arrivo a Itaca trasformandolo in un mendicante per non essere riconosciuto dai suoi familiari.
In realtà nell’Odissea sono presenti anche altre donne secondarie come le Sirene, le schiave infedeli di Itaca e Anticlea. Scrive Cristina Dell’Acqua: «Nell’Odissea è fortissimo il rapporto che lega Ulisse alle donne, umane e divine, incontrate per caso, in tutto il poema sono sempre loro a trasformarlo da naufrago a uomo, e lo fanno attraverso l’amore in ogni sua forma» [3]. Questa frase credo racchiuda l’essenza pura di ciò che ho provato a spiegare: i vari caratteri delle donne sono un punto di ispirazione per ogni essere umano e grazie al loro sapere ci forniscono insegnamenti di vita. Ulisse è sempre messo in relazione a loro perché è costante il paragone fra la sua e la loro intelligenza, sia con femmine umane che con dee. Il loro ruolo può essere considerato necessario durante tutto il poema poiché aiutano il protagonista a raggiungere il suo obiettivo finale attraverso l’amore.
Insomma, tutti i sentimenti e le emozioni, ritenute da Dante vizi capitali, hanno un potere negativo a volte e possono anche accecare la ragione umana. Spesso l’uomo smette di pensare con la propria testa solo per farsi trasportare da ciò che prova, e questo è giusto solo in poche occasioni. D’altronde sono sensazioni naturali, che avvengono spontaneamente nella propria anima ma vanno sapute regolare e controllare, non come Ulisse che ha avuto determinazione con le donne che lo tenevano prigioniero dopo troppi anni, perdendo di vista il suo scopo finale. Detto questo, alla base di tutto ciò esistono legami come dei nodi che permettono di conoscere vite diverse dalla nostra e che possono anche far aprire la mente verso nuovi modi di pensare. Sono dunque nodi che legano ma, allo stesso tempo, liberano.
Il rapporto di Ulisse con le donne è dunque complesso e ovviamente cambia a seconda della figura femminile con cui egli interagisce di volta in volta, anche perché in certi casi si tratta di esseri mortali, altre volte di divinità, come Atena. L’impressione che ho ricevuto è che in molti casi, come Circe e Nausicaa, per non parlare di Penelope, il pensiero femminile si mostra più profondo e la loro sensibilità rivela più sfumature di quanto Omero non attribuisca allo stesso Ulisse, anche se è l’eroe che dà nome al poema. In questo l’Odissea mi ha sorpreso e affascinato. Da ciascuna delle donne del poema le lettrici di oggi possono ricavare preziosi insegnamenti ed è per questo che Omero è davvero un classico.
(fine Parte II)
[1] C. Dell’Acqua, Il nodo magico. Ulisse, Circe e i legami che rendono liberi, Mondadori, Milano 2021, p. 18.
[2] Ivi, p. 28.
[3] Ivi, p. 16.