Miriam Breschi (2006) frequenta la terza classe del Liceo Classico "Marsilio Ficino" di Figline Valdarno (FI).

I poeti lirici ci fanno conoscere per la prima volta la loro individualità, ci svelano il loro nome e si fanno conoscere come individui. La vera lirica dei greci si mostra soprattutto tramite la lirica corale, dal VII al V secolo, da Stesicoro e Simonide fino a Pindaro e Bacchilide. Questa è vista come una poesia festiva e celebrativa dal momento che dà valore al presente, a differenza dell’epica, e lo considera un tempo degno di essere celebrato. Un contrasto tra valorizzazione del futuro ed elogio della realtà, tra mito e presente, tra aspirazione e realizzazione.

Con il passare dei secoli la mentalità dei poeti/scrittori muterà notevolmente: si focalizzeranno molto di più sui concetti di emozione, di nobiltà d’animo e di valori morali. Inoltre la realtà umile e quotidiana assume un ruolo fondamentale. Con la lirica, fatta eccezione per Tirteo che rimane ancorato a quei valori riproponendoli in chiave lirica, si abbandonano le parole chiavi dell’epica quali ξενία, ὕβρις, φιλία, πόλεμος, κράτος, ἥρως e molte altre tipiche dei valori di un guerriero o di un eroe. Al contrario saranno evidenziate parole come ψυχή, ἔρως; l’anima, l’interiorità, le passioni individuali, le emozioni diventano essenziali in questo passaggio e vengono messe in primo piano. Il mondo dell’anima assume una nuova forma e i lirici sono i maggiori portavoce: essi non paragonano più l’anima ad un organo fisico, come in passato, ovvero al semplice fremito del cuore in determinate situazioni, bensì lo analizzano e riescono a comprendere meglio le caratteristiche principali, come la tensione interiore.

I poeti più antichi non sapevano esprimere il loro mondo interiore poiché consideravano l’amore come forza suprema stabilita dalle divinità; secondo Omero, quello che l’uomo compie non nasce dal suo carattere individuale, ma è la conseguenza di un comando divino.

Archiloco parlerà di questo argomento e annuncia che «esistono destini individuali ma non azioni individuali», parlando della sua vita sia da guerriero sia da poeta. Per l’uomo non c’è la possibilità di cambiare il proprio futuro tramite azioni o gesti, dato che per lui è già stato stabilito un destino irremovibile. Ecco dunque che la realtà sarà la protagonista, si parlerà soprattutto della vita quotidiana e non più di scenari immaginari. Una realtà vista come mondo che ci circonda e ci fa riflettere su varie tematiche; i racconti diventeranno più riflessivi e introspettivi già nel VII secolo a.C., anche con Mimnermo, appartenente all’elegia esistenziale, e Solone, il quale si dedica all’elegia politica. Nei suoi versi si riflette il suo impegno politico; ricoprì infatti la carica di legislatore, durante la quale introdusse due riforme essenziali: la σεισάχϑεια, abolizione della schiavitù per debiti, e una distribuzione timocratica del censo.

Sia Mimnermo che Solone conferiscono alla poesia una sfumatura malinconica presentandoci il concetto dell’alternanza tra la giovinezza e la vecchiaia. Il primo dei due pone al centro della propria riflessione il tema dell’amore con stili di scrittura più contemplativi e introspettivi; inoltre considera la vecchiaia come la responsabile della decadenza fisica e morale, preferendo morire prima di invecchiare piuttosto che continuare a vivere in un periodo che non ha niente di positivo.

Solone, invece, ha una visione diversa ed infatti scrive un frammento a Mimnermo nel quale dice che alla fine la vecchiaia non è così tremenda, come illustrato in alcune sue metafore (ad esempio, Zeus come un vento di primavera spira forte e spazza via i raccolti nei campi). Fanno la loro comparsa anche sentimenti più oscuri come l’angoscia nei confronti della condizione umana. Mimnermo infatti ci presenta nel componimento intitolato Noi siamo come le foglie uno scenario cupo e privo di speranza, dove viene evidenziata la riflessione sul destino dell’uomo, al quale è negato il raggiungimento pieno e autentico della felicità. Egli si ispirerà molto all’Iliade, dalla quale riprenderà i concetti della fugacità della giovinezza e dell’incombere della vecchiaia, paragonando la vita umana alle foglie. Così come esse crescono forti sugli alberi per poi diventare gialle/rosse e cadere in autunno, allo stesso modo noi nasciamo, maturiamo, invecchiamo e infine moriamo. Anche Giuseppe Ungaretti nel 1918 scriverà la famosissima poesia Soldati, dove anch’egli rifletterà sulla precarietà dell’esistenza, scrivendo:

Si sta come

d’autunno

sugli alberi

le foglie

Solone e Mimnermo cominceranno a mano a mano a distaccarsi dalle tematiche guerresche, presenti ancora in Tirteo, per parlare dell’uomo in sé. Queste sono le prime fondamenta che delineano i contorni di una cultura che ha educato tutti noi e ha anche influenzato le civiltà successive a quella greca. Dunque, nel corso dello sviluppo della civiltà greca, le tematiche nella letteratura sono notevolmente cambiate, ma anche lo stile di composizione e le esigenze dell’uditorio. Questo graduale mutamento può essere analizzato passando in rassegna, in ordine cronologico, le opere degli autori greci che si sono susseguiti a partire da Omero.

Ritengo che sia essenziale il concetto di uomo, nel quale si racchiude perfettamente quel che è l’intenzione di ogni singolo autore, ossia ciò che vuole trasmettere. La società dell’VII secolo a.C. fu stravolta e divisa dall’insorgere di un nuovo ceto sociale che andò a danneggiare l’aristocrazia. Con il tempo si affermarono nuovi valori e per questo la popolazione venne divisa in due categorie contrapposte: i κακοί e gli ἀγαθοί, cioè i cattivi e i buoni cittadini che non devono mai unirsi. Questa spaccatura, proposta dal poeta Teognide, fa capire quanto sia importante comportarsi in un certo modo, frequentare le giuste persone, agire rispettando gli altri e sapersi adattare in ogni tipo di situazione, essere quindi versatile.

Lo stesso invito verso i ceti più bassi a non mescolarsi con gli ἀγαθοί venne suggerito da Pindaro; pur facendo parte della lirica corale, riprende l’elegia gnomica didascalica di Teognide, ma in modo diverso. Pindaro ritiene fondamentale, per collegarsi alle due categorie sociali, fare riferimento al motto delfico γνῶθι σεαυτόν, “conosci te stesso”, un inno a riconoscere i limiti dell’uomo e a non spingersi oltre.

Tutte queste regole sono inserite in due testi importantissimi per capire la figura di Teognide: L’ideale aristocratico e Fai come il polipo. Questi testi si incentrano sulla descrizione dell’animo umano come qualcosa di influenzabile e plasmabile: per questo motivo l’essere umano deve essere capace di dimostrarsi versatile, di sapersi “mimetizzare” come un polipo. Stessa riflessione viene fatta anche dallo stesso Pindaro, il quale cercò di trovare un compromesso tra le proprie ideologie e ciò che i potenti volevano sentirsi dire. L’unica via di mezzo plausibile è comportarsi come fa un polipo, sapendosi adattare ad ogni tipo di situazione.

Grazie a questo autore gli ideali della letteratura greca si sono effettivamente trasformati. Con la tradizione omerica eravamo abituati a paragonare ogni comportamento umano in base al fatto se rispettasse o meno le regole imposte dalla cosiddetta civiltà di vergogna. Con ciò si intende l’insieme degli atteggiamenti giusti e corretti che gli uomini/guerrieri dovevano adottare per ottenere rispetto, onore, compensi di guerra e fama dopo una spedizione militare. Durante gli anni in cui visse Omero la società era molto differente rispetto a qualche secolo dopo: l’insieme di valori propri della civiltà di vergogna costituiva la base morale da rispettare e l’obiettivo principale di tutti i guerrieri era raggiungere la gloria per poter essere ricordati in eterno e quindi diventare immortali.

Ritornando a Teognide, in quel periodo storico venivano espresse con frequenza riflessioni che ponevano l’attenzione sulla precarietà della vita umana, nel senso che i poeti spesso meditavano su quanto fosse fondamentale regolarsi attraverso l’ideale della moderazione che permetteva di evitare gli eccessi e dunque di condurre una vita equilibrata. Questo aspetto emerge soprattutto con Archiloco. Era un autore specializzato nel giambo e nello ψόγος, ovvero nel biasimo nei confronti dei mali dell’età contemporanea. Anche Alceo seguirà lo stile delle invettive.

L’opera di Archiloco più di ogni altra segna il distacco dalla καλοκἀγαθία (cioè l’unione perfetta tra bellezza esteriore e interiore), ideale che viene ribaltato, rompendo così con la tradizione epica. Nel miles gloriosus il poeta ci fornisce infatti la propria visione di un comandante perfetto, non bello, alto, possente o carismatico, perché tutte queste caratteristiche sono per lui insignificanti, dato che ad una bellezza esteriore non ne corrisponde una interiore. L’importante è che sia un uomo fermo nelle sue decisioni e moralmente onesto. Secondo il poeta le idee tipiche dell’epica erano anacronistiche, non più in sintonia con il tempo: non serviva più la perfezione esteriore, ma bastava essere una persona brava e giusta. Infatti Archiloco sosteneva che un comandante dovesse essere bello all’interno della sua anima (ψυχή), entità difficile da descrivere.

All’inizio del V secolo vi erano ancora grandi distanze dalle credenze sostenute poi da Platone. Quest’ultimo riteneva il corpo una prigione per l’anima, costretta a rimanervi ingabbiata fino al momento della morte del corpo. A quel punto le due entità potevano separarsi e la seconda finalmente ascendeva al cielo. Fino ad allora si consideravano unite e la teoria dell’immortalità dell’anima non era accettata nell’antichità. Da questo momento in poi, in particolare, si nota la crepa tra lo stile di composizione epico e quello appartenente alla lirica. Le differenze sono particolarmente evidenti anche con Semonide, il quale si sofferma molto, così come il precedente, sulla vita umana: ha una concezione pessimistica perché ritiene che ogni uomo si trovi in una condizione effimera e temporanea, il cui esito finale è definito soltanto da Zeus.

La vita è foriera di mali e disgrazie e ciascun individuo non ne può fare a meno, non può sfuggirvi; è inevitabile che l’uomo vada incontro a sciagure e per questo deve limitarsi ad accettare il proprio destino. Dato che la vita è per tutti limitata e il destino non può essere cambiato, ma è già stato scelto per noi, Semonide invita l’uomo a godere dei piaceri del simposio. Questo era il fulcro della vita sociale degli aristocratici, era esclusivamente riservato ai maschi e si presentava come un’occasione di ritrovo. Era organizzato in due fasi: nella prima si mangiava e non si poteva parlare, nella seconda invece, dopo aver finito di mangiare, ci si distendeva sopra dei divanetti chiamati triclini e si discuteva di svariati argomenti (politici, culturali, religiosi, economici). Era obbligatorio l’accompagnamento del vino, diluito in un rapporto di 5 a 1 e mescolato con l’acqua. Infatti non serviva per ubriacarsi ma si usava come mezzo che favoriva la socialità; il vino ha da allora una funzione ambivalente, può essere fonte di gioia o di turbamento, va saputo gestire per rispettare le regole di buon gusto e autocontrollo rispetto all’ambiente nel quale ci si trova.

La parola chiave del simposio è infatti “piacere”, ἡδονή, termine collegato anche al pensiero epicureo, contrario a quel che poi sarà il pensiero di un Cicerone, essenzialmente di ispirazione stoica. Ἡδονή non riguarda solo il divertimento, ma concerne anche i piaceri della tavola, dello stare insieme, del discutere, del bere, del praticare giochi, delle danze e della musica. Perciò era allo stesso tempo un piacere materiale e intellettuale. In questo contesto conviviale, il godimento e lo svago erano associati alla giusta misura e alla moderazione (metriotes), valore che regolava ogni comportamento e portava all’autocontrollo. Esempio perfetto erano gli Spartani, incarnazione di rigore morale e disciplina.

A mio parere i concetti di metriotes e ὕβρις, “tracotanza”, sono alla base di ogni epoca della letteratura greca antica. Si tratta di una moderazione che porta al sapersi abituare e adattare ad ogni situazione, ovvero all’essere versatili (μῆτις), così come lo era Ulisse, protagonista dell’Odissea. Perfetto per questo concetto è il frammento di Teognide intitolato Fai come il polipo, animale che incarna esattamente l’astuzia per eccellenza, si adatta all’ambiente come i camaleonti, mimetizzandosi. Stessa cosa dovrebbe fare l’uomo nel momento in cui si rende conto di trovarsi in una situazione nociva per lui. Ulisse è proprio l’uomo delineato da Teognide, colui che è πολύτροπος e sa modificare le proprie sembianze per ottenere ciò che vuole.

Con il passare dei secoli ogni autore cercava di esporre al pubblico la propria visione della società e della vita in quel dato momento storico, illustrando gli aspetti che caratterizzavano un individuo medio e che, ovviamente, si sono trasformati in valori sempre diversi, adattandosi, di volta in volta, alle finalità del poeta. Non rispettare le regole di moderazione porta alla dismisura, cioè alla superbia e alla tracotanza. L’eroe omerico era impulsivo, irrazionale e non sapeva controllare le proprie passioni, peccando, dunque, di ὕβρις. Non aveva un centro di controllo interiore, e neppure il senso di colpa delle proprie azioni. Manca nel mondo omerico il soggetto morale, manca un Io a cui attribuire queste responsabilità[1]. Infatti gli autori più esemplari, di cui ancora oggi studiamo le opere, racchiudono nei loro scritti gli ideali di armonia e temperanza, adattandoli al proprio tempo.

In ogni caso ciascuno di essi consiglia di evitare gli eccessi poiché non hanno nessuna conseguenza positiva. È di fondamentale importanza sottolineare come anche nell’arte si possano trovare questi concetti e ideali: uno tra i tanti esempi di equilibrio e proporzione è il Doriforo di Policleto, statua eccezionale che ci mostra proprio il senso della misura: ogni parte del corpo trova un equilibrio nella parte opposta corrispondente, trasmettendoci così un’immagine di armonia e dunque di perfezione.

(fine seconda parte)

NOTE

[1] Cfr. A. Meschiari, Pensare la vita. Etica, Edizioni Tassinari, Firenze 2015.

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