Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Recensione a:
R. Catanoso, Rapporto sul sapere. L’intellettuale nel tramonto della politica
presentazione di T. Serra, con un saggio introduttivo di A. Aghemo
Fondazione Giacomo Matteotti, Roma 2021, pp. 243, € 20,00.

I tre capitoli del volume (L’intellettuale? Origine e evoluzione; Quello strano legame tra politica e cultura; Intellettuali dallo scrittoio al virtuale) potrebbero costituire ognuno un saggio a sé, sia per la molteplicità delle analisi proposte e sia per il gran numero di riferimenti ad autori e studiosi di vari orientamenti. È sufficiente scorrere la nutrita bibliografia e la fitta elencazione di autori (tra i quali Arendt, Benda, Benjamin, Bobbio, Cacciari, Esposito, Gramsci, Heidegger, Le Goff, Natoli, Stein, Tronti) non semplicemente consultati ma assorbiti, assimilati e criticamente rielaborati, per rendersi conto della ampiezza informativa e robustezza concettuale di questo lavoro. La lettura non risulta sempre agevole né riposante perché esige che il lettore si soffermi, rifletta e interloquisca criticamente con l’Autrice ma anche col retroterra culturale degli altri scrittori e studiosi copiosamente citati.

Si prenda ad esempio l’interessante capitolo secondo incentrato sui rapporti tra intellettuali e politica e che in larga parte è dedicato a tre giganti del pensiero: Martin Heidegger,  Antonio Gramsci e Norberto Bobbio. Il punto di partenza è la forte caratterizzazione dei due atteggiamenti estremi che storicamente l’intellettuale ha assunto nei confronti della politica e del potere: l’intellettuale isolato e impolitico, tutto dedito alla coltivazione dei valori astratti e universali, anima speculativa; oppure l’intellettuale dedito ai valori cosiddetti pratici, incentrati proprio sulla politica, sulla comunità e sulle ideologie: i fiancheggiatori del potere, magari i fiancheggiatori entusiasti dei totalitarismi ma anche i critici ideologici di un potere o di tutti i poteri. Ma esiste una via mediana, quella dell’intellettuale impegnato (engagé) però non assorbito dalla politica, un intellettuale che si occupa di politica ma conserva gelosamente la libertà nella sua riflessione e l’indipendenza nei suoi giudizi.

Heidegger non esce dalla dicotomia politico-impolitico. Nel 1933 egli come intellettuale e uomo di pensiero tenta «di fornire alla politica la legittimazione di un sapere votato a un’attitudine operativa» (p. 129), si illude di potere, lui filosofo, guidare la guida politica ma guarisce subito dall’illusione quando comprende che la politica è diventata pura azione tecnica (techné), un fare senza scopo, una macchinazione (Machenschaft); la politica è morta e ha portato con sé nella rovina anche l’impolitico (il negativo del politico). Quel che resta è la non-decisione, la non-scelta, cioè il nichilismo. Contro il fare e l’agire della tecnica, contro la Machenschaft  Heidegger  in definitiva si rifugia nella meditazione impolitica e nella “dis-attivazione” di ogni azione. «Proponendo la disattivazione di ogni apparato tecnico-politico ne consegue che anche il pensatore perde valenza politica» (p. 133). In questa prospettiva l’intellettuale rinuncia a ogni modifica dell’esistente e si separa dal resto della comunità.

Gramsci, all’estremo opposto, ammette sì l’esistenza di un abisso tra politica e cultura, ma con la sua proposta di intellettuale organico intende colmare tale abisso. Che ciò avvenga è nella natura delle cose perché il ceto degli intellettuali sgorga, come ogni altro gruppo sociale, direttamente dal mondo della produzione economica e l’intellettuale organico «elabora e rende coerenti i princìpi e i problemi posti dalle masse» (p. 150): la cultura, la filosofia si fanno vita, sono esse stesse vita e praxis. Il pensiero di Gramsci è noto ma l’Autrice lo espone con dovizia di riferimenti e coerenza con l’argomento trattato, talché il dato da ultimo sottolineato in queste pagine è il sincero tentativo propriamente intellettuale di Gramsci di una unione tra il fare politico e il pensare culturale, una filosofia non dottrinaria ma che si afferma col farsi storia e che anzi finisce con il coincidere con la storia: uno storicismo, quello gramsciano, che supera gli storicismi precedenti (e segnatamente Benedetto Croce) e «corona il movimento progressivo degli ultimi secoli, costituisce la coscienza storica delle classi progressiste».

Decisamente pessimista sulla compatibilità tra cultura e politica si rivela Norberto Bobbio, Anzi: il dissidio tra le due sfere resta oltre che profondo, ineliminabile perché l’intellettuale che cede alla politica (“prestato” alla politica, si usa dire) rinuncia a una parte importante di se stesso, cioè proprio alla cultura. L’intellettuale esprime per definizione dubbi e critiche, è refrattario ai dogmatismi (compreso il dogmatismo del “fare”) e alle discipline di partito; egli «si nutre di libertà». Tuttavia in una società democratica non è possibile che un intellettuale se ne resti in disparte disgustato dalla mediocrità affaristica della politica corrente. Egli è chiamato a una politica particolare, a quella che Bobbio chiama la “politica della cultura”, una politica culturale antidogmatica, critica, aperta, impostata su basi di dialogo razionale e di tolleranza. L’intellettuale delineato da Bobbio (e al quale, ci sembra, vanno le preferenze dell’Autrice) presenta «un’attitudine all’ascolto e alla pacatezza dell’argomentazione critica» e si impegna, secondo le parole dello stesso Bobbio, «a porre in discussione le pretese dell’una o dell’altra posizione in contrasto, a resistere alla tentazione di una sintesi definitiva o della opzione irreversibile» (p. 167).

Il tipo di intellettuale così tratteggiato si propone il compito di «smentire le affermazioni proposte da zelatori di ogni ortodossia o da seguaci di propaganda» (p. 168), ma subito l’Autrice cala questo tipo nell’inedito mondo dei social network e degli influencer. L’ultimo capitolo presenta un taglio sociologico e si interroga sul ruolo che gli intellettuali possono ancora svolgere nel virtuale mondo dei “like”, dove il linguaggio e il ragionamento critici sono sovrastati dalle immagini, dagli “emotions” e  da un pensiero banale, piatto e stereotipato, e quindi accessibile a tutti e da tutti producibile. Sarebbe facile cadere nella tentazione un po’ passatista di demonizzare le nuove tecnologie ma l’Autrice la evita accuratamente. L’amplificazione delle possibilità di comunicazione e di acquisizione di informazioni consentita dalla rivoluzione digitale è un bene, che però si offusca quando comporta come effetto collaterale (o indotto) una regressione delle capacità di pensiero critico. Proprio gli intellettuali (nel senso delineato da Bobbio) potrebbero costituire anticorpi non contro le nuove tecnologie digitali ma contro il loro uso distorto e livellatore. C’è da chiedersi (e l’Autrice se lo chiede) quanto sia realistica la probabilità che un autorevole intellettuale calato nel web possa competere con gli influencer, i nuovi coniatori di mode e mentalità.

Sovrastato dal chiasso indistinto dei social network l’intellettuale del XXI secolo sembrerebbe destinato all’irrilevanza. Non viviamo più in un’epoca di forti e contrapposte visioni del mondo; le grandi ideologie novecentesche giacciono nel cimitero della storia e nessuno le rimpiange. E tuttavia resta il bisogno di punti di riferimento valoriali. L’Autrice, a chiusura del saggio, riprende la celebre lezione di Julien Benda sulla funzione autentica del chierico, dell’uomo di cultura interamente votato ai valori disinteressati e astratti di giustizia, libertà, ragione. Svincolato dal perseguimento di scopi pratici (che troppo spesso coincidono con i fini del potere) l’intellettuale può mantenere viva oggi la fiaccola di quei valori universali. L’aggiunta originale rispetto alla lezione ormai centenaria di Benda sta nella concezione dialogica e comunitaria del pensiero, una idea che l’Autrice ricava, tra gli altri, da Salvatore Natoli. L’intellettuale del prossimo futuro non cadrà nella trappola del solipsismo (il rifugio ultimo dei pensatori sconfitti dagli eventi), abbandonerà dunque il pensiero solitario, o meglio trarrà dal dialogo con se stesso il paradigma del dialogo con gli altri, il “pensare insieme” nella comunità. Egli, col pensare insieme, sarà in grado di comprendere (e di far comprendere)  come la felicità risieda «nel giusto rapporto con gli altri e con il mondo» (p. 213). Questa lirica conclusione – più un auspicio che una deduzione rigorosamente logica dalle premesse storiche e concettuali dei capitoli precedenti –  presenta però a nostro avviso un limite, come lo fu già per il Benda. L’Autrice non tiene sufficientemente conto del fatto che i valori universali e astratti di cui parlava Benda non esistono più oppure, se esistono, vengono sistematicamente negati. Quei valori (giustizia, libertà, ragione) presuppongono un consenso di fondo sui loro contenuti. La cristianità europea conobbe questo consenso; lo conobbero, seppure stravolto nelle loro declinazioni, persino i sistemi ideologici totalitari. Ma le odierne società liquide improntate al soggettivismo più aggressivo hanno corroso la sfera valoriale o, più propriamente, l’hanno soggettivizzata: una testa, un “valore”. Implicitamente lo riconosce anche l’Autrice  quando, a proposito dei valori evocati da Benda, scrive che «possiamo discutere sulla loro validità, sulla loro universalità, sul loro relativismo» aggiungendo tuttavia subito dopo che tali valori (giustizia e verità) «rimangono inderogabili» (p. 209). Ma come può un valore, sulla cui validità e universalità è lecito dibattere e sollevare dubbi, restare inderogabile? Un valore così inteso sembra un atto di fede, una verità oggettiva; e in questi termini infatti la cristianità, il giusnaturalismo e, a loro modo, anche le ideologie totalitarie concepivano i valori. E oggi? Oggi l’intellettuale, colui che negli ultimi tre secoli col proprio pensiero critico ha contribuito più di altri a distruggere il concetto del valore in sé e della verità oggettiva potrebbe – dovrebbe – criticare la società liquida e proporre alla comunità contenuti valoriali universalmente validi e sottratti al capriccio del relativismo. Ma quali? Questa la domanda cruciale che ci poniamo e a cui non il potere, non la tecnica, non la politica ma soltanto gli intellettuali (i “chierici”), forse, potranno rispondere.

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