Claudio Capo (1995) è attualmente dottorando in Scienze Giuridiche e Politiche (XXXIX ciclo) presso l’Università “Guglielmo Marconi” di Roma e laureando in Scienze Filosofiche presso l’Università Roma Tre. Si è laureato nel 2022 in Antropologia culturale presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Le sue ricerche si focalizzano sul socialismo rivoluzionario italiano della prima metà del Novecento. I suoi interessi principali concernono l’analisi storico-filosofica delle forme spirituali, culturali e sociali dalla modernità alla contemporaneità. Ha pubblicato diversi contributi presso il mensile di attualità metapolitiche «Diorama Letterario».
Recensione a
G. Zecchini, Il pensiero politico romano. Dall’età arcaica alla tarda antichità
Carocci, Roma 2018, pp. 204, € 12.00.
Una storia della politologia romana non è ancora stata scritta. Ciò può stupire se si pensa che, da Machiavelli in poi, l’Urbe è stata al centro delle moderne indagini sulla scienza della politica. Tuttavia, a causa della mancata differenziazione da altri campi semantici del pensiero, che ne facessero un’entità separata, quando si parla di Roma, l’isolamento della componente politica sembra assumere una validità ideale e dialettica.
Forse è proprio per questo che, al netto di pochi coraggiosi tentativi – degni di nota La politica in Roma antica e Il costituzionalismo a Roma di Mario Pani – non esiste un vero e proprio trattato sulla politica romana che ne delinei in maniera coerente lo sviluppo. Il pensiero politico romano di Giuseppe Zecchini si presenta come un lavoro originale e pionieristico, all’interno del quale, senza pretesa di esaustività, si tenta un’opera di sintesi.
Zecchini segue da vicino l’evoluzione storica della politica a Roma e, sforzandosi sistematicamente di confrontare la teoria con la prassi politica che ne fluisce, prova a fare chiarezza sulle caratteristiche fondamentali del pensiero politico romano dall’età arcaica al tardoantico. Il pensiero politico nasce e si sviluppa a Roma in stretta connessione con la sfera giuridica e religiosa. La riflessione politica romana monta da presupposti di carattere metapolitico. La prima testimonianza dell’architettura ideologica che caratterizza l’intera storia romana è senz’altro da rintracciare nelle duodecim tabularem leges. Al loro interno emerge il principio dello ius provocationis, il diritto di appello valido per ogni singolo cittadino romano, e viene implicata la subordinazione delle esigenze politiche al Sacro. L’azione politica dev’essere condotta in osservanza alla pietas, atteggiamento con cui Roma si assicura il favore degli dèi e la pax deorum.
Sull’inscindibile legame che tiene assieme politica, religione e diritto si sviluppa la Weltanschauung romana, caratterizzata dalla volontà di coniugare tradizione e innovazione, mos maiorum e novum. Romani come Claudio affermano che le basi di un sistema politico volto all’aeternitas dovevano adattarsi con flessibilità alle mutevoli circostanze esterne, facendo dell’innovazione il principale criterio dell’agire politico, pur rimanendo all’interno del mos maiorum, limite di natura etica che costituiva l’ossatura della romanità.
I Romani erano sempre stati ben disposti verso il nuovo e, di conseguenza, avevano sviluppato delle grandi capacità di assimilazione e riorganizzazione. Tuttavia, il rischio di snaturarsi per eccessiva morbidezza era sempre dietro l’angolo. Esemplare il rapporto di odi et amo con la Grecia. Da un lato, per difendere l’antico mos dall’ellenizzazione, si era propugnata una linea di intransigente chiusura e vennero erette solide barriere etnico-culturali – come attestato in Catone nel Carmen de moribus e i Libri ad Marcum filium. Dall’altro si ritenne che l’“ingessatura” del mos era estraneo ai mores Romani e contribuiva, di fatto, a sovvertirlo. La cristallizzazione del mos maiorum sarebbe sfociata nel rifiuto del cambiamento delle strutture sociopolitiche dell’Urbe e avrebbe soffocato qualsiasi processo di rinnovamento. I due atteggiamenti, conservatore l’uno, innovatore l’altro, furono personificati rispettivamente dalle fazioni politiche degli optimates e dei populares.
Durante il II secolo a.C. Roma conobbe una battuta d’arresto che alimentò tensioni sociali e forte instabilità. Cicerone afferma nel De re publica che, per restaurare gli antichi valori che avevano permesso l’ascesa della civiltà romana, si sarebbero dovuti superare i contrasti tra le fazioni urbane sulle quali si era spaccata la società e perseguire un’azione politica volta alla concordia omnium bonorum, la concordia di tutti i cittadini.
Inizialmente Cesare appare come la figura più adatta per la “restaurazione”. Tuttavia, assumendo la dittatura perpetua e accentrando le funzioni istituzionali in un’unica persona, tradisce le aspettative di tradurre in prassi la pratica ciceroniana. Sebbene Cesare figurò subito come il rappresentante ideale degli exempla, per Cicerone la fedeltà e il rispetto delle istituzioni romane era un valore assoluto di fronte al quale i valori prepolitici del mos, dovevano cedere il passo. Il tirannicidio, a questo punto, diventa un atto di suprema devozione alla patria. La reazione dei cesariani, ci dice Zecchini, fu durissima: nessuna istituzione poteva sobbarcare la tradizione riportata negli exempla e, a chi incarna il mos romano, dev’essere affidato il comando (p. 72).
Qualche anno più tardi, Ottaviano seppe trovare una sintesi tra la teoria ciceroniana di rispetto delle istituzioni e la prassi cesarea della centralità del mos maiorum. A differenza dell’illustre predecessore, infatti, il suo atteggiamento verso il senato fu radicalmente diverso. Persuaso che non si potesse di fatto governare contro il senato, fece in modo di essere ammesso nella cerchia ristretta della nobilitas per propiziare la collaborazione con le istituzioni romane. Ottaviano, nel 27 riconobbe nei patres le fonti della legittimità legislativa, in cambio ricevette dal senato l’imperium proconsolare sulle province, ponendosi, di fatto, a capo dell’esercito. Con l’attribuzione del titolo di Augusto e il consensus universorum di senato e popolo romano, si entra, di fatto, nella fase imperiale.
Il consolidamento del principato augusteo si basò sulla combinazione di imperium, sacrosanctitas tribunicia e pontificato massimo. L’“ideologo” più rappresentativo del principato augusteo è senz’altro Virgilio. Il poeta romano si affranca dalla concezione biologica della storia che aspettava impaziente l’imminente declino di Roma. Con Augusto Roma è stata capace di rinascere dalle ceneri e di rinnovare sé stessa. A Roma era stata affidata la missione di diffondere la pace, imponendola, se necessario, con la forza, di esercitare una saggia amministrazione del mondo e di essere arbitra di giustizia tra le genti. Elio Aristide afferma che l’Impero Romano è una grande unità delle diversità, non un disorganico conglomerato, ma un coro che canta all’unisono, mantenendo la pax deorum e realizzando l’unità politica dell’ecumene, pur non rinunciando all’eterogeneità dei popoli al suo interno (Cfr. A. Giardina, A. Schiavone, Storia di Roma, pp. 455-456).
Successivamente, con la dinastia giulio-claudia, si sviluppa l’ideologia del culto imperiale, l’elemento principale di coesione di un Impero così vasto (p. 96). La necessità di eliminare ogni divario tra l’Italia e il resto delle province per rinvigorire il tessuto sociale e stimolare un maggiore sentimento di appartenenza fu al centro del programma politico del più cesariano degli imperatori del I secolo, Claudio. Tacito negli Annali, sintetizza il discorso che l’imperatore pronunciò in senato nel 48 dove propose un allargamento delle funzioni politiche su base etica e non etnica (Cfr. A. Giardina, A. Schiavone, op. cit., p. 461). Il criterio discriminante per essere cittadino dell’Urbe era segnato dal modello etico-politico dei mores.
Il III è il secolo in cui i dibattiti sulla cittadinanza universale e sulla monarchia per investitura divina dominano lo scenario politico dell’Urbe. Nel 212 Caracalla emana la Constitutio Antoniniana del 212, l’Impero estende la cittadinanza romana a tutte le province: «coloro che abitano nel mondo romano, in base alla Constitutio Antoniniana sono stati resi cittadini romani» (Ulpiano, Digesto, 1, 5, 17). L’idea di un’investitura divina del principe trova importanti sponde nell’emergente cristianesimo, ma grandi dubbi nella nobilitas romana. Cassio Dione afferma che è soltanto dalla virtus che scaturisce il diritto all’imperium, non dunque da un’elezione divina, ma dall’essere il migliore secondo l’umano giudizio.
Lo storico bitinico intuisce che il vero fulcro della crisi che investe buona parte del III secolo, e fonte di ampie dispute nei secoli a venire, è da ravvisare nel contrasto tra la religione pagana e capitolina e le nuove religioni orientali, tra cui emerge il cristianesimo – sempre più presente e incisivo nell’Urbe.
La progressiva cristianizzazione dell’Impero termina con la conversione di Costantino, le quali gesta ispirano Eusebio a comporre nel 335 il “manifesto della monarchia cristiana”, il Triakontaeterikos. Il cosmo è una monarchia retta da Dio, il mondo – che coincide con l’Impero Romano – deve essere un’imitazione, una mimesi di quello celeste e, intermediario tra il Re dell’universo e l’umanità è il Verbo di Dio, il Cristo (p.153). Siamo chiaramente al di fuori della tradizione ellenistica, l’Impero diventa cristiano. Il pensiero del tardoantico sarà votato all’insegna della sintesi tra la cultura classica, politologia ellenistica e Antico Testamento.
Avviandosi verso la conclusione, Zecchini nota come il pensiero utopico degli ultimi senatori pagani è di estremo interesse, poiché posto a testimonianza della tenace resistenza che vi fu da parte degli esponenti della tradizione romana. Fa epoca la polemica tra Simmaco e Ambrogio. La Relatio di Simmaco non lascia dubbi che i nobili pagani erano concordi nell’andare alla sfida finale con il cristianesimo, di conservare la religione capitolina e di eliminare l’avversario cristiano. Da Ambrogio, invece, veniva rivendicata la caratteristica che aveva reso grande Roma, ovvero quella di abbandonare il vecchio e convertirsi al nuovo, se migliore, come nel caso del cristianesimo rispetto al paganesimo (Epistole 18, Ambrosio). Il paganesimo, dopo lo scontro finale con il cristianesimo del 394, diviene una religione di minoranza e non incide più a livello di prassi e teoria politica.
La convinzione che la Chiesa non si identifichi con l’Impero, ma lo trascenda, sta a simboleggiare come Pietro abbia superato Cesare e cominciato a scrivere un nuovo capitolo di storia. Roma è così trasfigurata da capitale dell’Impero a centro della cristianità. Da questo punto in poi l’Impero diventa il provvidenziale strumento della sede apostolica. L’imperatore non è più un alleato degli dèi capitolini, ma servo di Dio. Con l’ascesa della teologia cristiana conseguì, nella prassi politica, un dualismo di poteri che non fu più superato. Il Medioevo si impianta sulla dialettica tra il potere spirituale e quello temporale. Tra imperium e sacerdotium. Ma questa è un’altra storia.