Recensione a
G. Thibon, Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale
Fede&Cultura, Verona 2021, pp. 172, € 15.00.
Se dovessimo pensare ad un filosofo le cui scelte di vita sono risultate così anticonvenzionali, a tratti antisistema, non possiamo non citare Gustave Thibon. Definito il “filosofo contadino”, Thibon per tutta la vita strinse con la terra un rapporto non solo di semplice sussistenza, ma anche e soprattutto di pura scelta vocazionale che testimoniava una profonda adesione alla praticità della vita, al suo spietato ma inevitabile realismo. Perché, come vedremo nell’opera intitolata Diagnosi e presentata come un Saggio di fisiologia sociale, nel confrontarsi con la liquidità della società post-moderna Thibon si mostrò sì profondamente critico e avverso, ma si collocò, in nome del buon senso, sempre in una posizione aristotelica delle mezze misure. In altre parole, nonostante presentasse delle venature conservatrici, quasi reazionarie, che lo ancorarono ad un sentimento nostalgico verso il passato e un netto rifiuto verso l’assolutismo del progresso, mai si abbandonò a fughe o esili dalla società. Era un uomo della terra e per la terra, un contadino che percepiva una sorta di debito da pagare all’umanità con il suo impegno civile.
La sua specificità non era data solo dal radicamento alla terra, ma soprattutto dall’adesione alla fede cattolica, tratto non molto comune nella storia della filosofia. In lui ragione e fede si alimentavano vicendevolmente, creando un sistema di memorie sant’agostiniane nel quale l’organicità del suo pensiero filosofico era posta al servizio sia della razionalità che della spiritualità.
Il suo interesse giovanile nei confronti della medicina lo portò a intitolare la sua opera, scritta nel 1940, Diagnosi. Come un medico determina la natura e la sede di una malattia in un paziente, così Thibon avrebbe diagnosticato la sofferenza degli organi della società occidentale, il cui cattivo funzionamento avrebbe provocato effetti a cascata sull’intero organismo. Come avrebbe spiegato Thibon, il buon funzionamento di un organismo come la società, al pari di quello del corpo umano, risiede nella sua capacità di trovare quella “gravitazione eccentrica”, come la definisce il filosofo, quel punto di equilibrio tra una forza proiettata verso l’unità e un’altra verso la diversità. Accentramento e anarchia, nonostante presentino matrici di segno opposto, si alimentano a vicenda in nome di una logica interdipendente. Si legga con attenzione il brano che segue:
Ogni unità implica un minimo di tensione vitale tra gli elementi associati e gerarchizzati. Ogni essere creato è, al tempo stesso, qualcosa di assolutamente irriducibile e di assolutamente insufficiente. Dalla sua sostanziale originalità discende la tendenza a costituirsi quale centro supremo, a non dipendere da altri che da sé stesso; dalla sua insufficienza scaturisce il suo bisogno di gravitare attorno a qualche altra cosa (p. 105).
Originalità e insufficienza, due facce della stessa medaglia da cui gli uomini non possono fuggire. Ora, se un sistema – sociale, economico o biologico – spinge all’estremo queste due forze, gli esiti non possono essere che infausti per la sostenibilità del sistema stesso. Se da una parte risulta chiara l’impossibilità di creare un potere estremamente frammentato e atomistico, un sistema che ricalchi quello tratteggiato dall’homo homini lupus di Thomas Hobbes, dall’altra, una società eccessivamente accentrata, nella quale «la passività dell’ingranaggio ha la tendenza a sostituirsi al ritmo vitale dei muscoli sensori» (p. 106), può ugualmente portare alle peggiori disfatte.
Prediamo a titolo di esempio la morale, la cui forza favorisce il contenimento delle passioni e porta ordine nel caos di un arbitrio incontrollato. Secondo Thibon, se si giunge all’esasperazione del senso etico, di una meccanizzazione del politicamente corretto, la morale diventa impotente, un mero esercizio di stile che non asseconda la vita, bensì la reprime. Quando viene innalzata a idolo, la morale rischia di diventare elemento simbolico rappresentato e quindi non vissuto. Se l’uomo non aderisce spiritualmente al senso etico tramite delle scelte dettate dalla creatività del libero arbitro, non crea quel discernimento dalla pulsione animale. Saremmo buoni solo perché la società vuole e chiede unità.
Stessa invettiva Thibon lanciava nei confronti della ricerca esasperata di unità data dal sentimento egualitario. Si badi bene dal pensare che in Thibon non fosse presente un’istanza egualitaria capace di creare un sistema armonico fra gerarchie naturali e gerarchie sociali. Secondo il filosofo, ogni società che si definisce in salute deve sempre tendere verso questa armonia, ma non può mai sperare di raggiungerla in maniera definitiva. Ecco che tutto il suo realismo prende forma e soppianta ogni istanza idolatrica nei confronti di una volontà di uguaglianza che, secondo Thibon, mostra tutta la sua decadenza nel momento in cui diventa volontà edonistica. Se l’istanza del “dobbiamo essere tutti eguali” sorge in nome di una mancanza, di una sete di potere, di un vuoto affettivo che deve essere colmato, l’eguaglianza perde ogni slancio virtuoso e unitario e diventa «una vertigine di auto-degradazione e morte» (p. 117). Non a caso tutte quelle società che hanno tentato di perseguire il mito dell’eguaglianza senza se e senza ma hanno prodotto effetti catastrofici.
Affinché l’eguaglianza diventi reale vettore di unità e armonia, non può essere eretto a idolo edonistico, ma deve muoversi su un piano ontologico diverso, perché, come afferma Thibon, «gli uomini nascono diseguali per salute, forza fisica, intelligenza» (p. 110).
Arrivati a questo punto, sento la necessità di trovare il filo d’Arianna che tesse le fila di tutto il pensiero di Gustave Thibon in quest’opera. Questo andrebbe ricercato nell’esigenza di trovare quel centro di gravità, o anche gravitazione eccentrica, capace di contenere la forza disgregatrice innata nell’uomo. Non possono, come abbiamo visto, la morale o l’eguaglianza addossarsi interamente questo compito. Ma allora chi o cosa può farlo? È Dio l’elemento salvifico per un’umanità sconquassata dal caos della modernità e ormai priva dei punti cardinali del passato. Scrive Thibon:
Destino dell’uomo. Non si sfugge a Dio. Una sola alternativa: divenire Dio (per mezzo dell’ascetismo o dell’amore) oppure giocare a fare Dio. […] Non si sfugge a Dio: chi rifiuta d’esserne figlio sarà eternamente la sua scimmia. La spaventosa caricatura dei costumi divini che imperversa ovunque dal momento in cui Dio cessa d’essere conosciuto e amato reca testimonianza, più di tutto, di una tale fatalità (p.42).
L’unica idolatria che dà vita e che è in grado di creare quella coesione interna alla società è quella che l’uomo prova nei confronti di Dio. Quella di Thibon è una chiara denuncia ad un razionalismo che cerca di emanciparsi dalle radici ontologiche dell’uomo, dalla Verità di Dio e conseguentemente dalla vita. È inutile appigliarsi alle false rocce della ragione umana, perché sono destinate a corrodersi di fronte alle onde che l’esperienza umana genera.
Il suo pensiero può apparire anacronistico agli occhi del lettore e probabilmente lo è. Diagnosi venne realizzata nel 1940, in un’epoca dove il processo di secolarizzazione in Occidente stava procedendo a ritmi serrati, ma che ancora non aveva assunto la forma liquida che oggi presenta. Il suo pensiero assume effettivamente le sembianze di un tuffo in un passato ormai lontano, dai sapori per alcuni nostalgici, per altri un po’ meno. Rileggere oggi però la sua opera significa non solo ripercorrere la storia dell’uomo, di ciò che è stato, ma interrogarsi anche sul suo destino e progresso. Perché, come forse direbbe il filosofo, per fare due passi in avanti bisogna farne uno indietro.