Stefano Suozzi (1967) è collaboratore dei Centri Culturali e tutor della Scuola di Alti Studi della Fondazione Collegio San Carlo di Modena. All’intersezione tra filosofia, arte e letteratura, ha pubblicato: Voce: «assolta simmetria», in R. Deidier (a cura di), L’avventura di restare. Le scritture di Elio Pecora (Genova 2009); La volontà di fare la cosa giusta. Il futuro distopico di Philip K. Dick, in C. Altini (a cura di), Utopia. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica (Bologna 2013); Un'invincibile solitudine. Mondo proprio e mondo comune in Philip K. Dick, in «Intersezioni» (2/2015); Ritratto di un paradosso. Sulla pittura di Gabriele Grones, in G. Grones, Paintings (2018) e L’arte della fuga. Attualità e inattualità dell’immagine e della scrittura, (Pisa 2021).
Noi siamo quel che facciamo finta di essere,
sicché dobbiamo stare molto attenti a quel che facciamo finta di essere.
Kurt Vonnegut[1]
Se, dunque, il romanzo di Philip K. Dick è un dispositivo in grado di mettere in dubbio la consistenza della realtà del lettore e, allo stesso tempo, di insinuare che la democrazia americana degli anni Sessanta sia contaminata dagli ideali del nazismo, che cosa accade nel momento in cui questo dispositivo viene modificato?
3. Per comprenderlo, è necessario far emergere un paradosso. Contrariamente alle apparenze, e proprio grazie alla struttura su più livelli di realtà di MHC, il romanzo di Dick non è un romanzo di Storia controfattuale. A differenza del Sinclair Lewis di It Can’t Happen Here (1936) e del Philip Roth di The Plot Against America (2004)[2], non si tratta della descrizione di come l’esito diverso di un singolo evento possa cambiare il corso della Storia e di come l’elezione di un presidente razzista e fascista avrebbe potuto trasformare gli USA in una dittatura con lo stesso largo consenso e disponibilità dell’Italia e della Germania[3]. In MHC, invece, Dick ci dice che qualunque cosa sia successa, vittoria o sconfitta degli USA nella Seconda guerra mondiale, il nazismo ha vinto e infettato gli USA degli anni Sessanta.
È evidente che si tratta di una tesi che il sistema cinematografico e televisivo statunitense è naturalmente restio a proporre al proprio pubblico, una tesi che è inconciliabile con la rappresentazione di sé che gli USA hanno dato e continuano a dare a se stessi e al resto del mondo, e sicuramente una tesi difficile da vendere al grande pubblico. Ovviamente, non intendiamo sostenere che Dick abbia ragione; non è questo lo scopo di queste nostre pagine. Ma è altrettanto ovvio che quanto c’è di vero nella feroce diagnosi dickiana, nella serie tv va completamente perduto. Ed è qui che si innesta la vera questione: ciò che di nuovo la serie tv aggiunge rispetto al romanzo.
Tutti i personaggi del romanzo presenti nella serie tv muoiono entro la fine della terza stagione, ad esclusione di Abendsen (che muore nel corso della quarta stagione), Juliana e Childan. Ma sia Juliana che Abendsen sono personaggi assolutamente privi di spessore. Abendsen raccoglie i film (GLH) e questo ne fa una sorta di capo della resistenza. Ma la funzione dei film è in fondo soltanto quella di infondere speranza e nulla più, anche se alla fine questa speranza si concretizza nella vittoria della resistenza contro il Giappone e, forse, contro la Germania (la serie si conclude prima che ciò accada). Allo stesso modo, muovendosi tra i diversi mondi e le diverse avventure, alla fine Juliana trova il proprio scopo nel far fallire il tentativo della Germania di invadere e occupare il mondo di GLH. Ma, anche nel suo caso, si tratta di un personaggio privo di sviluppo e di evoluzione. In fondo, per entrambi essere dalla parte dei “buoni” è più che sufficiente per trasformarli in eroi, senza che sia necessario aggiungere altro.
Due sono invece i personaggi completamente nuovi rispetto al romanzo, che assumono via via il ruolo di protagonisti principali fino all’ultima puntata e all’ultima scena della serie tv. Sono Takeshi Kido, ispettore della Kempeitai, la polizia militare giapponese a San Francisco, e John Smith, Obergruppenfürher delle SS a New York. Le vicende di questi due personaggi sono in qualche modo parallele, ma ciò che colpisce è che alla definizione dei loro caratteri è sicuramente dedicato il maggior impegno degli sceneggiatori.
Kido è un ispettore senza scrupoli, assolutamente fedele alla causa giapponese e intriso dei valori tradizionali del Giappone, su tutti l’amore e l’obbedienza all’impero e all’imperatore. Sembra a volte turbato dalle conseguenze delle proprie azioni, ma continua a perseguire senza sosta i propri scopi, non importa se per questo deve uccidere, ingannare e collaborare con la yakuza. A tratti, Kido sembra comprendere che le proprie azioni sono, allo stesso tempo, giustificate dai propri ideali e in contraddizione con il rispetto e la devozione che a questi ideali egli stesso riconosce. Tuttavia, il percepire questa contraddizione non lo porta mai a mettere in dubbio il reale valore degli ideali che informano le sue azioni. Il suo intermittente turbamento è prodotto dalla contraddizione, ma non arriva mai a pensare che le azioni malvage che compie sono una conseguenza di quegli stessi ideali a cui si è votato e che l’unica soluzione sarebbe quella di metterli finalmente in discussione. Invece, prosegue imperterrito nella sua discesa agli inferi e, nel finale, mentre i giapponesi sconfitti dalla resistenza stanno abbandonando San Francisco, Kido accetta di entrare nella yakuza (i soli giapponesi a rimanere perché «di loro ci sarà sempre bisogno») per ripagare il debito contratto dal figlio, salvarlo dalla punizione della yakuza e consentirgli di fuggire in patria.
Una simile lotta interiore sembra tormentare anche John Smith, quello che diventa sicuramente il protagonista della serie tv. Militare statunitense che dopo la sconfitta dell’esercito americano accetta di entrare nelle SS, all’inizio della serie è Obergruppenfürher e nel corso degli episodi sale irresistibilmente la scala gerarchica divenendo successivamente Oberstgruppenfürher, Reichsmarschall del Nord America e infine Reichsfürher del nuovo Reich nordamericano. Nella sua ascesa politica e militare, ottenuta attraverso una spietata crudeltà contro gli avversari interni ed esterni, Smith si rivela essere anche il più interessato alla realizzazione della macchina che consente di viaggiare tra i diversi mondi.
Ma anche per John Smith gli ideali nazisti a cui è fedele entrano in contraddizione con la sua vita privata. Si scoprirà che Smith è entrato nelle SS per evitare la morte per fame della moglie e del primo figlio neonato, ma lo stesso figlio a 15 anni, dopo aver scoperto di soffrire di una malattia genetica, si autodenuncia alle autorità mediche per subire l’eutanasia prevista e salvaguardare la purezza della razza. Nel frattempo, Smith ha ucciso il medico che per primo ha diagnosticato la malattia per evitare che denunci il figlio e, successivamente, la moglie di Smith ucciderà la vedova del medico per impedirle di indagare sulla morte del marito e di pretendere che le altre due figlie degli Smith facciano nuovi test genetici per accertare se soffrono della stessa malattia del fratello. E così via. Ogni passo avanti nella carriera di Smith sembra giustificato dalla necessità di proteggere i propri famigliari, anche perché non ottenere una promozione significa automaticamente cadere in disgrazia e perdere il potere acquisito, mentre i suoi viaggi nel mondo di GLH sono dedicati soprattutto a “rivedere” il figlio, in quel mondo ancora vivo e in salute.
È come se la serie tv si reggesse sempre e solo su questo argomento, o quasi: la famiglia. Juliana entra nella resistenza per continuare l’opera della sorella uccisa dalla Kempeitai; Frink diventa uno spietato combattente dopo che la Kempeitai ha ucciso i suoi famigliari; Kido entra nella yakuza per salvare il figlio; e Smith entra nelle SS fino a diventare Reichsfürher per salvare e proteggere la sua famiglia.
La famiglia è il grande ideale e la famiglia giustifica tutto, anche l’ingresso nella yakuza di Kido o nelle SS di Smith. A chi non ha famiglia non viene riconosciuta nessuna reale motivazione all’azione, come nel caso di Childan. Tra i personaggi presenti in tutti gli episodi, Robert Childan è l’unico senza famigliari: infatti non muta e non evolve. Cerca in ogni modo di non essere coinvolto nella battaglia e anche quando condivide temporaneamente il percorso di un altro personaggio maggiore, si preoccupa solamente di continuare a fare i propri affari e di compiacere i giapponesi, dei quali condivide gli ideali estetici e l’ideologia razzista, in particolare nei confronti degli afroamericani. È una sorta di Emanuele Bardone che non diventa mai il generale Della Rovere, un Don Abbondio proprietario di un negozio di anticaglie.
E, mancando nella maggior parte dei casi, di un approfondimento del loro contesto famigliare, anche i membri della resistenza restano personaggi deboli. Si battono contro giapponesi e nazisti, ma non è affatto chiaro se la società che costruiranno dopo l’eventuale vittoria sarà migliore da quella imposta dagli occupanti. Non a caso, oltre a un antisemitismo comunque presente tra gli americani (dentro e fuori la resistenza), non vi è nemmeno collaborazione con la resistenza organizzata dagli afroamericani, comunisti e decisi a creare un proprio stato indipendente (una sorta di caricatura dei Black Panthers).
È come se Amazon, in questo seguendo la lezione di Hollywood e di tanta televisione americana, avesse preso alla lettera l’aforisma di Leo Longanesi e avesse scritto su tutte le bandiere: «tengo famiglia».
4. Ma c’è di più. Da un lato, trasformandolo in un avventuroso racconto di resistenza, il romanzo di Dick è stato reso innocuo e impotente, così evitando che la serie potesse essere un atto d’accusa contro le contraddizioni e le ipocrisie della società e della politica USA, anche di quelle di oggi. Dall’altro lato, i nuovi personaggi introdotti dalla serie, anche se hanno solamente lo scopo di rendere la trama più avvincente, con la loro costante presenza e l’assoluto rilievo che assumono nello svolgimento della trama, introducono surrettiziamente un significato che era assolutamente assente nel romanzo. Kido e Smith diventano i campioni della fedeltà ai propri ideali. E questa fedeltà, contro ogni avversità e indipendentemente da ciò che tali ideali dettano, sembra assumere una connotazione positiva. Se l’onore consiste nella fedeltà ai propri ideali, allora Smith e Kido sono persone onorevoli, indipendentemente dal valore degli ideali a cui sono fedeli. Ma come aveva già sottolineato lo stesso Dick descrivendo la mentalità nazista, l’onore non può essere un valore in sé: «La loro visione: è cosmica. (…) Non l’onore degli uomini degni d’onore, ma l’Ehre stesso; per loro l’astratto è reale, e il reale è invisibile. Die Gute, ma non gli uomini buoni, non quest’uomo buono. (…) E questo è fatale alla vita. Perché alla fine non ci sarà più vita»[4]. L’onore in quanto tale è per Dick una mistificazione: non può essere onorevole rispettare ideali che impongono di agire in modo criminale e crudele.
A ciò si aggiunge una seconda connotazione “positiva”. Agire in modo criminale e crudele è comunque giustificato se lo si fa per proteggere la propria famiglia. È in questo modo che Kido e Smith diventano gli “eroi” della serie tv e, di conseguenza, in una vicenda che dovrebbe narrare gli orrori del nazismo, il giudizio sull’adesione al nazismo viene inevitabilmente depauperato e depotenziato. Essere fedele ai propri principi e difendere la propria famiglia giustifica tutto, anche diventare Reichsfürher!
Una risposta a questo dilemma, se di un dilemma si tratta, può essere rinvenuta in un altro romanzo, anche questo di ben altro spessore rispetto alla serie tv tratta da MHC. Mother Night (1961), di Kurt Vonnegut, è la lunga confessione di Howard W. Campbell, commediografo americano che, trasferitosi in Germania, diventerà la più influente voce radiofonica della propaganda nazista. Tutto il romanzo è pervaso dal dubbio: Campbell è stato davvero un entusiasta nazista o, come lui sostiene, tutto ciò che ha fatto è stato fatto per poter rimanere nel cuore del partito nazista e così portare a termine la sua vera missione, quella di spia per gli americani? Il dilemma sembra di facile soluzione: se Campbell era davvero una spia, allora le sue azioni erano giustificate e lui è innocente. Ma Vonnegut complica tutto, mettendo in crisi questa convinzione: ciò che davvero importa non è chi siamo sotto la maschera che indossiamo e le “vere” ragioni per cui agiamo come la nostra maschera ci impone, perché, in verità, «noi siamo quel che facciamo finta di essere»[5] e siamo definiti dalle conseguenze delle azioni che compiamo in quanto tali. È ciò che emerge dal dialogo tra il nazista Werner Noth e lo stesso Campbell, entrambi prigionieri degli americani:
«E sai perché adesso non mi importa più di sapere se eri o non eri una spia?» disse [Noth]. «Adesso potresti anche dirmi che eri una spia, e noi continueremmo tranquillamente a parlare, come stiamo facendo. E ti lascerei andare dovunque vadano le spie quando la guerra è finita. Sai perché?» disse.
«No», dissi [Campbell].
«Perché per quanto bene tu possa aver servito il nemico, per noi hai fatto di più», disse. «Mi rendo conto adesso che quasi tutte le idee che ho in testa, e che non mi fanno vergognare di nessuna cosa che io, come nazista, abbia sentito o fatto, non vengono da Hitler, non da Goebbels, e nemmeno da Himmler… vengono da te». Mi prese la mano. «Solamente tu hai saputo impedirmi di pensare che la Germania fosse impazzita, tutta quanta»[6].
5. Cerchiamo di concludere. Emerge qui una certa vicinanza tra la serie tv di MHC e i romanzi di Sinclair Lewis e Philip Roth. L’incapacità, e la mancanza di volontà, di criticare i lati più oscuri della democrazia americana e di accettare la sua vulnerabilità agli ideali anche più aberranti rimanda certamente al leit motiv del romanzo di Lewis, che ne origina il titolo: per tutto il romanzo, di fronte alla minaccia rappresentata da Buzz Windrip, tutti i personaggi “positivi”, e con essi il protagonista, il giornalista Doremus Jessup, continuano a sostenere che, per quanto male sembrino andare le cose, ciò che sta accadendo in Italia e Germania negli USA «non può accadere». Una frase che viene ripetuta fino alla fine, quando ormai tutto il peggio è già accaduto.
Pur presente, nel romanzo di Roth questa atmosfera di incredulità è stemperata dall’io narrante, che offre il punto di vista di una famiglia ebraica del New Jersey, vittima diretta dell’antisemitismo del nuovo presidente Lindbergh. Eppure, mentre alcune famiglie fuggono in Canada, il padre del protagonista rimane a Newark convinto che la costituzione americana continuerà a proteggerlo. Inoltre, desta qualche perplessità la conclusione del romanzo. Dopo la morte di Lindbergh, la fine del suo regime, il ritorno di Roosevelt alla presidenza e l’entrata in guerra degli USA, si diffonde la voce che Lindbergh sia stato costretto ad agire come ha fatto perché il figlio rapito non è morto, ma è prigioniero della Germania. Una favola, ma una favola a cui Roth dedica numerose pagine e che aleggia sul finale di The Plot Against America come «la storia più complicata, la storia più incredibile – anche se non necessariamente la meno convincente»[7]. Una favola che, da un lato, mostra l’incapacità degli americani di ammettere la possibilità di un presidente antisemita e filonazista per convinzione propria, ma solo perché ricattato, così dimenticando tutti coloro che quel presidente hanno convintamente seguito e creduto. Infatti, incredibilmente, l’inasprirsi della dittatura con la presa del potere da parte del vicepresidente Wheeler si sgonfia grazie a un solo discorso radiofonico della moglie di Lindbergh che riporta la calma e rende possibile le nuove elezioni vinte da Roosevelt, come se le sue parole fossero sufficienti per riportare alla ragione tutti coloro che, dai livelli più alti della casa bianca ai più umili elettori, avevano entusiasticamente sostenuto l’antisemitismo e la dittatura di Lindbergh e Wheeler. Dall’altro lato, dedicando tanto spazio alla versione del rapimento nazista del figlio di Lindbergh, sembra che anche un critico disincantato degli USA come Roth non riesca ad andare fino in fondo e senta il bisogno di riservare una «via di fuga» ai fantasmi e alle debolezze degli americani, alla loro capacità di guardarsi sinceramente allo specchio[8].
Ma nel caso di Lewis e Roth, la difficoltà di credere che «qui non può succedere» resta una denuncia feroce degli stereotipi e delle idiosincrasie americane: dalle conseguenze del continuare comunque a credere che gli americani sono «brava gente», come se per natura fossero incapaci di sviluppare una dittatura, all’antisemitismo persistente e sempre serpeggiante nella società statunitense. Nella trasformazione del romanzo di Dick in una serie tv d’avventura, sotto la veste di un racconto di nobile resistenza al nazismo, proprio alcuni degli aspetti più aberranti della mentalità nazista sembrano giustificati, ogni azione sembra ammissibile se compiuta in nome dell’onore e della famiglia. In questo modo, non è soltanto la storia di Dick a essere stata tradita, peccato tutto sommato veniale nel nostro mondo, ma è la Storia stessa a essere tradita e travisata. Un gesto che dovremmo tutti percepire come molto più grave.
Note:
[1] Kurt Vonnegut, Mother Night [1961], trad. it. Madre notte, Feltrinelli, Milano 2013, p. 5.
[2] Da noi non può succedere di Sinclair Lewis racconta l’elezione del presidente razzista e fascista Berzelius “Buzz” Windrip (di finzione, ma probabilmente ispirato a Huey Long) e della trasformazione degli USA in un regime totalitario; Il complotto contro l’America (Torino, Einaudi, 2014) di Philip Roth racconta dell’elezione a presidente di un Charles Lindbergh (vincitore nel 1940 contro F.D. Roosevelt) antisemita, filonazista, isolazionista e anti-interventista.
[3] Per comprendere, per esempio, l’interesse suscitato all’epoca dalle politiche economiche dell’Italia fascista e della Germania nazista, e della “buona stampa” di cui godevano negli anni Trenta, cfr. W. Schivelbusch, 3 New Deal. Parallelismi tra gli Stati Uniti di Roosevelt, l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler, 1933-1939 [2005], trad. it., Milano, Tropea, 2008.
[4] P.K. Dick, La svastica sul sole, cit., pp. 71-72.
[5] K. Vonnegut, Madre notte, cit., p. 5.
[6] Ibid., p. 87.
[7] P. Roth, Il complotto contro l’America, cit., p. 345.
[8] Anche del romanzo di Roth è stata prodotta una serie tv (HBO, 6 puntate, 2020). Molto più fedele all’originale rispetto a quanto accaduto con MHC, merita comunque di fare un paio di osservazioni. Innanzitutto, anche in questo caso la produzione non ha resistito alla necessità di introdurre un elemento di resistenza attiva: mentre nel romanzo l’aereo di Lindbergh scompare nel nulla, probabilmente per un incidente, nella serie tv l’aereo viene abbattuto dalla resistenza (completamente assente nel romanzo). D’altra parte, mentre nel romanzo l’ipotesi del rapimento di baby Lindbergh da parte dei nazisti non viene negata con la decisione che ci si aspetterebbe, nella serie tv viene sostenuta solamente da una farneticante Evelyn Finkel, ormai caduta definitivamente in disgrazia, nel disperato tentativo di giustificare il sostegno e la collaborazione, suo e di suo marito, il rabbino Lionel Bengelsdorf, alla politica di Lindbergh. Ma ancora più importante, mentre il romanzo si conclude con il ritorno di Roosevelt e l’entrata in guerra degli USA, la serie si chiude con le immagini delle elezioni e dei brogli perpetrati dai sostenitori del vice di Lindbergh, Burton K. Wheeler, lasciando presagire il peggio.