Sandra Santoro insegna greco e latino nei licei a Napoli.
Recensione a: J. Sellars, Sette brevi lezioni sullo stoicismo, Einaudi, Torino 2021, pp. 112, € 12,00.
Quale direzione percorre l’uomo di ogni tempo nella sua ostinata quête verso la conquista della tranquillitas animi? Come affrontare le discese ardite, le strenue risalite e l’impeto agghiacciante delle vorticose emozioni nella vita di tutti i giorni? Quanta responsabilità costa al modus cogitandi di ciascuno giudicare gli eventi? Come continuare a respirare, nonostante la straziante asfissia causata dal dolore? È inevitabile ripercorrere la “via ferrata” dei classici per toccare la vetta delle lezioni più intense ed acroniche del pensiero filosofico greco-romano, lo Stoicismo.
Caratterizzato da prosa efficace ed intelligibile da tutti, il manualetto di John Sellars offre una serie di avvertenze con le quali proteggere gli animi dalle stangate violente o ripararli dagli urti improvvisi degli imprevisti esistenziali. Rispolverando gli scritti dei tre più rappresentativi esponenti dello stoicismo romano, l’autore dibatte, in sette capitoli, corrispondenti ciascuno ad una lezione specifica di resilienza, sull’evitamento degli eccessi emotivi, sulle armi da impugnare contro le avversità, sul posto dell’uomo nella Natura, sulla relazione vita-morte, sul ruolo sociale di ciascun individuo. Interpretando in chiave moderna la temperie filosofica che dal suo fondatore, Zenone di Cizio (IV-III sec. a. C.), transitò da Atene all’Asia Minore, fino a giungere, nei secoli successivi, a Roma, lo studioso americano adopera con destrezza le fonti letterarie di Seneca, Epitteto e Marco Aurelio, ed emancipa lo stoico dall’immagine del filosofo isolato ed impassibile, per rendere giustizia alla ricchezza e alla profondità di pensiero della Stoà Poikìle e cavarne un prontuario sull’arte di vivere.
Ciò che giova ad una vita luminosa è un carattere virtuoso, mai compromesso dall’ossessivo inseguimento di quelli che, in linguaggio tecnico, vengono detti “indifferenti preferibili” (agiatezza, buona salute). Epitteto, nella sua scuola di Nicopoli, insegnava ai giovani dell’élite di Roma a difendere la propria integrità morale e a disprezzare i meri “indifferenti”: ed allora come salvarsi dalla corruzione? Quali implicazioni ha il fatto di possedere un carattere eccellente? La conquista delle quattro virtù cardinali stoiche: la saggezza, la fortezza, il coraggio, la temperanza. Lo spazio entro il quale le virtù acquisiscono consistenza ontologica attraverso le azioni è quello della società: «se gli esseri umani sono per natura animali sociali, collocati per nascita in famiglie e comunità, allora un uomo buono sarà un uomo che ha un comportamento socievole. Uno che non si comporti bene con gli altri, cioè che non abbia i tratti caratteriali della giustizia, del coraggio e della temperanza, in qualche misura non riuscirà ad essere un uomo buono, e se non ci riuscisse per nulla, potremmo addirittura chiederci se sia davvero un uomo».
L’equazione saggezza-felicità è perfetta, se l’uomo si adegua all’armonia universale della Natura. Bisogna indossare scarpe comode ed attraversare i sentieri melmosi dei nostri pensieri, imparare a classificare correttamente i fatti, a guardarsi dentro con determinazione ed umiltà, scegliere il senno e la prudenza come guide nel viaggio imprevedibile della vita. Ed allora Epitteto avanza la proposta di comportarci, durante il nostro tempo mortale, come attori in un dramma: pur avendo subito dal fato la nostra parte, dobbiamo recitarla nel modo migliore ed entrare nel ruolo con professionalità. È basilare la consapevolezza che, pur potendo razionalmente controllare le nostre azioni, è impossibile prevederne gli esiti: dunque, ciò che ci resta da fare, per evitare la delusione, è seguire il flusso, senza mai calare la nostra attenzione rispetto ai progressi conseguiti, senza dimenticare di lavorare sui giudizi, sul modo di pensare ai vissuti. Ritirarsi dal mondo sarebbe da vigliacchi, la temerarietà consiste nell’immergersi nella società, coglierne a fondo le dinamiche e corazzarsi contro i pericoli indipendenti da noi, fuori dal nostro controllo. Le emozioni degli altri, in senso negativo, l’ira, la frustrazione, l’afflizione, sono impotentemente gestibili, ma ciò che compete alla nostra responsabilità è la reazione rispetto ad esse. Lo stoico consiglia tutt’altro che l’impassibilità, atteggiamento inconsistente per la natura umana, né semplicemente la rimozione delle emozioni, una volta insorte; Sellars consolida l’idea che lo Stoicismo rifugge del tutto l’intento di trasformare l’uomo in un organismo pietrificato, insensibile, e gli dà forza in quanto ha il potere di razionalizzare l’involontaria e naturale reazione fisiologica provocata dalle emozioni; compito dell’uomo che tende alla felicità è riflettere, destreggiarsi con giudizio nelle situazioni avverse, non abbassare mai la guardia dinanzi ai sentimenti prevalentemente negativi, lasciare al logos una valutazione più obiettiva dell’accaduto.
Al riguardo, Seneca, la cui vita fu segnata da vari turbamenti (l’esilio durante il principato di Claudio, il conflitto con Nerone e il suo coinvolgimento nella Congiura dei Pisoni), rammenta che «non accade mai nulla di male, dato che tutti gli avvenimenti esterni non sono né buoni né cattivi in se stessi. Chi tiene a mente questa idea e non si precipita a formulare giudizi avventati accetterà ciò che accade per quello che è, senza giudicare che sia accaduto qualcosa di terribile». Anzi, le sventure consistono in delle vere e proprie prove a cui l’uomo di valore, come un lottatore esperto o un soldato ambizioso, deve sottoporsi per rafforzare il proprio “buon carattere”; qualche secolo dopo, Marco Aurelio, accettando il determinismo causale della Natura, insiste sull’inutilità di desiderare un esito diverso dei fatti, poiché non sarebbe potuto essere altro da quello che è stato, in quanto subordinato ad una logica provvidenziale. In questa logica rientra anche la morte, totalmente spogliata della sua tragicità: in questo preciso ordine naturale la vita è un dono che prima o poi va restituito al suo donatore, la Natura; analogamente, anche ciò che si ama non è altro che un prestito. L’investimento più proficuo di questi prestiti si realizza in un’attività volta al miglioramento dello spirito, al superamento degli inciampi del dubbio logorante e del timore dell’incertezza del futuro. Inclinarsi alle virtù e alla pazienza attenua il martirio di un tempo determinato, che pesa sulle spalle e ci riconduce nel posto da cui siamo venuti. Solo stancando le nostre ansie ed ubriacandoci di virtù senza posa possiamo raggiungere l’Est ed ammirare, prima e meglio di tutti, l’alba.