Maria Alessandra Varone (1998) si è laureata in Filosofia all’Università degli Studi Roma Tre nel 2019, conseguendo poi la laurea magistrale in Scienze Filosofiche nel novembre 2021. Attualmente è dottoranda presso l’Università degli Studi Roma Tre per il curriculum Filosofia analitica e scienze empiriche e con interessi di ricerca rivolti alla metafisica e alla storia della scienza in Europa tra la seconda metà del diciottesimo secolo e la prima metà del diciannovesimo secolo.

Recensione a: D. Breschi, Yukio Mishima. Enigma in cinque atti, Luni Editrice, Milano 2020, € 20,00.

L’opera di Mishima riassume l’estetica del Sol Levante: quella della neve e del sangue, del fiore di ciliegio e della spada. «Hana wa sakuragihito wa bushi», «tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero», dice un antico detto giapponese. Ecco: Mishima è stato sia un fiore che un guerriero.

L’autore, Danilo Breschi, nel testo trasmette molto bene lo spirito mishimiano, che è ribollente, creativo, mai statico o fisso, né scontato. Al contrario, sempre nuovo e dinamico. Viene efficacemente rappresentata, dunque, la natura realmente vivente della letteratura del celebre scrittore giapponese, che non si fossilizza, ma diviene continuamente, pur senza tradire mai l’ardito eroismo e l’appassionato, costante amore per la bellezza che lo contraddistinguono.

Caratteristico della poetica mishimiana è il tentativo di scandagliare ogni aspetto dell’animo umano, andando oltre qualsiasi limite, all’interno di una triade costante: bellezza, erotismo, morte. Ed è estremamente interessante notare che questi elementi non si limitano ad essere presentati in una relazione oppositiva, al contrario, quasi risolutiva, capace di superare l’apparente contraddizione, trovando la complementarità, che è l’altra faccia del contrario. Un esempio lampante di questo è fornito dal binomio erotismo-peccato:

Il diagramma di bellezza, erotismo e morte, di cui ho parlato prima, è un concetto secondo il quale l’erotismo non si può trovare che nell’ordine dell’Assoluto. In Europa l’erotismo non esiste senza il peccato. Chi pecca, gli piaccia o no, dovrà poi trovarsi di fronte a Dio. L’erotismo è il modo per raggiungere la divinità attraverso il peccato (cit. ivi, p. 40).

Mishima ha magistralmente operato una sensualizzazione di una istanza filosofica classica dei pensatori antichi e medievali, e cioè l’ontologia negativa. A differenza loro, però, non l’ha limitata al contesto puramente speculativo, ma le ha dato vita e fibra: un corpo. Non si tratta di un caso di superamento limitato, anche in altri contesti Mishima ha fatto lo stesso, come nell’analisi di Hitler, che non è eroe ma nemmeno inetto, si tratta di un personaggio cupo ed ombroso, in cui non vi è il grande mitologico, ma quello prosaico, un mero genio politico[1].

Questo provocatorio, coraggioso superamento di ogni barriera ha in sé il deliberato gusto per l’estremo, la calorosa accettazione del fanatismo come elemento eroico e poetico. Il senso di questo deliberato eccesso è nell’identificazione tra estetico ed etico, la quale, in realtà, non lascia molto margine di manovra, perché il bello reale impone l’azione estrema. Come lo Zarathustra di Nietzsche, così Mishima vuole scrivere col sangue, perché il sangue è spirito[2].

Questo ritorno all’immagine poetica della Grecia degli eroi, ed in particolare all’ideale aristocratico di kalokagathìa[3], non è casuale, ma una reazione alla progressiva americanizzazione del Giappone. Al decadentismo occidentale Mishima ha scelto di opporre l’ideale etico-estetico del samurai. Non, però, in una prospettiva semplicemente reazionaria o nostalgica del passato, bensì rinnovandone la figura nell’esperienza bellica a lui contemporanea, presentificandola, rendendola così eternamente valida e non un mero accidente storico. Ragione per la quale, ad Icaro, per esempio, Mishima ha accostato l’esperienza di volo su un caccia supersonico F-104.

Lo spirito radicale di Mishima, tuttavia, non è irrimediabilmente serio, come quello dei prezzoliniani monaci medievali[4], al contrario, è carico di ironia, seppur di una ironia drammatica: abbraccia la maschera e il clown, il travestimento e lo scandalo, l’omosessualità e l’eterosessualità, il narcisismo e l’annientamento, tutto per perseverare nella “parte del torto” e per non precludersi nessun sentiero nella viva indagine dell’animo umano.

Mishima, però, non è solo l’esploratore del redi te ipsum, del ritorno in sé, ma anche dell’io in rapporto con il mondo, che cambia colore: si muove lungo uno spettro che va dal giullare all’alieno, dall’ermafrodito al samurai sul caccia F-104. E questo rapporto è tremendamente drammatico, perché l’uomo vuole fisicamente agire in un mondo che sempre più preclude all’azione grande ed eroica e apre a quella piccola e prosaica. Mishima realizza allora che non vi è altro margine d’azione radicale, assoluta e definitiva della morte, nella fattispecie del seppuku.

Per comprendere il complessissimo Mishima, per poterne afferrare la statura gigantesca, sono molto efficaci le precise parole dell’Autore, con le quali è riuscito a rapprendere la sconfinata ricchezza e complessità mishimiana:

Il pensiero potente e letterario di Yukio Mishima è un corto circuito tra il medioevo più feudale, gerarchico e guerriero, ed una modernità talmente avanzata da anticipare il postmoderno. Il fatto è che questa altissima tensione non viene scatenata in vitro, ma si produce in corpore vili. Circola nelle vene dello scrittore e ne elettrizza il sangue. La mente e il cuore di Mishima vivono realmente quel corto circuito, ne sperimentano tutte le conseguenze, fino all’ultimo, facendone arte, vita e morte. E scusate se è poco (p. 240).

In conclusione, si può ribadire il modo con cui è stato presentato Mishima all’inizio del testo, e cioè sia un fiore che un guerriero, che vive in una magnifica fierezza sopportando il peso dell’enigma:

L’orgoglio dei fiori non si manifesta forse nel “momento stesso della fiortiura” più che nella possibilità di fiorire in futuro o nella consapevolezza di esser fioriti in passato?[5]

NOTE

[1] Y. Mishima, Il mio amico Hitler, Guanda, Parma 1983, p. 103.

[2] «Di tutto quanto è scritto io amo solo ciò che è scritto ciò che uno scrive col suo sangue. Scrivi col sangue: allora imparerai che il sangue è spirito» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 1995, p. 40).

[3] Concetto che esprime identificazione tra bellezza etica ed estetica, reso in italiano con “bello e buono”.

[4] G. Prezzolini, Studi e capricci sui mistici tedeschi, Storia e Letteratura, Roma 2018.

[5] Y. Kawabata, Y. Mishima, Lettere 1945-1970, SE, Milano 2002, p. 16.

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