Maria Alessandra Varone (1998) si è laureata in Filosofia all’Università degli Studi Roma Tre nel 2019, conseguendo poi la laurea magistrale in Scienze Filosofiche nel novembre 2021. Attualmente è dottoranda presso l’Università degli Studi Roma Tre per il curriculum Filosofia analitica e scienze empiriche e con interessi di ricerca rivolti alla metafisica e alla storia della scienza in Europa tra la seconda metà del diciottesimo secolo e la prima metà del diciannovesimo secolo.

Recensione a: L. Tolstoj, Sulla vita, a cura di L. Rossi, BUR, Milano 2021, pp. 244, €10,00.

Tra il 1886 e il 1887 Tolstoj scrisse un piccolo testo: Sulla vita. Il titolo originale non era questo, bensì Sulla vita e la morte. Infatti, come spiega Laura Rossi, la curatrice dell’edizione italiana, Tolstoj, alla fine della stesura, arrivò alla conclusione che la morte fosse di troppo. «Quando ha finito l’articolo», scriveva la moglie Sof’ja Tolstaja, «ha deciso che la morte non c’è»[1].

Questo passaggio, in cui si relega la vita alla vita stessa, oltre ad essere tipicamente slavofilo[2], richiama anche il grande romanticismo tedesco, da cui Tolstoj fu molto influenzato nonché ispirato. In questo cambiamento, però, c’è un ammonimento sotteso che verrà esplicitato nel testo: una messa in guardia di natura conoscitiva, metodologica. Mai trattare la materia viva come quella morta, inerte[3]. E cioè, attenzione alla scienza positiva e al metodo scientifico, quando si vogliono spiegare cose che vanno ben oltre le capacità delle discipline positive. Limitare, infatti, quel fenomeno misterioso e sempre nuovo che è la vita alla fisica, alla chimica o qualsiasi altra scienza naturale, rappresenta un errore imperdonabile. Coloro che si incamminano su questa strada, Tolstoj li chiama scribi, e son perduti. Fanno la fine del mugnaio che a furia di studiare ogni parte dell’ingranaggio del mulino, si dimentica del mulino stesso, o dell’intellettuale di Le anime morte di Gogol’, Kifa Mokeevič, che si perde in domande inutili, come quale spessore dovrebbe avere il guscio di un uovo di elefante, se esistesse. Attenzione, però, scrive Tolstoj, anche a chi crede di aver scoperto il segreto della vita e lo ha ridotto ad un arido dogma. Di questa specie sono i farisei, che, credendo di avere in mano il segreto stesso del mistero della fede, ne spengono il fuoco, lo trasformano in cenere, in materia morta che ostacola la vita. E qui c’è una silenziosa intesa con il Dostoevskij del Grande Inquisitore dei Karamazov.

Viene l’ora in cui la coscienza razionale supera le false dottrine, e l’uomo si ferma nel bel mezzo della vita ed esige una spiegazione[…] si guarda attorno, cerca una risposta alla sua domanda e non la trova. Troverà attorno a sé solo dottrine che risponderanno a domande che lui non si è mai fatto.

E nel farlo, l’individuo vive il dramma dello sdoppiamento: «E l’uomo si riconosce solo in tutto il mondo con quelle domande spaventose che gli lacerano l’anima. Eppure bisogna vivere. Un io, la sua individualità, gli ordina di vivere. Ma un altro io, la ragione, gli dice: “non si può vivere”».

Ed è a questi uomini e a queste donne che Tolstoj si rivolge, con Giovanni, Kant e Pascal, le cui parole pone come incipit del suo scritto. E subito il nostro trova una diagnosi. La lacerazione viene da un equivoco, da un fraintendimento: si considera vita ciò che non lo è mai stato, non lo sarà mai né può esserlo. E ciò è dovuto ad una contaminazione da falsa dottrina, la quale confonde la vita animale, e cioè nascita, crescita e morte, con la coscienza. E questa confusione, non può che creare malcontento nell’essere umano, perché «la legge superiore della vita, quella della sua coscienza razionale, esige altro da lui».

E come, l’uomo, prende coscienza di ciò? Con l’atto del negare, con un forte, solenne “no!” all’individualità animale. Ma, poiché, come insegnano i medievali, negando adfirmo[4], quel no diventa un sì ad altro: al Logos, e quindi Tolstoj torna a Giovanni. A questo punto, tuttavia, l’entusiasmo deve cessare, perché dopo aver proferito un no, ecco che l’uomo ne riceve uno a sua volta: è il mistero della ragione. «La ragione», scrive Tolstoj, «non può essere definita, e non abbiamo motivo di definirla, perché tutti noi non solo la conosciamo, ma non conosciamo altro che la ragione». L’affermazione è apparentemente paradossale, ma in realtà non lo è: conosciamo qualcosa, ma non possiamo definirla. Sembra essere uno scandalo, specialmente per l’influenza del metodo scientifico, del rigore linguistico, del retaggio aristotelico e tomista per cui conoscere è e deve essere definire, nella adaequatio rei et intellectus[5]. Ma, ad un certo punto, l’uomo scopre che non è affatto vero, che è possibile conoscere qualcosa senza poterla definire del tutto, allontanandosi da quella che Tolstoj chiama falsa coscienza, la quale confonde i piani: la conoscenza anatomica, meccanica e fisiologica serve, ma non ci soddisferà mai. Infatti: «né la ragione, né il grado di sottomissione a essa possono essere definiti dallo spazio o dal tempo. La vera vita umana avviene fuori dallo spazio e dal tempo». Tale conclusione ricorda quella del giovane Schopenhauer, filosofo particolarmente amato da Tolstoj. Il giovane di Danzica, infatti, nelle sue prime annotazioni, scrisse:

Riconosci la verità in te, riconosci nella verità te stesso; e guarda! Nello stesso istante riconoscerai esattamente, con meraviglia, nel tutto e in ogni cosa particolare, la patria che hai a lungo inutilmente cercato, che hai sognato con nostalgia, proprio nel luogo che ti sta attorno; lì il cielo tocca la terra[6].

È molto difficile che Tolstoj conoscesse questo frammento schopenhaueriano, ma tra i due vi era una affinità di pensiero, e, sempre con le parole di Schopenhauer: «le anime affini si salutano già vedendosi da lontano»[7]. Ma a Tolstoj tutto questo non basta, non si accontenta di aver localizzato la vera vita nella coscienza, e continua a domandarsi: cosa è la vera vita? E trova una risposta. La vita è l’aspirazione al bene quando entra in relazione con il mondo, questo è tutto quel che c’è da sapere e che si può realmente, solidamente sapere, senza ingannare nessuno, né se stessi né gli altri.

«Tutte le dottrine religiose non sono altro che definizioni della vita come aspirazione al bene reale, non ingannevole e accessibile all’uomo». Da questo, insiste Tolstoj, non si scappa, è una condizione unanime, oggettiva. Ricorre, così, di nuovo, a Giovanni, e conclude:

Questa voce non si può soffocare, perché non è una voce isolata, ma è la voce di tutta la coscienza razionale dell’umanità, che parla sia in ogni singolo uomo, sia negli uomini migliori dell’umanità, e oggi, oramai, nella maggioranza degli uomini.

Pertanto, né negli scribi, né nei farisei, ma nella propria coscienza come volontà di bene si trova la vita, e non a caso, una delle citazioni introduttive, viene proprio dalla Critica della ragione pratica: «der bestirnte Himmel über mir, und das moralische Gesetz in mir»[8], il cui imperativo incondizionato, come per Kant, così anche per Tolstoj, porta a Dio, e, nel suo caso particolare, a Cristo.

NOTE

[1] S.A. Tolstaja, I diari: 1862-1910, La Tartaruga, Milano 2010, p. 92; ibid., p. 7.

[2] Cfr. T. Špidlík, L’idea russa, un’altra visione dell’uomo, Lipa, 1994; H. Dahm, A. Ignatov, Storia delle tradizioni filosofiche dell’Europa orientale, a cura di R. Cristin, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2005.

[3] Anche questo tema tipico della filosofia e della scienza romantiche, Cfr. E. Cassirer, Storia della filosofia moderna vol. 4, il Saggiatore, Milano 1952; P. Rossi, Storia della Scienza, vol. 2 (L’età dei Lumi da Eulero a Lamarck), vol. 3 (La scienza e la società industriale: da Laplace alle scienze della vita), L’Espresso, Roma 1988; S. Poggi, Il genio e l’unità della natura, La scienza della Germania romantica (1790-1830), il Mulino, Bologna 2000; S. Poggi, Romanticism in Science: Science in Europe, 1790-1840, Kluwer Academic Pub, Dordrecht/Boston/London 1994.

[4] Lett. “affermo negando”.

[5] Lett. “adeguazione dell’intelletto alla cosa”.

[6] A. Schopenhauer, Scritti Postumi, vol. I.: I manoscritti giovanili (1804-1818), a cura di A. Hübscher, Adelphi, Milano 1996, Fr. 26, p.23.

[7] A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, vol.1 (Sulla filosofia delle università), a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1981, p. 199.

[8] Lett. il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me; I. Kant, Critica della ragion pratica, Conclusione, A 288, a cura di P. Chiodi, UTET, 2003, p. 177.

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