Carmen Dal Monte (1963), Ph.D., è CEO di Takeflight, società attiva nel settore dell’intelligenza artificiale per scuole e imprese. Ha insegnato etica della finanza e comunicazione della scienza in diverse università italiane. I suoi ambiti di ricerca includono l’etica, l’intelligenza artificiale, la comunicazione della scienza, i sistemi di classificazione nella storia della cultura e l’innovazione didattica nelle scienze umane e sociali. È autrice di saggi e articoli su questi temi.
L’Università di Bologna ha appena approvato una mozione ufficiale con cui condanna l’escalation militare israeliana nella Striscia di Gaza, invoca il riconoscimento dello Stato palestinese e introduce una vigilanza rafforzata sulle collaborazioni scientifiche con istituzioni israeliane. Il documento richiama le ordinanze della Corte Internazionale di Giustizia e definisce l’ateneo uno “spazio critico e decoloniale”. Il Senato accademico ha approvato il testo con ampia maggioranza.
E qui, prima di entrare nel merito, un cenno storico è doveroso. L’Università di Bologna è stata l’unico ateneo italiano ad avere, nel Ventennio, un rettore dichiaratamente nazista: Goffredo Coppola. Non un semplice fascista: un nazista convinto, fucilato a Dongo con Mussolini. È una pagina buia, spesso dimenticata. Ma dovrebbe insegnare qualcosa. Che le università, quando si piegano alle ideologie, non diventano più giuste. Solo più pericolose.
C’è qualcosa che inquieta, nella mozione approvata. Non perché prenda posizione – è legittimo, persino doveroso, per un’istituzione culturale riflettere sul mondo. Ma per come lo fa: con un linguaggio già scritto altrove, con un taglio che ricorda più un’assemblea militante che un consesso accademico. E con un silenzio – su Hamas – che pesa più di molte parole.
Il termine “genocidio” compare nella mozione con sorprendente leggerezza, come se bastasse citarlo per nobilitare il testo. Ma quel termine non è un’opinione: è una definizione giuridica precisa, che richiede prove, contesto, intenzione. Usarlo così, sulla base delle ordinanze interlocutorie della Corte Internazionale di Giustizia – che peraltro non ha mai condannato Israele – è un salto logico e morale che un’università dovrebbe evitare. Anche perché l’inflazione del termine finisce per svuotarlo, per banalizzarlo. E chi ha studiato la Shoah, o il Ruanda, lo sa bene. La mozione cita testualmente l’indicazione della CIG a Israele di «take all measures within its power to prevent the commission of all acts within the scope of Article II of [the Genocide] Convention» e di «prevent and punish the direct and public incitement to commit genocide in relation to members of the Palestinian group in the Gaza Strip». È un riferimento serio, ma non una prova: il salto dalla plausibilità all’accusa è tutt’altro che scontato.
Poi c’è il problema del doppio standard. La mozione condanna – giustamente – le violazioni israeliane. Ma non spende una sola parola su Hamas. Sulla sua natura terroristica. Sull’uso sistematico dei civili come scudi. Sui tunnel sotto le scuole. Nemmeno una riga. E allora non è più un testo universitario: è una narrazione selettiva. Una scelta politica travestita da analisi.
Ancora più preoccupante è l’annuncio di “vigilanza” sulle collaborazioni con istituzioni israeliane. Non per verificarne l’eticità in senso ampio – cosa legittima – ma per escluderle se ritenute non conformi a una certa visione del mondo. La ricerca non può essere filtrata così. Oggi Israele, domani chi? E con quale criterio? Si scivola facilmente verso una lista nera delle università “accettabili”. È già successo nella storia, e non finisce mai bene. La mozione afferma che l’ateneo ha già sviluppato «un meccanismo sistematico di ricognizione dei progetti scientifici e dei programmi di ricerca in essere con Università, aziende e tutte le Istituzioni pubbliche e private israeliane, al fine di escludere qualsiasi coinvolgimento nella violazione del diritto internazionale». È una frase che, più che tutelare la ricerca, sembra suggerire una presunzione di colpevolezza preventiva.
A rendere il quadro più chiaro – e più cupo – è l’uso della formula “spazio critico e decoloniale”. Parole che, nel vocabolario accademico contemporaneo, non indicano semplicemente apertura al confronto, ma aderenza a un preciso paradigma ideologico. Che può avere senso in una lezione, in un seminario, in un dibattito. Ma che diventa inquietante quando viene imposto come cornice istituzionale. La mozione parla esplicitamente del ruolo dell’Università come «spazio critico e decoloniale, esplicitamente e attivamente schierato contro ogni forma di oppressione, apartheid e violenza istituzionalizzata». È una dichiarazione programmatica che, in nome dell’impegno, rischia di cancellare la complessità.
Non si chiede all’Alma Mater di tacere. Si chiede di pensare. Di pensare davvero. Di non usare il linguaggio dell’attivismo, ma quello della complessità. Di non scegliere un campo, ma di costruire un luogo dove il pensiero può ancora permettersi di non obbedire. Perché se un’università smette di interrogare il reale, se abdica alla complessità in nome della propaganda, non sta facendo cultura: sta facendo militanza. E quando l’accademia si fa militanza, non illumina: acceca. Questa mozione non è un atto di coscienza. È un obbrobrio travestito da etica. E resterà come una delle pagine più imbarazzanti della storia recente dell’Alma Mater.