Nathan Greppi (1994), giornalista pubblicista, è laureato in Beni culturali (Università degli Studi di Milano) e in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale (Università degli Studi di Parma). Ha scritto per le testate «Mosaico», «Cultweek», «Fumettologica» e «Il Giornale Off».

Dopo lo scoppio delle ostilità tra Israele e i palestinesi a seguito dei massacri compiuti da Hamas il 7 ottobre, in tutto il mondo si è assistito da un lato ad un’impennata delle espressioni di antisemitismo e all’istigazione all’odio nei confronti di ebrei e israeliani, e dall’altro lato agli appelli per la pace.

Alcuni di questi fatti non sono nuovi, ma presentano diverse analogie con situazioni già viste nel secolo scorso. A tal proposito, risulta assai utile rivedere il documentario del 1968 Dopo venti anni di odio, diretto da Gilberto Tofano e realizzato in collaborazione con la presidenza del Consiglio dei Ministri di Israele.

Realizzato a vent’anni esatti dalla nascita dello Stato d’Israele e ad un anno dalla Guerra dei sei giorni, trattava i rapporti conflittuali tra ebrei e arabi nella regione. L’11 ottobre 2023 è stato reso liberamente fruibile sul canale YouTube dell’Archivio Luce Cinecittà[1].

Il documentario si apre con una mostra a Khan Yunis (occupata brevemente nel ‘67 durante la Guerra dei sei giorni) su dipinti e illustrazioni che la propaganda araba usava per invocare la distruzione di Israele. Una retorica che serviva ai regimi dei Paesi arabi per «tentare di fare dimenticare agli arabi del Medio Oriente i loro problemi reali», veniva detto dalla voce narrante nel documentario. «Da sempre, governi feudali e dittature hanno usato la presenza di un nemico esterno per ridurre al silenzio gli oppositori interni».

Per questo, Israele è stato «presentato con i colori dell’infamia, con il volto della peste, insegnando ai ragazzi a odiarlo più di ogni altra cosa». Dopo la nascita d’Israele, infatti, molti vignettisti sui principali giornali arabi hanno fatto propri i linguaggi tipici della propaganda antisemita utilizzati nella Germania nazista e dalla Chiesa preconciliare, dipingendo gli ebrei come il male assoluto e una nemesi da annientare a qualunque costo[2].

Una parte delle riprese sono state girate nei campi profughi a Gaza; all’epoca, invece di Hamas, ad animare il desiderio dei palestinesi di distruggere Israele era principalmente il panarabismo, che aveva il suo massimo esponente nel presidente egiziano Nasser.

Pur essendo foriero di un nazionalismo laico e slegato dalla componente religiosa, il movimento panarabo non era da meno nell’istigazione all’odio. Tanto che il documentario denuncia il loro aver investito più nel creare campi di addestramento per le loro milizie che nel migliorare la qualità della vita dei civili.

Viene fatto notare come mentre la popolazione viveva di stenti nei campi profughi, i leader militari arabi vivevano spesso in ville lussuose. Una situazione simile a quella odierna, dal momento che mentre il loro popolo soffre, i leader di Hamas Khaled Meshaal e Ismail Haniyeh vivono nel lusso in Qatar, con patrimoni miliardari[3].

Nel documentario si sostiene che il desiderio degli arabi di portare avanti le ostilità non porta a nessun risultato positivo, ma solo ad altro dolore e miseria:

Se si prepara la guerra non c’è tempo per la pace. Non resta niente per trasformare il volto immutabile della miseria. E i villaggi di fango forse scompariranno sotto il cannone ma non per lasciare il loro posto ad abitazioni più umane. E saranno ancora una volta i campi profughi a prosperare, a crescere, a dilatarsi per far posto a ragazzi che non potranno prendere che altra via se non quella che conduce ai campi di battaglia. Eppure in Medio Oriente ci sarebbe ben altro da fare: acque che ora si perdono in pantani di sabbia da incanalare, intere aree da irrigare e dissodare, uomini da aiutare a liberarsi dal privilegio feudale perpetuato ancora oggi dalle caste militari e dai simboli del loro potere.

Sia il percorso artistico che il legame con il mondo ebraico e Israele di Tofano affondavano le proprie radici nella sua famiglia: figlio dell’autore e fumettista Sergio Tofano[4] e dell’attrice Rosetta Cavallari, nel 1943 l’allora quattordicenne Gilberto contribuì a salvare assieme alle sue zie dei loro vicini di casa ebrei dalle deportazioni naziste[5].

Negli anni ’60 si recò in Israele, dove realizzò nel 1969 il film Matzor (“Assedio”), che venne presentato in concorso al Festival di Cannes. In quegli anni, si convertì all’ebraismo e sposò un’israeliana, mettendo radici nel paese[6]. Proprio la protagonista di Matzor, l’attrice Gila Almagor (soprannominata la “Sophia Loren israeliana”), nel 2023 ricordò Tofano come un «regista italiano eccezionale, ma anche un grande amico»[7].

Se sotto molti aspetti il documentario è stato profetico nel raccontare situazioni che stiamo vivendo ancora oggi, sotto altri invece sembra aver peccato di un eccessivo ottimismo per il futuro: «All’avvenire servono i giovani, ai giovani una preparazione ad affrontarlo. Così, dimenticata la scuola dell’odio, la speranza ha anche il volto di queste ragazze di Gaza. Questa terra è ancora una strada da percorrere, un mondo aperto impastato di antico e di nuovo. Ciò che le serve dopo vent’anni d’odio è un sicuro avvenire di pace». Un appello che oggi suona quasi come un’utopia irrealizzabile, visto che dopo altri 56 anni a prevalere nell’area sono il rancore e la disillusione.

NOTE

[1] https://www.youtube.com/watch?v=8WiSGw8-Tys

[2] Si veda J. Kotek, Cartoons and Extremism: Israel and the Jews in Arab and Western Media, Vallentine Mitchell, Elstree 2008.

[3] Hamas, la vita dorata (e al sicuro) dei vertici: corruzione e contrabbando a Gaza per vivere nel lusso all’estero, in “Il Gazzettino”, 31 ottobre 2023.

[4] Sergio Tofano è noto per aver inventato il personaggio a fumetti del Signor Bonaventura, apparso per la prima volta sul “Corriere dei Piccoli” nel 1917.

[5] S. Della Seta, Gilberto Tofano (1929 – 2020), in “Moked”, 5 febbraio 2020.

[6] M. Lomonaco, Dal ‘Signor Bonaventura’ a Israele, storia dei Tofano, in “Ansa”, 5 settembre 2023.

[7] F. Martegani, “Sotto l’albero delle giuggiole” secondo romanzo di Gila Almagor, in “JoiMag”, 1 febbraio 2023.

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